Risparmia il fiato,
Francis
Francis Fukujama, già titolare
dell'Ufficio per la «pianificazione europea» presso il Dipartimento di Stato
USA, ci riprova. A qualche anno di distanza dal famosissimo articolo pubblicato
dal "The National Interest" -"La fine della storia?"- torna alla carica e manda
in stampa, per come anticipa "Panorama" (8.3.1992), un saggio dal titolo
emblematico -"La fine della storia e l'ultimo uomo"- che uscirà nei prossimi
giorni, edito da Rizzoli.
L'eliminazione del punto interrogativo sembrerebbe indicare la risoluzione di
ogni dubbio, in ordine ai destini dell'umanità, da parte del piccolo e vulcanico
politologo nippo-americano. In verità, non siamo particolarmente tentati dalla
voglia di divorare l'ultima fatica del più accreditato cantore del «nuovo ordine
mondiale». Anche perché non è difficile immaginare che le tesi che vi si
sosterranno non si discosteranno granché dal ragionamento che ha ispirato il
precedente, citato, articolo. Con ogni probabilità, leggeremo -traendone grande
soddisfazione e progressiva sedazione di angosce remote od attuali- che la
Storia, quella con la maiuscola, è al capolinea, che tutto ciò che si muove
-pigramente e meccanicamente- segue itinerari definiti, che non c'è spazio per i
sogni, esclusivamente confinati nel campo dell'indagine psicoanalitica, e men
che meno per le utopie, che tutto nasce, cresce e muore all'interno del solo
spazio vitale possibile: l'universo liberal-democratico.
Nessuna alternativa all'attuale modello di società. Nessun'altra prospettiva
culturale. Nessun'altra forma politica. Non altra storia, appunto, che quella
che racconti il divenire delle democrazie liberali, il loro espandersi in ogni
angolo del pianeta fino a trasformazione dello stesso in un immenso «villaggio
globale». Naturalmente, aggiungiamo noi, triturando -in corso d'opera-
differenze e specificità, identità e memorie, tradizioni e culture, religioni,
simboli, miti, popoli e nazioni.
D'altra parte, l'elemento di novità -si fa per dire- nel libro di Fukujama
dovrebbe essere, per come egli stesso anticipa, la demolizione di ogni critica,
di destra o di sinistra, all'attuale modello societario. Persino Nietzsche
farebbe le spese del terribile Francis che, evidentemente, non perdona al
filosofo di Rochen di additare una via verso l'Assoluto e di bollare come
«ultimi uomini», privi di orgoglio, incapaci di credere in null'altro che nella
propria auto-conservazione, i cittadini delle società liberal-capitaliste.
Direbbe Nietzsche, a proposito di certe forzate letture del suo pensiero, tanto
nell'ottica apologetica, quanto in quella denigratoria: «Noi purtroppo non
possiamo difenderci, anche se lo volessimo, non possiamo impedire in alcun modo
che qualcuno ci intorbidi, che l'epoca in cui viviamo getti in noi la sua
"attualità"... quel che in noi è stato gettato, lo accoglieremo nelle nostre
profondità -poiché noi siamo profondi- e diventeremo di nuovo limpidi».
Ciò detto, va aggiunto -ed è il motivo di queste brevi riflessioni- come non sia
difficile credere che all'eccitamento maniacale di Fukujama, tutto proteso alla
celebrazione della teoria e della prassi che sembrano vincenti -e per molti
versi lo sono!- ed alla concomitante, ed esorcistica, espulsione,
dell'immaginario collettivo, di ogni diversa «tentazione» culturale, abbiano
contribuito -agendovi con effetto moltiplicatore- i mutamenti drammatici e
fascinosi che vanno sotto il nome di «rivoluzione del 1989». Quella rivoluzione,
cioè, che -ironia della storia!- a due secoli esatti dalla presa della Bastiglia,
e dai fatti che quell'evento hanno preceduto e seguito, ha definitivamente
cancellato una faccia della medaglia coniata dalla Zecca dei Lumi.
Esce dalla scena, in maniera persino ingloriosa, il comunismo. Crollano i muri.
Il socialismo realizzato, ovvero capitalismo di stato, perde la sua risibile
scommessa ed il marxismo sembra non aver mai appartenuto alla filosofia politica
contemporanea, diventando per i più -e tra essi molti intellettuali, pensatori e
capipopolo che vi si sono abbeverati per lustri sul versante culturale- che
potrebbe -paradossalmente- testimoniare della volontà di mascherare o
minimizzare una crisi incipiente, destinata a dilatarsi nei prossimi anni.
Ecco perché, a Fukujama, fa eco dalla Germania, Joachim Fest (è sempre
"Panorama" che ne parla) autore di un libro di imminente pubblicazione. Titolo:
"II sogno distrutto". Sottotitolo: "La fine dell'età delle utopie". Come dire:
più chiari di così... Gli intellettuali «liberal» mostrano i muscoli, esercizio
superfluo, spesso indicativo di ancestrali paure.
Ma vi sono ben altri bicipiti dei quali si discute, con giustificata
preoccupazione, in questi giorni. La stampa internazionale ha reso noto un
documento particolarmente significativo del Pentagono che viene definito come il
«Manifesto USA sul nuovo ordine mondiale». Quarantasei pagine ispirate dal
sottosegretario alla difesa, Paul Wolfowitz che Baker ha cercato, con poco
successo, di ridimensionare e che lo stesso supergovernatore del pianeta, George
Bush, ha etichettato come «documento interno», con la speranza di gettare un po'
d'acqua sul fuoco delle polemiche.
Nulla di nuovo, in quel «manifesto», per chi -come noi- ha sempre saputo che gli
americani hanno, da mezzo secolo, osteggiato una vera unità europea; ch'essi non
tollererebbero mai la realizzazione di una difesa comune europea; che la NATO è
il meccanismo con il quale, da Yalta in poi, gli USA hanno tenuto in ostaggio il
cosiddetto Occidente, alla stessa guisa del «patto di Varsavia», per quanto
riguarda i paesi dell'ex impero sovietico; che l'ONU è tutt'altro che un
organismo indipendente e sovrano essendo, al contrario, lo strumento attraverso
il quale Washington fornisce una copertura -come dire?- legale alle decisioni
che riguardano la tutela dei propri affari ed interessi internazionali.
Nulla di nuovo, dicevamo. Stupisce, semmai, che questa strategia venga oggi
codificata. Che, cioè, i punti essenziali del progetto «mondialista» vengano
messi, nero su bianco, uno di seguito all'altro, con tanta spavalda sicurezza da
apparir sospetta. In effetti, nel cuore dell'impero americano emergono sempre
più evidenti segnali di crisi. Gli indicatori economici hanno virato da tempo
verso una recessione che terrorizza ogni giorno di più la Casa Bianca, tanto da
mettere a rischio la stessa poltrona dell'attuale inquilino. Il quale non
disdegnerebbe -né si fa scrupoli nel dichiararlo o nel farlo da altri ribadire!-
un ulteriore palcoscenico militare, per piantare con maggior vigoria la bandiera
a stelle e strisce sul tetto del mondo.
Il teatro militare irakeno è già pronto e collaudato, e forse per questo Saddam
Hussein passerà alla storia come l'unico dittatore che non ha ancora pagato con
la vita una disfatta. Carta di riserva la Libia di quel pazzo d'un Gheddafi.
Nell'un caso o nell'altro, potremo gustarci i massacri su scala industriale,
realizzati da armi sempre più «intelligenti», sgranocchiando un "hot dog" e
bevendo coca-cola davanti al televisore. Anche di questo ci si nutre nel
«paradiso in terra». Queste le tappe obbligate lungo «l'american way of life».
No, dott. Fukujama. Noi non siamo per nulla persuasi che la storia sia finita e
che ci si debba accontentare di annotare le cronache, nere o rosa, che giungono
ora da Washington, ora da New York, dalla Casa Bianca o dal Pentagono, da Wall
Street o dalla NASA. La storia, quella vera, è fatta -anche da quelle parti- di
miseria e di rabbia, di disperazione e di speranza. Decine di milioni di
indigenti, di uomini, donne e bambini senza assistenza sanitaria. E poi la
droga, le violenze: quelli che si definiscono costi esistenziali, ogni giorno
più insopportabili. Indicatori di un malessere pronto ad esplodere, con potenza
devastante, al quale il liberal-capitalismo non solo non può dare risposte, ma
non può neppure prestare attenzione. Condannato a produrre all'infinito, a
consumare all'infinito fino all'autoconsunzione. Fino ad esaurimento di ogni
risorsa.
No, dott. Fukujama, non è finita la storia. Nel 2022 ci saranno dieci miliardi e
mezzo di uomini che busseranno alle porte del paradiso in terra. E già oggi vi
bussano, vedendosi ricacciare nell'inferno della fame, africani ed asiatici,
arabi, latino-americani, e persino quegli europei che, dopo Yalta, si sono
trovati di là del muro. È il Sud del mondo che preme. Sono gli schiavi d'oggi,
per i quali sarà sempre più difficile allestire stive e costruir catene.
Ecco perché noi continuiamo a pensare ad altro. A dannarci l'anima per
un'alternativa possibile, quanto indispensabile. Noi crediamo, in definitiva,
che una «terza via» esiste e vale la pena camminarla fino in fondo. E non è
detto che non si possa avere, come compagni di viaggio, quanti provengono da
sentieri diversi, fino a ieri incompatibili. È questa l'umile ed ambiziosa sfida
che vogliamo lanciare, a noi stessi ed agli altri, dalle pagine di "Tabularasa".
È questa la lezione che ci viene proprio da quella Storia che, mai come oggi, si
prende beffa di ogni deterministica previsione. Di ogni materialistica lettura.
Risparmia il fiato, Francis. «La fine è l'inizio».
Beniamino
Donnici
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