Accogliamo l'ospite
inatteso
Caro Carli,
debbo chiedere scusa a te ed ai lettori perché il ritardo nella chiusura del
primo numero di "Tabularasa" è anche colpa mia. Il tuo sforzo eroico
nell'infilarti in questa nuova avventura meriterebbe veramente un più grande
impegno da parte di tutti noi.
E proprio su questo voglio cominciare a riflettere, perché è di vero eroismo che
si tratta. Tu che da anni, da tanti anni, dedichi ogni tua energia, ogni tuo
minuto ad un impegno gravoso, senza ricevere, senza cercare nessun tipo di
ricompensa (neanche onorifica), testimoni una figura di uomo politico che sembra
scomparsa dal nostro tempo. È facile gettarsi nella mischia quando gli animi
sono infiammati e agire di slancio, ancora più facile è programmarsi una
carriera. Tu invece riesci a dare il segno della continuità e stimolarci anche
quando le acque sembrano ferme e la routine induce ad occupazioni meno
entusiasmanti. Anche quando, come nel nostro caso, abbiamo scelto di rinunciare
anche a quel rassicurante guscio di un partito, che può darti l'illusione di
qualche gratificazione.
La politica come sacrificio, come dedizione.
E quindi, grazie Antonio, che ci ricordi ancora che questa possibilità esiste e
che la razza non si è estinta e che vale ancora la pena fare, impegnarsi.
Proprio di questo c'è bisogno in un momento in cui il grigiume che ci sommerge
lascia intravedere le sue ampie crepe e ci apre nuove occasioni. Forse davvero
potremo dire presto: non moriremo democristiani!
Rimbocchiamoci le maniche dunque e, fedeli all'impegno assunto pochi mesi fa,
riprendiamo la nostra incerta strada, facciamoci lievito, per quello che
possiamo e che ci compete, e, insieme ai tanti altri spezzoni in movimento della
politica italiana facciamo la nostra parte. Noi formati alla scuola di troppe
sconfitte cominciamo a vedere realizzarsi alcune delle nostre speranze,
assistiamo al delinearsi di cambiamenti repentini e ne avvertiamo l'importanza
ed i rischi.
Qualcuno prefigura per l'Italia un avvenire «polacco», con la frantumazione
ingovernabile della politica. Per quanto questi paragoni geografici possano
valere io sono più portato a vedere un destino «russo». In Italia come in Unione
Sovietica esistono dei poteri schiaccianti, onnipervasivi, capaci di controllare
gli apparati politici, militari, economici, in grado di esercitare pressioni
inaudite sulle coscienze. Un potere che, attraverso pratiche consociative, ha
coperto perfino il ruolo dell'opposizione. Eppure questi poteri potrebbero
trovarsi, nell'arco di poche ore, totalmente privi di contenuti, di forza, di
consenso.
Non so se le elezioni di aprile faranno già registrare questa catastrofe, con le
leghe che contendono la maggioranza alla DC in vaste zone del Nord, con un PDS
in rotta, con un movimento riformatore extraparlamentare che ha svuotato di
significato quindici anni di illusioni craxiane. Sono però certo che esse
rappresenteranno il limite: la volta successiva non torneremo a votare con gli
stessi partiti, con gli stessi schieramenti in campo.
Un potere così forte e radicato non si lascia però sostituire in maniera
indolore ed i suoi scricchiolii evocano scene sinistre. Sarà un caso che
ricominciano gli attentati ai treni?
Ma ancor più della confusione e della violenza i rischi della disperazione sono
negli scenari politici che si vanno configurando. I veleni diffusi dalle
esternazioni di Cossiga hanno prodotto un effetto perverso, costruendo una
trappola che potrebbe essere mortale e che, comunque, devia dalla portata reale
degli eventi. La divisione in due fronti, strumentalmente usati da tutti gli
attori, prò o contro Cossiga ha infatti creato la falsa idea che esistono due
soli schieramenti: quello del cambiamento, rappresentato dal presidente, con la
sua armata Brancaleone di Craxi, Fini e Altissimo e quello della difesa
dell'esistente, in cui sono paradossalmente infilati Occhetto, Cossutta e
Pannella.
Possibile che siamo destinati a scegliere tra un fronte para-golpista, piduista,
massonico ed uno strumentale conservatorismo azionista che si limita a difendere
quel che c'è non sapendo dare un nome alla richiesta di cambiamento che esiste?
E allora ecco il tuo esempio, Antonio, il nostro esempio, la nostra strada.
Quella di chi sceglie di uscire dai giochi preconfezionati ma non rinuncia a
fare politica, torna anzi a fare politica, a giocare giochi veri e si mette in
campo, non in cerca di collocazioni ma di interlocutori. Ed interlocutori ne
stiamo trovando, piccoli, insignificanti quanto siano, senza bisogno di
costituirci in gruppo, senza darci un nome o una fisionomia, verifichiamo
vivificanti intersezioni, apriamo nuove strade.
Giorni fa ho partecipato ad un bellissimo incontro promosso da Donnici in
Calabria. Parlando sono tornato ad usare la metafora nicciana dell'«ospite
inatteso» cui dobbiamo prepararci ad aprire la porta.
Dopo di me ha parlato il rappresentante del "Movimento Meridionale" — un antico,
radicato movimento di intellettuali calabresi «di sinistra». Concludendo il suo
intervento e con una vena di commozione, il nostro ci ha detto: «Voi non siete
un ospite inatteso: è una vita che vi stavamo aspettando!».
Umberto Croppi
Caro Umberto,
è vero, attendevo il tuo «pezzo» per chiudere questo primo numero di
"Tabularasa". Me lo hai fatto sospirare... poi la sorpresa, certo non sgradita
ma, credimi, pubblico malvolentieri il tuo articolo. Per me, uomo schivo, che
odio i complimenti, incapace di applaudire chicchessia, è una forzatura. Ma mi
consolo e gioisco, caro Umberto, nel vedere espressi i sentimenti che ti
muovono. Vuol dire che quella parte di comunità che ha abbandonato il «guscio
rassicurante di un partito», ha ancora integre quelle valenze per le quali e con
le quali, molti anni fa, metteva a repentaglio la propria vita, i propri beni,
la propria famiglia.
Oggi che tutto è stato gettato al vento, se quattro gatti quali noi siamo si
accomunano in affettuosa e reciproca stima, è segno che siamo vivi, che possiamo
incutere rispetto. Ecco, allora, che le tue riflessioni, il tuo convincimento
che la politica «deve essere sacrificio e dedizione», mi gratificano e mi
inducono a credere che vi sono ancora degli uomini. Giovani: tu, Beniamino,
Peppe, Tonino, Luciano, il lavativo Pietrangelo, l'impetuoso Luigi, ed altri
ancora. Anche tutti quei ragazzi che si stanno dibattendo nella bolgia dei
fraudolenti, in quel certo ambiente.
Vi vogliamo bene (e parlo anche a nome di chi ve ne voleva di più, che ci ha
lasciati anzitempo) perché siete migliori di noi. Pur con i nostri pessimi
esempi del passato, avendo noi accettato anche situazioni compromissorie, voi
riuscite a meravigliarci. Con quella vostra sensibilità e passione, con quel
saper nutrire affetti, con quel farvi trasportare dal cuore. Nonostante
delusioni, amarezze, voci malevole, occhiate ostili.
Continuiamo. Facciamolo per noi stessi, per essere in pace con la nostra
coscienza. Le «grandi méte» facciamole agognare a coloro che si sono ridotti a
fare gli interpreti del sardegnolo. A chi svende sangue e dolore che hanno
segnato la nostra vita, la vita di tutti gli italiani, per mettersi al servizio
del sistema.
Battiamoci per noi stessi. Per non poltrire, per non far parte del gregge
sospinto da cani rabbiosi. Ognuno di noi può operare vivendo tra la gente
affinchè la gente riprenda fiducia in sé stessa. Vivere come in missione, con
semplicità. Non come depositari del verbo, ma come assetati della verità, alla
continua sua ricerca. Sempreché esista.
Azzardiamo la scommessa che gli italiani saranno capaci, in breve tempo, a
toglier di mezzo gli spocchiosi e che saranno capaci, anche, di chieder conto di
tante misteriose subitanee ricchezze.
Viviamo, ragazzi. E quando il rischio incombe, attendiamo entusiasti che esso si
presenti. Per viverlo.
Viviamola, Umberto, questa avventura. Insieme a tutti i giovani, con tutti
quelli che non ci stanno.
a. c.
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