«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 1 (15 Febbraio 1992)

 

Gorbaciov come metafora

 


Mi sono spesso chiesto perché la figura di Michail Gorbaciov attirasse la mia simpatia in una maniera assolutamente istintiva e con una pulsione inconscia, prescindendo dai suoi meriti o demeriti reali.
Devo quindi ringraziare pubblicamente Angelo Panebianco, «politologo laico» e giornalista, il quale con un fondo pubblicato sul "Corriere della Sera" del 30 dicembre 1991 ha voluto pazientemente spiegarci che non vi è motivo per rimpiangere il leader sovietico. A meno di non essere allineati con il nuovo ordine occidentalista. Ho potuto così razionalizzare le mie motivazioni, semplicemente invertendo le «istruzioni per l'uso» che il brillante studioso ha elargito, con didattica illuminista, dal pulpito del principale quotidiano italiano.
Riassumo brevemente la «lezione»: «L'errore, più che occidentale, è stato italiano. Lo hanno commesso soprattutto gli ex comunisti nostrani nonché molti cattolici. Nell'attaccamento a Gorbaciov giocava in questo caso il miraggio, che continua a sopravvivere in certi ambienti, della "terza via" fra capitalismo e comunismo».
E ancora: «...questi ambienti hanno creduto di vedere in lui non solo il distruttore del vecchio ma anche l'iniziatore di qualcosa di interamente nuovo. E adesso che anche questa illusione si è consumata resta il rimpianto per Gorbaciov. E, insieme, l'avversione per Eltsin colpevole di aver certificato che anche l'ultimo balocco -la terza via gorbacioviana- dei sognatori di società "totalmente altre" (a differenza dell'eroina si tratta di una droga legalmente in commercio) era, come era, solo un bluff».
Quantomeno, Panebianco possiede il dono della sintesi. È infatti difficile trovare altrove, concentrate in così poche righe, tante affermazioni; e tutte da respingere così radicalmente.
Ora mi è chiaro che il duello politico tra Gorbaciov ed Eltsin, il Nicolazzi della steppa, rappresenta, metaforicamente ed emblematicamente, lo scontro generalizzato tra l'esprit capitalista ed i suoi nemici; ora mi è chiaro, anche razionalmente, perché non solo posso, ma devo solidarizzare con Gorbaciov. Non si tratta infatti di un lontano episodio di politica estera, ma di un dissidio che ci riguarda, che mi riguarda, quasi interiormente. Perché interiore è il bisogno del «totalmente altro», della mistica politica come Destino; perché reale è l'ordine egemonico imposto dal capitalismo ormai anche sul piano culturale. Talmente reale da tentare di criminalizzare, come «stupefacente» anche la più timida manifestazione di dissenso. Lo stesso Gramsci non ci sarebbe mai arrivato.
È evidente che, stando così le cose, occorre iniziare a preparare una risposta complessiva che sia all'altezza della situazione. Provo a formalizzare alcuni punti di partenza.
1) L'offensiva ideologica del neocapitalismo liberale tende a delegittimare tutte le matrici culturali non omologabili. Non a caso, nel citato articolo, Panebianco, dopo aver preteso di giustiziare tutte le «filosofie della storia» (e forse tutte le «filosofie») scrive: «Resta invece la possibilità di giudicare laicamente i fatti, gli avvenimenti che si succedono, mediante ragione e alla luce di valori (quelli su cui si è costruito l'occidente liberale) i quali non perdono nulla dal fatto di non essere collegati ad alcun "senso" o "direzione" della storia ad alcuna illusoria credenza in mète o palingenesi finali. Così dovranno esser giudicati anche i primi passi di Eltsin e quelli che seguiranno, per vedere se l'occidentalizzazione del mondo russo, più volte tentata da Pietro il Grande in poi andrà in porto... lasciando perdere, finalmente, le droghe filosofiche». Questo preoccupante, e ripetuto accostamento tra opposizione politica e spacciatori -preludio, forse, di un'estensione della legge Jervolino alla repressione dell'uso personale di ideologia vietata-, è indicativo della tendenza in atto a far passare per «illusone», «irrealistiche», «disastrose», tutte le perplessità riguardanti l'ideologia di mercato. Peccato che, nella stessa pagina del "Corriere" in un reportage da Mosca, si legga quest'intervista ad un cittadino russo: «Ho smesso di interessarmi di politica. Penso al mio lavoro, voglio far carriera. Adesso sono un grigio impiegato ma vorrei occuparmi di cinema, andare in America. Ho un amico a Los Angeles. Ci andrò prima o poi, ma il biglietto costa duemila dollari ed io guadagno duemila rubli, neanche venti dollari al mese». Commento del giornalista: «Morto il comunismo avanza il sogno capitalista. Con l'incubo di un portafogli sempre vuoto».
2) La contraddizione tra teoria e pratica del neoliberalismo offre il destro per una considerazione generale: il modello americano ed occidentale celebra oggi i fasti di un'apparente incontrastata vittoria. E perfettamente realizzato. Può, quindi, essere attraversato e perforato (perfectum, da perficior) perché è divenuto storicamente inutile. Questa paradossale affermazione trova conforto nelle più recenti analisi della società americana; la recessione è all'ordine del giorno, il venti per cento della popolazione vive sotto il livello di sussistenza, il sistema educativo non funziona (metà degli studenti liceali non sanno indicare il proprio paese su un mappamondo), il comune di New York, la Grande Mela, il simbolo dell'occidente, è alla bancarotta... L'ideologia economicistica del libero mercato fallisce dunque sul proprio terreno, quello dello sviluppo materiale e del benessere illimitato: finora la consapevolezza di ciò è stata ritardata dal più appariscente spettacolo del crollo dei muri ad Est. Da qui in avanti l'establishment occidentale deve affidarsi per sopravvivere, alla casta dei suoi ideologi che, come Panebianco e Lucio Colletti, continuano fanaticamente a negare alternativa al sistema liberale, bollandola come illusione ed accusando gli oppositori di essere terroristi ed utopisti. Ma non era questo fino a pochi mesi fa, il metodo repressivo della macchina stalinista di Breznev? La risposta a Marcello Veneziani: «L'equivoco da dissipare è che la prospettiva del nuovo ordine internazionale segni la definitiva liquidazione delle utopie rivoluzionarie, marxiste e non, degli anni passati. È vero invece il contrario, che l'avvento del Nuovo ordine mondiale ricalca esattamente l'utopia del mondo migliore, il mito del mondo nuovo, l'attesa dell'uomo nuovo che scaccia i vecchi mondi e i vecchi uomini con i loro "arcaismi" etnici, religiosi e culturali. È l'utopia della fine delle diversità, della fine dei conflitti, della fine della storia che agisce nell'One Worldism. È la cancellazione dell'uomo reale, dei popoli e delle nazioni quali effettivamente sono, in vista dello "splendido mondo nuovo" made in USA descritto con tratti inquietanti da Huxley. Dentro il cinico realismo dell'internazionale bushista batte il cuore dell'utopista che sogna, come i marxisti messianici, l'abolizione del reale» ("La cosmopolizia" in "il Sabato", 30.3.1991).
3) La situazione è dunque favorevole ad una ripresa della politica a tutto campo. A condizione di usare estremo rigore nell'indicare vie d'uscita. Se tira aria di smobilitazione («... ho smesso di far politica... penso solo a far carriera») ciò non è dovuto solo al clima portato dal vento dell'Ovest. Occorre avere il coraggio di riconoscere che le vecchie culture in cui si è incarnata la «nostalgia del totalmente altro» non bastano più, hanno esaurito la loro capacità di creare coesione sociale e progettualità collettiva. Aggredire il modello neocapitalista, con i vecchi, dignitosi attrezzi politico-culturali usciti in altre epoche, non servirebbe a nulla e rafforzerebbe l'attuale stato di cose. Questo non significa, come crede Occhetto, gettare a mare gli elementi di antropologia forte che hanno reso gelidamente e geometricamente grande il leninismo ed inventare una sinistra liberale farcita di casalinghe, pensionati ed ornitologi; questo non significa neanche come sembra credere la dirigenza del MSI, che per avere un futuro occorre arruolarsi nella nascente Guardia Svizzera del Quirinale, difendendo così il centro simbolico di una società politica che, in realtà, è diventata excentrica, priva di centro.
Nessun romantico attaccamento a forme superate, nessuna verbosità «reazionaria», di destra o di sinistra, è oggi ammissibile. In questo senso bisogna leggere l'esortazione di Drieu: «... strappare gli uomini a sé stessi», sradicare, anche dolorosamente, antiche abitudini politiche, gettare armi spuntate. Per avere le mani libere.
Per trovare, come scrive Nietzsche, «... un po' di silenzio, un po' di tabula rasa della coscienza, affinchè vi sia ancora posto per il nuovo...».
 

Peppe Nanni

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