«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 1 (15 Febbraio 1992)

 

Accogliamo l'ospite inatteso

 


Caro Carli,
debbo chiedere scusa a te ed ai lettori perché il ritardo nella chiusura del primo numero di "Tabularasa" è anche colpa mia. Il tuo sforzo eroico nell'infilarti in questa nuova avventura meriterebbe veramente un più grande impegno da parte di tutti noi.
E proprio su questo voglio cominciare a riflettere, perché è di vero eroismo che si tratta. Tu che da anni, da tanti anni, dedichi ogni tua energia, ogni tuo minuto ad un impegno gravoso, senza ricevere, senza cercare nessun tipo di ricompensa (neanche onorifica), testimoni una figura di uomo politico che sembra scomparsa dal nostro tempo. È facile gettarsi nella mischia quando gli animi sono infiammati e agire di slancio, ancora più facile è programmarsi una carriera. Tu invece riesci a dare il segno della continuità e stimolarci anche quando le acque sembrano ferme e la routine induce ad occupazioni meno entusiasmanti. Anche quando, come nel nostro caso, abbiamo scelto di rinunciare anche a quel rassicurante guscio di un partito, che può darti l'illusione di qualche gratificazione.
La politica come sacrificio, come dedizione.
E quindi, grazie Antonio, che ci ricordi ancora che questa possibilità esiste e che la razza non si è estinta e che vale ancora la pena fare, impegnarsi. Proprio di questo c'è bisogno in un momento in cui il grigiume che ci sommerge lascia intravedere le sue ampie crepe e ci apre nuove occasioni. Forse davvero potremo dire presto: non moriremo democristiani!
Rimbocchiamoci le maniche dunque e, fedeli all'impegno assunto pochi mesi fa, riprendiamo la nostra incerta strada, facciamoci lievito, per quello che possiamo e che ci compete, e, insieme ai tanti altri spezzoni in movimento della politica italiana facciamo la nostra parte. Noi formati alla scuola di troppe sconfitte cominciamo a vedere realizzarsi alcune delle nostre speranze, assistiamo al delinearsi di cambiamenti repentini e ne avvertiamo l'importanza ed i rischi.
Qualcuno prefigura per l'Italia un avvenire «polacco», con la frantumazione ingovernabile della politica. Per quanto questi paragoni geografici possano valere io sono più portato a vedere un destino «russo». In Italia come in Unione Sovietica esistono dei poteri schiaccianti, onnipervasivi, capaci di controllare gli apparati politici, militari, economici, in grado di esercitare pressioni inaudite sulle coscienze. Un potere che, attraverso pratiche consociative, ha coperto perfino il ruolo dell'opposizione. Eppure questi poteri potrebbero trovarsi, nell'arco di poche ore, totalmente privi di contenuti, di forza, di consenso.
Non so se le elezioni di aprile faranno già registrare questa catastrofe, con le leghe che contendono la maggioranza alla DC in vaste zone del Nord, con un PDS in rotta, con un movimento riformatore extraparlamentare che ha svuotato di significato quindici anni di illusioni craxiane. Sono però certo che esse rappresenteranno il limite: la volta successiva non torneremo a votare con gli stessi partiti, con gli stessi schieramenti in campo.
Un potere così forte e radicato non si lascia però sostituire in maniera indolore ed i suoi scricchiolii evocano scene sinistre. Sarà un caso che ricominciano gli attentati ai treni?
Ma ancor più della confusione e della violenza i rischi della disperazione sono negli scenari politici che si vanno configurando. I veleni diffusi dalle esternazioni di Cossiga hanno prodotto un effetto perverso, costruendo una trappola che potrebbe essere mortale e che, comunque, devia dalla portata reale degli eventi. La divisione in due fronti, strumentalmente usati da tutti gli attori, prò o contro Cossiga ha infatti creato la falsa idea che esistono due soli schieramenti: quello del cambiamento, rappresentato dal presidente, con la sua armata Brancaleone di Craxi, Fini e Altissimo e quello della difesa dell'esistente, in cui sono paradossalmente infilati Occhetto, Cossutta e Pannella.
Possibile che siamo destinati a scegliere tra un fronte para-golpista, piduista, massonico ed uno strumentale conservatorismo azionista che si limita a difendere quel che c'è non sapendo dare un nome alla richiesta di cambiamento che esiste?
E allora ecco il tuo esempio, Antonio, il nostro esempio, la nostra strada. Quella di chi sceglie di uscire dai giochi preconfezionati ma non rinuncia a fare politica, torna anzi a fare politica, a giocare giochi veri e si mette in campo, non in cerca di collocazioni ma di interlocutori. Ed interlocutori ne stiamo trovando, piccoli, insignificanti quanto siano, senza bisogno di costituirci in gruppo, senza darci un nome o una fisionomia, verifichiamo vivificanti intersezioni, apriamo nuove strade.
Giorni fa ho partecipato ad un bellissimo incontro promosso da Donnici in Calabria. Parlando sono tornato ad usare la metafora nicciana dell'«ospite inatteso» cui dobbiamo prepararci ad aprire la porta.
Dopo di me ha parlato il rappresentante del "Movimento Meridionale" — un antico, radicato movimento di intellettuali calabresi «di sinistra». Concludendo il suo intervento e con una vena di commozione, il nostro ci ha detto: «Voi non siete un ospite inatteso: è una vita che vi stavamo aspettando!».


Umberto Croppi

 

 



Caro Umberto,
è vero, attendevo il tuo «pezzo» per chiudere questo primo numero di "Tabularasa". Me lo hai fatto sospirare... poi la sorpresa, certo non sgradita ma, credimi, pubblico malvolentieri il tuo articolo. Per me, uomo schivo, che odio i complimenti, incapace di applaudire chicchessia, è una forzatura. Ma mi consolo e gioisco, caro Umberto, nel vedere espressi i sentimenti che ti muovono. Vuol dire che quella parte di comunità che ha abbandonato il «guscio rassicurante di un partito», ha ancora integre quelle valenze per le quali e con le quali, molti anni fa, metteva a repentaglio la propria vita, i propri beni, la propria famiglia.
Oggi che tutto è stato gettato al vento, se quattro gatti quali noi siamo si accomunano in affettuosa e reciproca stima, è segno che siamo vivi, che possiamo incutere rispetto. Ecco, allora, che le tue riflessioni, il tuo convincimento che la politica «deve essere sacrificio e dedizione», mi gratificano e mi inducono a credere che vi sono ancora degli uomini. Giovani: tu, Beniamino, Peppe, Tonino, Luciano, il lavativo Pietrangelo, l'impetuoso Luigi, ed altri ancora. Anche tutti quei ragazzi che si stanno dibattendo nella bolgia dei fraudolenti, in quel certo ambiente.
Vi vogliamo bene (e parlo anche a nome di chi ve ne voleva di più, che ci ha lasciati anzitempo) perché siete migliori di noi. Pur con i nostri pessimi esempi del passato, avendo noi accettato anche situazioni compromissorie, voi riuscite a meravigliarci. Con quella vostra sensibilità e passione, con quel saper nutrire affetti, con quel farvi trasportare dal cuore. Nonostante delusioni, amarezze, voci malevole, occhiate ostili.
Continuiamo. Facciamolo per noi stessi, per essere in pace con la nostra coscienza. Le «grandi méte» facciamole agognare a coloro che si sono ridotti a fare gli interpreti del sardegnolo. A chi svende sangue e dolore che hanno segnato la nostra vita, la vita di tutti gli italiani, per mettersi al servizio del sistema.
Battiamoci per noi stessi. Per non poltrire, per non far parte del gregge sospinto da cani rabbiosi. Ognuno di noi può operare vivendo tra la gente affinchè la gente riprenda fiducia in sé stessa. Vivere come in missione, con semplicità. Non come depositari del verbo, ma come assetati della verità, alla continua sua ricerca. Sempreché esista.
Azzardiamo la scommessa che gli italiani saranno capaci, in breve tempo, a toglier di mezzo gli spocchiosi e che saranno capaci, anche, di chieder conto di tante misteriose subitanee ricchezze.
Viviamo, ragazzi. E quando il rischio incombe, attendiamo entusiasti che esso si presenti. Per viverlo.
Viviamola, Umberto, questa avventura. Insieme a tutti i giovani, con tutti quelli che non ci stanno.

 

a. c.

 

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