«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 1 (15 Febbraio 1992)

 

Perchè Tabula Rasa

 


Chi non comprende il rischio senza interesse, la passione senza vizio, non può capirne le motivazioni. Neppure può permettersi di correre il pericolo che ne viene dalla battaglia aperta, su tutti i fronti, senza compenso di sorta. Altri ancora, incapaci di generosità, non possono neppure sentire la poesia del sacrificio quando occorre combattere senza odio e vivere senza tornaconto.
Al di là delle lotte passate, oggi cerchiamo, anche nel vecchio avversario in buona fede, un compagno, un viandante come noi, sulla strada che conduce alla chiarificazione di tanti enigmi, di tante intolleranze, di tante incomprensioni.
Presuntuosi, noi di «Tabula rasa». Pensiamo di aver preso contatto col sole, di aver dissetato il nostro spirito nell'oasi, di esserci sentiti bruciare sul rogo.
O forse, chissà! siamo gli adolescenti avidi di luce che bevvero appena qualche sorso alla sorgente del sole e rimasero con la sete nell'ombra. Oppure, chissà! crediamo di essere capaci di fare ciò che fece Michelangelo, genio selvaggio: portare alla luce, senza destarla, la Notte addormentata in una crisalide di marmo. Ma una cosa è certa: dei fiori sentiamo tutto il profumo, dei frutti tutto il sapore.
Per questo siamo usciti dal tempio infestato da mercanti, da prestatori di lacrime ad usura che esplicano la mansione di rigattieri dell'altrui sacrificio, da rivenditori di elogi funebri, da speculatori della morte, da trafficanti della nostalgia.
Lo sappiamo: le solite cassandre, presaghe di sventura, ci annunciano per via l'ingratitudine e l'oblio, un deserto di freddezza ed un oceano di solitudine. Non ce ne curiamo. La solitudine acuisce la mente, feconda il pensiero, rende sereni i giudizi. Siamo usi a viver in siffatta maniera poiché abbiamo la certezza che tal comportamento è privilegio di pochi, ma agguerriti uomini. Che riscuoton consenso e stima. A ciò noi aneliamo. Soprattutto.
Abbiamo avuto la capacità di separarci dal male per guardarlo dall'alto. Nella bolgia rimangono i deboli che vi si immergono per berne tutto il veleno e ai margini del trono del potere (immaginario ed irraggiungibile), vagano nella paura e nella smodata ambizione di prebende. Senza badare al tipo di sponsor, anche se costui è afflitto da interminabili turbe climateriche che neppure il prof. Ferracuti riesce a curare. E s'ingrossa la folla dei cortigiani. Purché «se magna», va bene bene così.
Noi siamo pochi, è vero. Ma non ci turba la sensazione del deserto. Andiamo avanti. Con la nostra terrena miseria, con la nostra indomabile fierezza. Niente ci può disperare perché abbiamo tanta fede, parliamo con la gente, la gente ci ascolta, la gente è la nostra bandiera. La gente, il popolo, quel gigante fanciullo ignaro della sua forza, conscio soltanto della sua fatica e delle sue privazioni. Il popolo che soffre, che lavora e alla cui ombra si muovono i piccoli uomini della scena politica, i satiri corrotti e impotenti della vita pubblica, i vecchi libidinosi di potere che nella fossa ormai spalancata alla loro canizie senza decoro, vi vorrebbero trascinare anche la giovinezza incandescente che non vuole, non può e non deve morire.
La società sta vivendo una fase di transizione. La filosofia moltiplica i suoi sistemi, la scienza le sue leggi, il commercio i suoi mercati, ma la vita di ognuno impoverisce giorno dopo giorno. La tristezza di chi soffre non può durare in eterno. Il nostro modo di intendere la politica esula da quello che si definisce «tradizionale». Non c'è una maniera onesta o disonesta di intenderla. Essa non può avere aggettivazioni. Vogliamo parlare dei morti due volte defunti alla vita e alla memoria, dei morti oscuri due volte seppelliti nell'oblio e nella fossa, dei non accolti alla fama, dei ripudiati dalla sorte, dei gregari della vita, dei diseredati che non possono levare la fronte alla superficie dell'opinione.
Questi gli scopi della nostra battaglia, della nostra nuova avventura. Più grande sarà il sacrificio, maggiore sarà la nostra libertà. Solo chi è libero può vivere intensamente, scacciare le tentazioni, scegliersi le amicizie. Noi, di «Tabula rasa», ce lo possiamo permettere. Ci siamo dimissionati dall'uniforme canea della vita «politica» del sistema per seminare il sale sul suo terreno. Per inaridirlo totalmente.

 

a. c.

Indice