«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 1 (15 Febbraio 1992)

 

Un compromesso inevitabile

 


Di recente Giorgio Ruffolo, analizzando la crisi dello stato sociale, ha proposto di riflettere sulla possibilità di un nuovo rapporto tra capitalismo e sistema democratico.
Convengo con Ruffolo sull'idea di rilanciare il compromesso fra capitalismo e democrazia, sul quale però, qualche precisazione va fatta: noi abbiamo già avuto un compromesso fra democrazia e capitalismo negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, il cosiddetto compromesso keynesiano, quello che ha presieduto alla costruzione dello stato sociale, di cui sono stati soggetti i partiti socialdemocratici dell'Occidente; esperienza storica positiva, certamente non coinvolgibile nel fallimento di altre esperienze, quale quella delle società comuniste, che comunque però oggi, in qualche modo è in crisi.
E quindi, un nuovo compromesso fra democrazia e capitalismo deve partire da basi diverse, tenendo conto di due fattori oggettivi estremamente importanti. Il primo è quello che insorge dalla considerazione che sono venute meno quelle politiche di pieno impiego che erano le caratteristiche del rilancio dello stesso capitalismo degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta. Anzi, oggi avviene esattamente il contrario: il massimo di sviluppo produttività viene assicurato da una riduzione delle unità di lavoro impiegate nel sistema produttivo stesso, e questo è un elemento di fondo dal quale non si può prescindere, quando si pensi alla prospettiva di un tentativo di compromesso fra le organizzazioni politiche e sindacali nel mondo del lavo ro, e il capitalismo stesso.
La seconda condizione deriva dal fatto che nel corso di questi decenni lo Stato stesso, cioè l'apparato politico, è diventato capitalistico. C'è stata un'estensione del capitalismo di Stato, di fronte al quale oggi si reclama un processo di privatizzazione, del quale dobbiamo valutare bene il significato. Occorre essere molto attenti sulle possibilità di accedere a queste richieste e ai limiti di esse.
La terza condizione, è quella che è data dallo sviluppo imponente e mostruoso di una forma di capitalismo speculativa e finanziaria, a livello internazionale e a livello nazionale, rispetto al quale sarebbe forse più opportuno riprendere l'idea di Giorgio Amendola di un'alleanza fra il mondo del lavoro, fra la sinistra e il capitalismo produttivo, contro il capitalismo speculativo e finanziario. La distinzione tra capitalismo produttivo e finanziario è un punto di necessaria riflessione, perché sulla base di tale distinzione si può delineare un'alleanza basata sul rilancio dell'idea e della prassi della democrazia economica rispetto alla quale al di là della sinistra tradizionale si pongono analisi di Dahrendorf e di Dahl, cioè del liberalismo progressista, che sta assumendo in proprio il tema della democrazia economica. Tema che va rilanciato per dare senso e sostanza anche al discorso della democrazia politica. Questo dovrebbe essere uno degli elementi caratterizzanti di una nuova sinistra in Italia, in Europa e nel mondo.
Per venire all'analisi della crisi italiana.
Si ha la sensazione che si oscilli da un atteggiamento di populismo più o meno consapevole di adesione acritica alle domande che salgono dalla società civile, che non sono tutte positive. In esse c'è anche del torbido: pertanto vanno riguardate, alle quali vanno date delle risposte, ma che non possono essere quelle risposte, poco credibili a mio giudizio, di natura elitaria ed aristocratiche, anche in parte alcune risposte che vengono date: autoriforma dei partiti, elevazione del livello del dibattito politico, moralizzazione, concepita non come deve essere concepita la morale della politica, che è quella della coerenza fra i fini e i comportamenti, fra i traguardi e le realtà politiche reali. Rispetto all'analisi della crisi è giusto, invece, pensare alle carenze che si sono verificate nel dare delle risposte riformatrici alle domande che sorgono nella società civile, ed anche, precisamente più in concreto, oggi una risposta riformatrice alle richieste referendarie, senza le quali, senza queste risposte riformatrici gli stessi referendum diverranno degli autobus sui quali salgono tutti. Tanta gente salirà sull'autobus di questi referendum e non saranno tutte compagnie delle più credibili e delle più accettabili. Invece compete a chi punta a rigenerare il sistema politico a partire dalla prossima legislatura, una capacità di risposta riformatrice netta e precisa rispetto alle domande che sono sottintese nei referendum stessi che vengono proposte.
L'idea di una Grande Riforma appassionò gli italiani all'inizio degli anni Ottanta. È trascorso un decennio, ed in questa direzione s'è fatto nulla e ben poco. Il presidenzialismo ha proceduto tuttavia in maniera strisciante, perché, respinto dalla porta principale del sistema dei partiti, è rientrato clamorosamente dalla finestra attraverso le esternazioni e le iniziative di Cossiga. S'è creato in tal modo un ingorgo tra tendenze conservataci dell'attuale assetto e tendenze dirompenti indirizzate verso una traumatica soluzione di natura diversa, con il rischio di una degenerazione complessiva della struttura istituzionale: ad essa si può contrapporre ormai una soluzione organica che si rivolga ad attuare un sistema nuovo che non cancelli del tutto il vecchio. Un sistema semi-presidenziale, che accanto all'elezione diretta del capo dello Stato, riporti il Parlamento ad essere sede forte della politica, e solleciti una riqualificazione degli stessi partiti. Un compromesso semi-presidenziale, ed un nuovo compromesso tra capitalismo e democrazia possono essere in Italia due capisaldi di un processo di uscita positiva dalla crisi. Qualcuno potrà storcere il naso, proponendo qualche vecchio o nuovo fondamentalismo, o magari giocando contemporaneamente su più fondamentalismi. Ma l'arte della politica e l'arte dello Stato risiedono nel prospettare anche soluzioni che rappresentino la sintesi dinamica tra varie esigenze.
Ci si domanderà se un nuovo compromesso tra democrazia e capitalismo, tra capitale e lavoro, siano oggi fattibili: in Italia, come in tutta Europa, ed anche nell'area dei paesi che furono comunisti. Ma che altro è il compromesso che nel 1993 condurrà a rendere più penetranti i legami tra i paesi dell'Europa? A quell'integrazione alla quale guardano anche molte delle società ex comuniste? Questo compromesso tra capitalismo e democrazia è possibile, anche se con ogni probabilità passerà attraverso fasi di scontro tra le tendenze formidabili di un capitalismo selvaggio ed ultraliberista, ed il mondo del lavoro.
Il liberismo selvaggio ha segnato punti a suo vantaggio con il crollo del comunismo. Esso vuole stravincere la partita, tentando di assumere un controllo internazionale totale. Ma la sua base sociale, ed insieme le sue ragioni morali sono molto più deboli della sua forza di penetrazione. Ecco il motivo per il quale il suo desiderio di stravincere verrà alla fine frustrato.
Sarebbe tuttavia un errore se il mondo del lavoro, se la sinistra (che va al di là dei suoi confini tradizionali) pensasse a sua volta di poter ribaltare le sorti della partita in corso. Già impedire una vittoria completa del capitalismo selvaggio rappresenta un successo. Imporre ad esso un compromesso, costringere il capitale a venire a patti nuovi con il mondo del lavoro sarebbe un grande passo in avanti.
 

Antonio Landolfi

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