«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 1 (15 Febbraio 1992)

 

le lettere

 

Dalla Calabria

 


Caro direttore,
vorrei esprimere la mia opinione sulla raccolta di firme per il referendum contro la legge Gozzini che vede il MSI, nel comitato promotore, come il più ardente sostenitore dell'iniziativa. Leggendo l'articolo di fondo di Luciano Laffranco sul "Secolo d'Italia" del 5.12.1991 ho riscontrato alcune opinioni che, a mio avviso, sono in contrasto con le nostre idee. Ad esempio si dice che gli organizzatori di altri referendum si rifiuterebbero di raccogliere unitariamente le firme per l'iniziativa referendaria con ì missini perché «rei di voler restaurare l'autorità dello Stato». Vorrei sapere se noi siamo quelli che dobbiamo «restaurare» l'autorità di quello Stato che ha fatto e fa il possibile per discriminarci, per tapparci la bocca; che ha messo in galera i nostri camerati non per reati comuni, ma solamente perché erano, e dovevano essere, coloro che si opponevano radicalmente al sistema. Bisogna capire, perché evidentemente non è stato ancora afferrato, che questo non è il «nostro Stato»; le regole del gioco non le abbiamo stabilite noi ma i nostri nemici, non solo l'ex PCI, oggi PDS, ma anche gli altri partiti che più o meno sono stati tutti al potere compreso l'attuale presidente della Repubblica che fa parte di questo sistema ed al quale è sempre stato «fedele» anche nei momenti peggiori di questi qua-rantacinque anni di «regime democratico». Quando non esitò neanche un istante a definire fascista la strage di Bologna, quando imperversava la violenza di regime e quella comunista contro le nostre sezioni ed i nostri camerati, allora le «picconate» non c'erano ed il governo non era certo migliore o più efficiente di quello di oggi; ma lui, il presidente Cossiga, allora era o sottosegretario, o ministro degli Interni, o presidente del Consiglio dei ministri e non dava l'impressione di trovarcisi a disagio, anzi.
Un'altra frase che mi ha lasciato perplesso è questa: «È lo scontro tra chi crede nello Stato e chi lo preferisce sfasciato ed alla mercé della criminalità politica e comune».
Mi domando: il signor Laffranco crede in questo Stato? Sembra di sì, ma coloro che credono in questo Stato dovrebbero stare nei partiti di potere; evidentemente hanno «inquinato» anche il nostro.
Il sottoscritto è entrato nel FdG e nel MSI, proprio perché pensava che si opponessero a questo sistema, perché credeva in tutti altri valori: quelli della Tradizione, della Nazione, della Giustizia sociale. Gradirei una risposta, per sapere se mi sono sbagliato io o si sbaglia colui che intende difendere il ladrocinio, il far politica per trame profitto, il capitalismo, quindi, anche il comunismo, più sfrenato e cinico. Questo è lo scontro, caro Laffranco. Chi però difende lo Stato, nel quale noi non «abitiamo», è dalla parte di coloro che lo hanno afflitto, deriso, derubato e venduto al migliore offerente.
Un invito lo rivolgo al direttore perché pubblichi questa mia lettera in modo da poter aprire un dibattito su questo tema, cioè se stare con questo Stato oppure cercare di abbatterlo per poi edificare una nuova società, con senso comunitario e solidarietà. Una vera comunità di destino dove i nostri valori siano al di sopra di tutto.
 

Antonio Paltrinieri Malaspina

 

 

 

 

Testata bene augurante se veste i panni di Attila

 


Caro Carli,
tanti anni orsono, in un chiosco edicola di piazza Indipendenza a Palermo, con altri ragazzi attendevamo che un ciclista portasse il nuovo numero de "l'Avventuroso", il mercoledì; tutte le storie sospese al punto giusto creavano quell'attesa. Dopo tanti lustri, la stessa curiosa attesa di leggerlo avvertivo, quando il semicerchio rosso de "L'Eco", mi diceva del suo arrivo, stando nella cassetta della posta.
E un accostamento che sa di calzoni corti, ma il sentimento deve essere manifestato come sale dall'intimo. Specie ora che questo «fogliaccio» si accomiata da quanti lo hanno avuto come stimolo a tenere sempre eretta quella spina dorsale, che per tanti anni sta prendendo a incurvarsi.
Proprio come quando indossando una divisa, pure avvertendo l'esasperazione dell'appetito, ancora più forte si batteva il piede destro marciando. Stimolo, caro Carli, leggendo le care eresie di Beppe, ma anche le altre ripulite da ogni pelo, che insieme a te quando possibile, creavate un nuovo numero de "L'Eco". Quante verità in ognuna di quelle pagine e quanto conforto ognuna di quelle verità, hanno dato alla nostra memoria, che il tempo non ha sbiadito, anche a dispetto di qualche spugna manovrata con l'intento di cancellare la nostra Matrice, democratizzandola. A mio parere quello che più conta per vestire di dignità è: non dimenticare; come vorrebbero quanti adulando il fittizio vincitore, arricchiscono la folta schiera dei cialtroni.
A "L'Eco", succederà "Tabularasa", testata bene augurante se vestendo i panni di Attila, specie culturalmente riuscirà ad arare il tanto marciume che inquina l'Italia, venutoci da oltre Atlantico con modi e sistemi che stanno snaturando i nostri usi e costumi. Per farlo non devi essere solo e abbracciandoti con sentito cameratismo, ti assicuro il mio apporto dì pensionato al minimo, incriminato per non essersi presentato al comando invasore.
 

Ferdinando Terranova

 

 

 

 

"L'Eco" non mi interessa più

 


Egregio signor Carli,
ho letto con piacere, e da tanto tempo, "L'Eco della Versilia". Purtroppo, per me, il giornale adesso ha cambiato completamente la sua linea politica e non mi interessa più; pertanto La prego di sospenderne l'invio. Io sono molto, molto vecchio e non mi ritrovo tra i tanti «maitres à penser» (senza fantasia), tanti generali (senza truppa) e tanti «Duci» (senza balcone). Se non erro, Beppe Niccolai -bastian contrario- criticava di continuo e spesso aspramente quello che non andava nella nostra Comunità umana, ma non si è mai sognato di abbandonarla al suo destino: evidentemente ora i tempi sono cambiati ed anche gli uomini.
Comunque, cari ex camerati, buona fortuna.
 

Dott. Giovan Battista Leggio

 

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Egregio dottor Leggio, sono dispiaciuto delle Sue parole, soprattutto perché vengono da un antico lettore de "L'Eco" che ha avuto modo di leggere il foglio anche quando trattava gli accadimenti versiliesi. Proprio per questa ragione, ritengo i suoi giudizi ingenerosi. Saper rinunciare a tutto, pur di poter esprimersi liberamente, è stata una costante della nostra vita. È difficile colloquiare con gli uomini... Difficile farsi ascoltare perché, ognuno, si considera depositario della verità e all'interlocutore non presta orecchio.

«L'Eco ha cambiato completamente la sua linea politica ...» Ella scrive. La contraddico: se linea politica ha avuto, è sempre stata quella della dura contestazione verso chicchessia, amici o avversali. E la manterrà anche nella nuova testata. Ritengo, invece, che Lei contesti il fatto di essere usciti noi dal Partito (non più Movimento). Nel gruppo che in questo foglio si riconosce, non vi sono «maitres à penser», generali o duci. Ciò è stato più volte precisato — ma forse Lei è troppo indaffarato per avere anche il tempo di leggere questo foglio.

Difatti, sotto il titolo «"Commiato", nell'ultimo numero (31 dicembre 1991) lo avevo scritto chiaramente: «Partiamo con Tabula rasa senza programmi dogmatici, con tesi aperte a tutti gli apporti esterni. Senza quattrini, perché senza protettori; pazzi senza tabelle di marcia, pronti ad esplodere nella nostra follia. Senza capi... li abbiamo in uggia: pretendono la truppa. Ognuno di noi è alfiere: più di un capo, più di un gregario. L'esempio è il nostro stendardo; la fierezza di essere vissuti come ci è parso, il nostro abito mentale».

A proposito di Beppe Niccolai. Beppe è stato qualcosa di irripetibile, un Uomo unico. A nessuno, per nessuna ragione, è permesso citarlo a sproposito. Nessuno di noi, gente di mezza tacca al suo confronto, sarà mai in grado di immaginare ciò che Beppe avrebbe detto o come si sarebbe comportato nei frangenti che noi ci siamo trovati ad affrontare. Ciascuno può spaziare, con la mente, e trame le deduzioni che vuole. Ma chi le mette nero su bianco pecca di presunzione. Attenta, con giudizi di parte, alla intelligenza di un Uomo che si era spogliato della propria gigantesca personalità, del proprio carisma, per mettersi al servizio non di una parte, ma dell'intera Comunità italiana. Amava l'Italia, non la fazione. Era un predicatore di idee che chiedeva fossero messe a confronto, non un politico; un missionario che girava l'Italia per conoscerne tutti gli aspetti umani e fisici, non il solito parlamentare ridondante superominità da ogni poro. Anzi, proprio da parlamentare, trascurava la circoscrizione dove era eletto per andare dove veniva chiamato perché, secondo lui, era più importante. Per portare un messaggio diverso, fuori dal coro. Questo era anche il desiderio di chi lo chiamava. Era un Uomo. Chi gli è stato accanto per una vita intera, se lui ci fosse stato ancora, lo avrebbe seguito in ogni suo atto ed avrebbe accettato ogni sua personale decisione. Per andare d'accordo con Beppe, bisognava volergli bene. E lo seguivamo non perché lo considerassimo un capo, quindi, per disciplina (detto fra noi: ci sentiamo anarchici), ma per il grande affetto. Non frutto di innamoramento, bensì di grande invidia nei confronti di un Uomo che anche negli atti più banali o più straordinari, vi sapeva scorgere l'umano tepore. E per noi, gente di poco conto -mi creda dottor Leggio- erano lezioni pesanti. Mazzate che ci costringevano ad incamminarci verso la maturazione, alla quale, chissà (non vogliamo campar tanto), forse non giungeremo mai: per la ragione che siam discoli impenitenti e perché ci ha abbandonati un Maestro: Beppe.

 

a. c.

 

P.S. - Ho creduto opportuno pubblicare la Sua lettera e la risposta. Mi perdonerà, Lei nolente, se Le sarà recapitato il primo numero di "Tabularasa". Ne faccia l'uso che crede e non si preoccupi: sono tipografo dilettante, perciò, di carta, ne sciupo tanta...

Stessa risposta per il signor Policarpio Bellatreccia di Roma

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