Morale e politica
Politica e morale dovrebbero compenetrarsi, per osmosi, per legge naturale. Ma
la modernità e la razionalità imposteci d'Oltreoceano, sono riuscite a rendere
impermeabili, incomunicabili, due valori che facevano dell'uomo, in quanto tale,
il punto di riferimento per gli enunciati espressi dal singolo o dai gruppi. A
qualsiasi livello culturale si trovi la società.
A che vale annotare le escogitazioni e gli errori dei governanti, le retoriche e
le infatuazioni delle masse, le menzogne degli intellettuali, gli intrighi dei
politicanti, le concussioni dei plutocrati? Altre sono le preoccupazioni
contingenti: la rata, la vacanza, il regalo, l'abito, il ricevimento. Siamo
giocattoli caricati meccanicamente, mossi a comando. Ipersensibili agli impulsi
che ci vengono iniettati, quotidianamente, dalle centrali del potere economico
che hanno assoggettato, per primi, i politici.
Scrive Beniamino Donnici: «Siamo condannati [con il liberalcapitalismo] ad
avvitarci, lungo la spirale del profitto, a produrre all'infinito, a consumare
all'infinito, fino all'autoconsunzione».
E torna alla mente il grido di dolore che J. E. Renan rivolse ai suoi
connazionali dopo il 1870: «Divertitevi, divertitevi... Non vi logorate
l'esistenza cercando di risolvere problemi che sorpassano la vostra intelligenza
...». Auguriamoci, allora, tempi calamitosi, vichiani ricorsi, marxiste
catastrofi. Che venga il caos. Per ricostruire l'uomo, il politico.
Proviamo a ricercare, nella memoria, di quali personaggi del passato sono eredi
o continuatori, tanti intellettuali di oggi; quali contrasti vi sono tra gli
«ideali» che essi contribuiscono a far vagheggiare e i bisogni morali e pratici
dell'odierna società che dobbiamo pur poter raffigurare, magari isolando ed
accentuando al massimo, alcuni caratteri della moderna civiltà del lavoro.
Proviamo a farlo e ci accorgeremo, alla fine, che dal nostro interesse
scompaiono i letterati, gli ideologi, i teorizzatori, i teologi, i politici.
Essi non hanno appreso ciò che la storia non ha mai sconfessato: che il
progresso della civiltà non è mai avvenuto per evoluzione, ma per mezzo della
scissione, dalla massa, di un gruppo di uomini animati dalla religiosa coscienza
di costituire elementi di negazione e di sostituzione.
Dobbiamo, allora, tutto distruggere? Sì, tabula rasa. Le nostre collere non
possono più essere passive; così come appartengono a noi, appartengono ad altri
che, ieri su altri sentieri, oggi sentono la necessità di coagularsi in un
insieme di antagonismi, senza strutture verticistiche per non dare, al sistema,
la possibilità di controbattere situazioni e posizioni che, se fossero di tipo
tradizionale, riuscirebbe a rendere innocue. Proprio perché esso stesso le ha
create.
Dobbiamo ricercare quella qualche parte dell'umanità ancora potente, nuova,
intatta. Astrarla, sottrarla dal resto della società, per creare, per ritrovare
in tutta questa «modernità», la via della nobile umanità. La nostra originalità
deve consistere nell'aspirazione a scoprire qualche cosa capace di portare la
morale alla stessa altezza della tecnica e dell'economia del mondo moderno. In
modo che, il progresso continuo di esse, assicuri anche il progresso della
morale.
Non possiamo farlo da soli, da qui la necessità di colloquiare con altri
antagonismi, qualsiasi sia la loro estrazione ideologica. Dobbiamo imparare a
conoscere a fondo le ragioni degli altri che, se le hanno, non possono essere
diverse dalle nostre.
Chi ancora è legato -anziché alle radici che ci hanno generati- a quella sorta
di «mito» inverato nelle organizzazioni partitiche che servono a far emergere le
mediocrità e mandare seicento salumieri a Montecitorio (come dice l'amico Peppe
di Milano), si accomodi. Faccia il proprio movimentino. Noi siamo usciti,
dall'altro «ino», perché non riuscivamo più a tollerare la vicinanza dei
cretini.
a. c.
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