«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 2 (31 Marzo 1992)

 

Morale e politica

 


Politica e morale dovrebbero compenetrarsi, per osmosi, per legge naturale. Ma la modernità e la razionalità imposteci d'Oltreoceano, sono riuscite a rendere impermeabili, incomunicabili, due valori che facevano dell'uomo, in quanto tale, il punto di riferimento per gli enunciati espressi dal singolo o dai gruppi. A qualsiasi livello culturale si trovi la società.
A che vale annotare le escogitazioni e gli errori dei governanti, le retoriche e le infatuazioni delle masse, le menzogne degli intellettuali, gli intrighi dei politicanti, le concussioni dei plutocrati? Altre sono le preoccupazioni contingenti: la rata, la vacanza, il regalo, l'abito, il ricevimento. Siamo giocattoli caricati meccanicamente, mossi a comando. Ipersensibili agli impulsi che ci vengono iniettati, quotidianamente, dalle centrali del potere economico che hanno assoggettato, per primi, i politici.
Scrive Beniamino Donnici: «Siamo condannati [con il liberalcapitalismo] ad avvitarci, lungo la spirale del profitto, a produrre all'infinito, a consumare all'infinito, fino all'autoconsunzione».
E torna alla mente il grido di dolore che J. E. Renan rivolse ai suoi connazionali dopo il 1870: «Divertitevi, divertitevi... Non vi logorate l'esistenza cercando di risolvere problemi che sorpassano la vostra intelligenza ...». Auguriamoci, allora, tempi calamitosi, vichiani ricorsi, marxiste catastrofi. Che venga il caos. Per ricostruire l'uomo, il politico.
Proviamo a ricercare, nella memoria, di quali personaggi del passato sono eredi o continuatori, tanti intellettuali di oggi; quali contrasti vi sono tra gli «ideali» che essi contribuiscono a far vagheggiare e i bisogni morali e pratici dell'odierna società che dobbiamo pur poter raffigurare, magari isolando ed accentuando al massimo, alcuni caratteri della moderna civiltà del lavoro.
Proviamo a farlo e ci accorgeremo, alla fine, che dal nostro interesse scompaiono i letterati, gli ideologi, i teorizzatori, i teologi, i politici. Essi non hanno appreso ciò che la storia non ha mai sconfessato: che il progresso della civiltà non è mai avvenuto per evoluzione, ma per mezzo della scissione, dalla massa, di un gruppo di uomini animati dalla religiosa coscienza di costituire elementi di negazione e di sostituzione.
Dobbiamo, allora, tutto distruggere? Sì, tabula rasa. Le nostre collere non possono più essere passive; così come appartengono a noi, appartengono ad altri che, ieri su altri sentieri, oggi sentono la necessità di coagularsi in un insieme di antagonismi, senza strutture verticistiche per non dare, al sistema, la possibilità di controbattere situazioni e posizioni che, se fossero di tipo tradizionale, riuscirebbe a rendere innocue. Proprio perché esso stesso le ha create.
Dobbiamo ricercare quella qualche parte dell'umanità ancora potente, nuova, intatta. Astrarla, sottrarla dal resto della società, per creare, per ritrovare in tutta questa «modernità», la via della nobile umanità. La nostra originalità deve consistere nell'aspirazione a scoprire qualche cosa capace di portare la morale alla stessa altezza della tecnica e dell'economia del mondo moderno. In modo che, il progresso continuo di esse, assicuri anche il progresso della morale.
Non possiamo farlo da soli, da qui la necessità di colloquiare con altri antagonismi, qualsiasi sia la loro estrazione ideologica. Dobbiamo imparare a conoscere a fondo le ragioni degli altri che, se le hanno, non possono essere diverse dalle nostre.
Chi ancora è legato -anziché alle radici che ci hanno generati- a quella sorta di «mito» inverato nelle organizzazioni partitiche che servono a far emergere le mediocrità e mandare seicento salumieri a Montecitorio (come dice l'amico Peppe di Milano), si accomodi. Faccia il proprio movimentino. Noi siamo usciti, dall'altro «ino», perché non riuscivamo più a tollerare la vicinanza dei cretini.

 

a. c.

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