Perchè Tabula Rasa
Chi non comprende il rischio senza interesse, la passione senza vizio, non può
capirne le motivazioni. Neppure può permettersi di correre il pericolo che ne
viene dalla battaglia aperta, su tutti i fronti, senza compenso di sorta. Altri
ancora, incapaci di generosità, non possono neppure sentire la poesia del
sacrificio quando occorre combattere senza odio e vivere senza tornaconto.
Al di là delle lotte passate, oggi cerchiamo, anche nel vecchio avversario in
buona fede, un compagno, un viandante come noi, sulla strada che conduce alla
chiarificazione di tanti enigmi, di tante intolleranze, di tante incomprensioni.
Presuntuosi, noi di «Tabula rasa». Pensiamo di aver preso contatto col sole, di
aver dissetato il nostro spirito nell'oasi, di esserci sentiti bruciare sul
rogo.
O forse, chissà! siamo gli adolescenti avidi di luce che bevvero appena qualche
sorso alla sorgente del sole e rimasero con la sete nell'ombra. Oppure, chissà!
crediamo di essere capaci di fare ciò che fece Michelangelo, genio selvaggio:
portare alla luce, senza destarla, la Notte addormentata in una crisalide di
marmo. Ma una cosa è certa: dei fiori sentiamo tutto il profumo, dei frutti
tutto il sapore.
Per questo siamo usciti dal tempio infestato da mercanti, da prestatori di
lacrime ad usura che esplicano la mansione di rigattieri dell'altrui sacrificio,
da rivenditori di elogi funebri, da speculatori della morte, da trafficanti
della nostalgia.
Lo sappiamo: le solite cassandre, presaghe di sventura, ci annunciano per via
l'ingratitudine e l'oblio, un deserto di freddezza ed un oceano di solitudine.
Non ce ne curiamo. La solitudine acuisce la mente, feconda il pensiero, rende
sereni i giudizi. Siamo usi a viver in siffatta maniera poiché abbiamo la
certezza che tal comportamento è privilegio di pochi, ma agguerriti uomini. Che
riscuoton consenso e stima. A ciò noi aneliamo. Soprattutto.
Abbiamo avuto la capacità di separarci dal male per guardarlo dall'alto. Nella
bolgia rimangono i deboli che vi si immergono per berne tutto il veleno e ai
margini del trono del potere (immaginario ed irraggiungibile), vagano nella
paura e nella smodata ambizione di prebende. Senza badare al tipo di sponsor,
anche se costui è afflitto da interminabili turbe climateriche che neppure il
prof. Ferracuti riesce a curare. E s'ingrossa la folla dei cortigiani. Purché
«se magna», va bene bene così.
Noi siamo pochi, è vero. Ma non ci turba la sensazione del deserto. Andiamo
avanti. Con la nostra terrena miseria, con la nostra indomabile fierezza. Niente
ci può disperare perché abbiamo tanta fede, parliamo con la gente, la gente ci
ascolta, la gente è la nostra bandiera. La gente, il popolo, quel gigante
fanciullo ignaro della sua forza, conscio soltanto della sua fatica e delle sue
privazioni. Il popolo che soffre, che lavora e alla cui ombra si muovono i
piccoli uomini della scena politica, i satiri corrotti e impotenti della vita
pubblica, i vecchi libidinosi di potere che nella fossa ormai spalancata alla
loro canizie senza decoro, vi vorrebbero trascinare anche la giovinezza
incandescente che non vuole, non può e non deve morire.
La società sta vivendo una fase di transizione. La filosofia moltiplica i suoi
sistemi, la scienza le sue leggi, il commercio i suoi mercati, ma la vita di
ognuno impoverisce giorno dopo giorno. La tristezza di chi soffre non può durare
in eterno. Il nostro modo di intendere la politica esula da quello che si
definisce «tradizionale». Non c'è una maniera onesta o disonesta di intenderla.
Essa non può avere aggettivazioni. Vogliamo parlare dei morti due volte defunti
alla vita e alla memoria, dei morti oscuri due volte seppelliti nell'oblio e
nella fossa, dei non accolti alla fama, dei ripudiati dalla sorte, dei gregari
della vita, dei diseredati che non possono levare la fronte alla superficie
dell'opinione.
Questi gli scopi della nostra battaglia, della nostra nuova avventura. Più
grande sarà il sacrificio, maggiore sarà la nostra libertà. Solo chi è libero
può vivere intensamente, scacciare le tentazioni, scegliersi le amicizie. Noi,
di «Tabula rasa», ce lo possiamo permettere. Ci siamo dimissionati dall'uniforme
canea della vita «politica» del sistema per seminare il sale sul suo terreno.
Per inaridirlo totalmente.
a. c.
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