«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 1 (15 Febbraio 1992)

 

le recensioni

 

Il rosso e il nero

 


Ha ragione Mario Isnenghi allorché scrive -sull'Indice di novembre- che per decenni, a parlare della guerra civile per il periodo compreso tra il '43 e il '45, furono soltanto i fascisti. Per tutti gli altri si doveva parlare di «guerra di liberazione nazionale», di «secondo Risorgimento» ecc. Per tutti gli altri il Fascismo era il male e l'Antifascismo era il bene: da una parte c'era l'Oppressione, dall'altra il Riscatto; il Nero era il colore della morte, il Rosso quello della resurrezione. I fascisti avevano facce truci e patibolari, erano vili scherani del Tedesco Invasore, bruciavano, torturavano. I partigiani avevano lo sguardo bello e fiero, proteso verso l'aurora, e lottavano per il Sacro Ideale della libertà d'Italia, stretti in un puro sodalizio con i Martiri delle Guerre d'Indipendenza.
Un'oleografia raggiante di colori forti e netti, di immagini ben scandite: i Mostri, i Santi. Non poteva durare, faceva venire il mal di stomaco anche a chi la Resistenza l'aveva fatta sul serio e anche accettando le ragioni storiche e politiche delle Radiose Primavere di Mattanza, sapeva di aver fatto a pezzi ragazzi con cui, magari, aveva condiviso il profilo di un campanile, l'aspro dolcissimo di un'osteria di paese, il profumo di una donna nelle lunghe passeggiate sulla piazza, di domenica, tra i tigli in fiore.
Non poteva durare. Quando i conti con la storia non vengono fatti e si tende a nascondere la verità dietro la retorica arrogante di chi ha vinto, e non ci si vuoi capire che Ettore è stato testimone come Achille e che l'uno e l'altro hanno diritto alla gloria e alla memoria, se l'uno e l'altro si sono sacrificati, abbandonando la finestra da cui era comodo guardare, e scendendo in strada; quando, mettendosi all'occhiello un distintivo o una fascia attorno al braccio, non si capisce che la furia con cui si abbatte quello che hic et nunc è il Nemico, si deve poi sciogliere della visione ampia e chiara della comunità da ricomporre; quando si trasforma la rabbia, che è calda e atroce, nel veleno che è freddo e abbietto, le contraddizioni negate o mascherate alla fine esplodono. E la verità, non più parolaccia da cancellare dai vocabolari o parola/truffa da rivestire con i panni dell'ideologia, viene fuori.
Claudio Pavone, di cui la Bollati Boringhieri ha dato alle stampe "Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza", è un uomo di sinistra, che ha fatto il partigiano e che oggi, all'occorrenza, ripeterebbe quella scelta: ma è anche uno studioso, uno storico, un archivista che ha pratica di date, di documenti, di memoriali; e che rinnegherebbe la sua vocazione se si sottraesse al difficile compito di ricostruire, dunque di capire, sulla base dei fatti.
Un'impresa scomoda, anche urtante, va detto subito: ognuno ha la sua tetra collezione di scheletri nell'armadio ed empio è chi si azzarda a rivelarlo; e poi, perché -si chiede l'animuccia faziosa- i vincitori dovrebbero continuare a lustrare l'aureola del trionfo e i vinti quella del martirio? Perché è vero che anche il martirio rende e che c'è gente che campa sulle geremiadi reducistiche. Il fatto è che, così operando (e così omettendo ogni processo di verifica), ci si affaccia al Duemila -è a due passi, ricordiamocelo- con sentimenti e risentimenti che sono ancora lì, sull'attenti, pronti a ripetere le tragiche sequenze dell'odio civile.
Non basta: un popolo per cui l'eredità delle fazioni continua a pesare, come un ricatto, sullo slancio di andare avanti, è costretto a sorbirsi la classe politica che si ritrova e che ha tutto l'interesse a non sciogliere sul serio gli intricati nodi del passato.
Ma il discorso ci porterebbe fuori dai limiti di una recensione. E allora diciamo che il libro di Pavone viene ad agitare dei problemi, più ancora che a dare delle risposte. Non è poco: uscire dall'enfasi declamatoria per caricarsi sulle spalle una tragedia vissuta come uomo di parte e storicizzarla, è un atto di coraggio. Lo è ancora di più il gusto di scavare, di portare alla luce. Mettendo da parte i santini. I partigiani non avevano le alucce. Pavone lo sa, lo dice e spiega di che cosa si nutriva la moralità della Resistenza. Nasceva da una scelta che stracciava le pagine dei codici ed era, inevitabilmente, barbara, nel senso che doveva imparare a parlare un'altra lingua. Quella della guerra civile, per l'appunto.
Pavone è antifascista ma i fascisti nel suo libro non hanno la coda. Credono, si battono, si immolano. Per l'Italia, per l'onore, per la Rivoluzione. Pavone è antifascista. Quell'Italia, quell'onore, quella Rivoluzione non sono i suoi, non sono quelli dei partigiani. Ma di certe motivazioni deve prendere atto, magari confrontando le lettere di condannati a morte della Resistenza e di condannati a morte della RSI, per vedere in quante occasioni le scelte -e anche la decisione di morire- si assomigliassero.
Ci vuole coraggio a scavare, a portare alla luce. Anche a costo di farsi male (come diceva e scriveva un uomo dell'altra parte della barricata: Beppe Niccolai). È così che si cresce. Guardandoci allo specchio. Era fatta così la nostra passione: aveva dalla sua queste ragioni quel nostro esser barbari. Da qualunque parte si sia stati allora, da qualunque parte si stia adesso, è puntando bene gli occhi sul passato che si scrive il futuro. Anche, è ovvio, parlando dei delinquenti che nella guerra civile ci sguazzarono. Ma senza mettersi a fare contabilità di cadaveri. Ognuno si assuma la responsabilità di quel che allora volle, di quello in cui allora credette, di quello per cui allora uccise. È inutile battezzare con aggettivi la guerra civile: è sempre una sagra di sangue. Guardiamo, cerchiamo di capire perché, in nome di che, gli amici che passeggiavano insieme sulla piazza, la domenica, tra i tigli in fiore, scelsero chi una parte, chi un'altra, augurandosi di non incontrarsi perché si sarebbero scannati.
Il partigiano Claudio Pavone ci fa entrare nel clima di due anni bollenti nei quali, in una Italia allo sbando, con una monarchia in fuga e un esercito disgregato, alcuni disperati pieni di speranza scelsero la guerra civile, rivendicando il diritto a credere in una patria, in uno Stato, nell'utopia di una rivoluzione. Partigiani e fascisti, quando lo furono sul serio, e ognuno a suo modo (ha importanza qui dire che saremmo stati dalla parte opposta a quella di Pavone?), testimoniarono che oltre all'Italia della disfatta e a quella dell'accomodamento poteva esistere un'Italia della rivalsa. Credettero, ammazzarono in nome della loro fede: la passione politica e civile travolse quella che comunemente si chiama moralità, anzi, ne inventò un'altra. Dal profilo duro, spietato. E i rivoluzionari erano su entrambi i fronti, anche se Pavone accredita dignità ideologica e rigore alle scelte dei resistenti; laddove vede una specie di cupa affettività impastata di cascami romantici e decadenti, di tenace fideismo e di cultura della morte, in coloro che scelsero la Repubblica Sociale.
Guerra patriottica, guerra civile e guerra di classe: questi furono, per Pavone, i contrassegni della lotta partigiana. Il fascista era il traditore, quello che si era alleato con i Tedeschi; ma spesso era anche il nemico personale, qualche volta si confondeva con il borghese, con il padrone.
Guerra di liberazione dal nemico, guerra per la rivoluzione politica e sociale, almeno per i non pochi resistenti che credevano nel comunismo (e che, oggi, non hanno più gli occhi per piangere); dall'altra parte non si combatteva forse nel nome del sangue contro l'oro, dell'identità nazionale da ricostituire, di un'Italia che tenesse in pugno le proprie tradizioni e il proprio destino, di una vera giustizia sociale? Pavone fa una scelta di campo, ma gli altri non sono più dèmoni, anche se sono ancora i vecchi nemici. Da ascoltare, fosse anche per contraddirli.

 

Federico Acciari

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