le lettere
Dalla Calabria
Caro direttore,
vorrei esprimere la mia opinione sulla raccolta di firme per il referendum
contro la legge Gozzini che vede il MSI, nel comitato promotore, come il più
ardente sostenitore dell'iniziativa. Leggendo l'articolo di fondo di Luciano
Laffranco sul "Secolo d'Italia" del 5.12.1991 ho riscontrato alcune opinioni
che, a mio avviso, sono in contrasto con le nostre idee. Ad esempio si dice che
gli organizzatori di altri referendum si rifiuterebbero di raccogliere
unitariamente le firme per l'iniziativa referendaria con ì missini perché «rei
di voler restaurare l'autorità dello Stato». Vorrei sapere se noi siamo quelli
che dobbiamo «restaurare» l'autorità di quello Stato che ha fatto e fa il
possibile per discriminarci, per tapparci la bocca; che ha messo in galera i
nostri camerati non per reati comuni, ma solamente perché erano, e dovevano
essere, coloro che si opponevano radicalmente al sistema. Bisogna capire, perché
evidentemente non è stato ancora afferrato, che questo non è il «nostro Stato»;
le regole del gioco non le abbiamo stabilite noi ma i nostri nemici, non solo
l'ex PCI, oggi PDS, ma anche gli altri partiti che più o meno sono stati tutti
al potere compreso l'attuale presidente della Repubblica che fa parte di questo
sistema ed al quale è sempre stato «fedele» anche nei momenti peggiori di questi
qua-rantacinque anni di «regime democratico». Quando non esitò neanche un
istante a definire fascista la strage di Bologna, quando imperversava la
violenza di regime e quella comunista contro le nostre sezioni ed i nostri
camerati, allora le «picconate» non c'erano ed il governo non era certo migliore
o più efficiente di quello di oggi; ma lui, il presidente Cossiga, allora era o
sottosegretario, o ministro degli Interni, o presidente del Consiglio dei
ministri e non dava l'impressione di trovarcisi a disagio, anzi.
Un'altra frase che mi ha lasciato perplesso è questa: «È lo scontro tra chi
crede nello Stato e chi lo preferisce sfasciato ed alla mercé della criminalità
politica e comune».
Mi domando: il signor Laffranco crede in questo Stato? Sembra di sì, ma coloro
che credono in questo Stato dovrebbero stare nei partiti di potere;
evidentemente hanno «inquinato» anche il nostro.
Il sottoscritto è entrato nel FdG e nel MSI, proprio perché pensava che si
opponessero a questo sistema, perché credeva in tutti altri valori: quelli della
Tradizione, della Nazione, della Giustizia sociale. Gradirei una risposta, per
sapere se mi sono sbagliato io o si sbaglia colui che intende difendere il
ladrocinio, il far politica per trame profitto, il capitalismo, quindi, anche il
comunismo, più sfrenato e cinico. Questo è lo scontro, caro Laffranco. Chi però
difende lo Stato, nel quale noi non «abitiamo», è dalla parte di coloro che lo
hanno afflitto, deriso, derubato e venduto al migliore offerente.
Un invito lo rivolgo al direttore perché pubblichi questa mia lettera in modo da
poter aprire un dibattito su questo tema, cioè se stare con questo Stato oppure
cercare di abbatterlo per poi edificare una nuova società, con senso comunitario
e solidarietà. Una vera comunità di destino dove i nostri valori siano al di
sopra di tutto.
Antonio
Paltrinieri Malaspina
Testata bene augurante
se veste i panni di Attila
Caro Carli,
tanti anni orsono, in un chiosco edicola di piazza Indipendenza a Palermo, con
altri ragazzi attendevamo che un ciclista portasse il nuovo numero de
"l'Avventuroso", il mercoledì; tutte le storie sospese al punto giusto creavano
quell'attesa. Dopo tanti lustri, la stessa curiosa attesa di leggerlo avvertivo,
quando il semicerchio rosso de "L'Eco", mi diceva del suo arrivo, stando nella
cassetta della posta.
E un accostamento che sa di calzoni corti, ma il sentimento deve essere
manifestato come sale dall'intimo. Specie ora che questo «fogliaccio» si
accomiata da quanti lo hanno avuto come stimolo a tenere sempre eretta quella
spina dorsale, che per tanti anni sta prendendo a incurvarsi.
Proprio come quando indossando una divisa, pure avvertendo l'esasperazione
dell'appetito, ancora più forte si batteva il piede destro marciando. Stimolo,
caro Carli, leggendo le care eresie di Beppe, ma anche le altre ripulite da ogni
pelo, che insieme a te quando possibile, creavate un nuovo numero de "L'Eco".
Quante verità in ognuna di quelle pagine e quanto conforto ognuna di quelle
verità, hanno dato alla nostra memoria, che il tempo non ha sbiadito, anche a
dispetto di qualche spugna manovrata con l'intento di cancellare la nostra
Matrice, democratizzandola. A mio parere quello che più conta per vestire di
dignità è: non dimenticare; come vorrebbero quanti adulando il fittizio
vincitore, arricchiscono la folta schiera dei cialtroni.
A "L'Eco", succederà "Tabularasa", testata bene augurante se vestendo i panni di
Attila, specie culturalmente riuscirà ad arare il tanto marciume che inquina
l'Italia, venutoci da oltre Atlantico con modi e sistemi che stanno snaturando i
nostri usi e costumi. Per farlo non devi essere solo e abbracciandoti con
sentito cameratismo, ti assicuro il mio apporto dì pensionato al minimo,
incriminato per non essersi presentato al comando invasore.
Ferdinando Terranova
"L'Eco" non mi interessa
più
Egregio signor Carli,
ho letto con piacere, e da tanto tempo, "L'Eco della Versilia". Purtroppo, per
me, il giornale adesso ha cambiato completamente la sua linea politica e non mi
interessa più; pertanto La prego di sospenderne l'invio. Io sono molto, molto
vecchio e non mi ritrovo tra i tanti «maitres à penser» (senza fantasia), tanti
generali (senza truppa) e tanti «Duci» (senza balcone). Se non erro, Beppe
Niccolai -bastian contrario- criticava di continuo e spesso aspramente quello
che non andava nella nostra Comunità umana, ma non si è mai sognato di
abbandonarla al suo destino: evidentemente ora i tempi sono cambiati ed anche
gli uomini.
Comunque, cari ex camerati, buona fortuna.
Dott.
Giovan Battista Leggio
* * *
Egregio dottor Leggio, sono
dispiaciuto delle Sue parole, soprattutto perché vengono da un antico lettore de
"L'Eco" che ha avuto modo di leggere il foglio anche quando trattava gli
accadimenti versiliesi. Proprio per questa ragione, ritengo i suoi giudizi
ingenerosi. Saper rinunciare a tutto, pur di poter esprimersi liberamente, è
stata una costante della nostra vita. È difficile colloquiare con gli uomini...
Difficile farsi ascoltare perché, ognuno, si considera depositario della verità
e all'interlocutore non presta orecchio.
«L'Eco ha cambiato completamente
la sua linea politica ...» Ella scrive. La contraddico: se linea politica ha
avuto, è sempre stata quella della dura contestazione verso chicchessia, amici o
avversali. E la manterrà anche nella nuova testata. Ritengo, invece, che Lei
contesti il fatto di essere usciti noi dal Partito (non più Movimento). Nel
gruppo che in questo foglio si riconosce, non vi sono «maitres à penser»,
generali o duci. Ciò è stato più volte precisato — ma forse Lei è troppo
indaffarato per avere anche il tempo di leggere questo foglio.
Difatti, sotto il titolo
«"Commiato", nell'ultimo numero (31 dicembre 1991) lo avevo scritto chiaramente:
«Partiamo con Tabula rasa senza programmi dogmatici, con tesi aperte a tutti gli
apporti esterni. Senza quattrini, perché senza protettori; pazzi senza tabelle
di marcia, pronti ad esplodere nella nostra follia. Senza capi... li abbiamo in
uggia: pretendono la truppa. Ognuno di noi è alfiere: più di un capo, più di un
gregario. L'esempio è il nostro stendardo; la fierezza di essere vissuti come ci
è parso, il nostro abito mentale».
A proposito di Beppe Niccolai.
Beppe è stato qualcosa di irripetibile, un Uomo unico. A nessuno, per nessuna
ragione, è permesso citarlo a sproposito. Nessuno di noi, gente di mezza tacca
al suo confronto, sarà mai in grado di immaginare ciò che Beppe avrebbe detto o
come si sarebbe comportato nei frangenti che noi ci siamo trovati ad affrontare.
Ciascuno può spaziare, con la mente, e trame le deduzioni che vuole. Ma chi le
mette nero su bianco pecca di presunzione. Attenta, con giudizi di parte, alla
intelligenza di un Uomo che si era spogliato della propria gigantesca
personalità, del proprio carisma, per mettersi al servizio non di una parte, ma
dell'intera Comunità italiana. Amava l'Italia, non la fazione. Era un
predicatore di idee che chiedeva fossero messe a confronto, non un politico; un
missionario che girava l'Italia per conoscerne tutti gli aspetti umani e fisici,
non il solito parlamentare ridondante superominità da ogni poro. Anzi, proprio
da parlamentare, trascurava la circoscrizione dove era eletto per andare dove
veniva chiamato perché, secondo lui, era più importante. Per portare un
messaggio diverso, fuori dal coro. Questo era anche il desiderio di chi lo
chiamava. Era un Uomo. Chi gli è stato accanto per una vita intera, se lui ci
fosse stato ancora, lo avrebbe seguito in ogni suo atto ed avrebbe accettato
ogni sua personale decisione. Per andare d'accordo con Beppe, bisognava volergli
bene. E lo seguivamo non perché lo considerassimo un capo, quindi, per
disciplina (detto fra noi: ci sentiamo anarchici), ma per il grande affetto. Non
frutto di innamoramento, bensì di grande invidia nei confronti di un Uomo che
anche negli atti più banali o più straordinari, vi sapeva scorgere l'umano
tepore. E per noi, gente di poco conto -mi creda dottor Leggio- erano lezioni
pesanti. Mazzate che ci costringevano ad incamminarci verso la maturazione, alla
quale, chissà (non vogliamo campar tanto), forse non giungeremo mai: per la
ragione che siam discoli impenitenti e perché ci ha abbandonati un Maestro:
Beppe.
a. c.
P.S. - Ho creduto opportuno
pubblicare la Sua lettera e la risposta. Mi perdonerà, Lei nolente, se Le sarà
recapitato il primo numero di "Tabularasa". Ne faccia l'uso che crede e non si
preoccupi: sono tipografo dilettante, perciò, di carta, ne sciupo tanta...
Stessa risposta per il signor
Policarpio Bellatreccia di Roma
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