«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 3 (31 Maggio 1992)

 

l'ultima

 

Ho sognato di vivere a Milano

 


«Spicchio di luna non navigo più,
in quelle stesse acque tempestose dove tu,
mi trovasti tanto male in arnese.
Sergio Caputo,
"Spicchio di luna"
 


Questa notte ho sognato una «cosa» strana, ho sognato di essere socialista, di essere trapiantato a Milano, di essere un provetto consulente culturale della pubblica amministrazione, columnist di un grande quotidiano, finedicitore TV, di essere infine un ometto compito e pure servizievole nel mio rituale di piccolo pescecane di regime.
E ho sognato che avevo una bella e forte età fra i trenta e i quaranta, un parco camicie di inesauribile fantasia, un bolide rosso-ormone decapottabile, un angolo di riposo a Milano 2, l'abbonamento al Piccolo, alla Scala, alla Metropolitana, i buoni-taxi, il buono sconto alle librerie Rizzoli, una donna bona e bella da fare spavento, che mi sembra finta e si chiama o si fa chiamare Dandi o Dinda; e poi nel sogno vivevo una solitudine morsicchiata fra briciole di croissant e frappe di latte intero e fragole, flautavo una dizione perfetta curata all'inverosimile senza alcuna doppia consonante, senza strascichi di scivolose consuetudini gutturali, senza sole e con tanta notte spesa come denaro e al banco di un bar prossimo all'alba, un bar dove i netturbini del secondo turno di tanto in tanto spruzzano le fialette del disgusto e certe volte un po' di invidia.
E la donna mi diceva andiamo, «andiamo a prenderci un bel travestito che ci divertiamo», e io che non voglio passare per un provinciale mi dico «noblesse oblige!» e premo sulla frizione per agguantare un bello/bella stacco di gambe vertiginose, occhi di maliarda, bionda, forse bionda vera, meglio di una donna, ma voce roca, arrochita. «Ma chistu masculu mi pari», mi sembra la voce di un tenore ma non lo posso dire alla Dandi che le due già si cercano e si bramano come vecchie tope porcellone, si stringono i polsi, si scambiano i bijou, e andiamo tutte-tré a casa con una bottiglia ghiaccia di Carperò; «piccolo metti musica», metto musica, metto Vivaldi?, mi sembra la scena dell'Esorcista e penso: che ci fa la voce di Nicola Arigliano dentro la faccia di una bellissima donna? «Noblesse oblige», «ma cu ciu u cunta a 'u paisi», ma chi lo potrà mai raccontare al paese questa avventura? domenica ritorno in Sicilia, mi fermerò in piazza seduto ai tavoli del bar: quanta gente, quante questue, quante richieste, un posto all'Eni, un posto in banca, un posto all'Intendenza, e io sono il commissario del partito, garofaniere, giovane leva, manager, ospite ad Arcore, mi vedono tutti in televisione, conosco tutti, questo, quello, e le vallette, le presentatrici.
«Sa di fimmini», chissà quante donne, «Bedda Matri, non mi posso lamentare». Ma che ci faccio qui? Chi è quel sergentone vestito da donna? E quella lurda che parla gne gne, che mi dice «piccolo metti musica», quanti soldi mi costa, e mi dice: «dai i soldi a Gigina, ma sii delicato, non la offendere, non è come le altre, è una carina molto sensibile». E ci credo che è sensibile, si asciuga tredici righe di cocaina in mi fiat, questo/questa a braccio di ferro mi distrugge. «Ma cu ciu u cunta a 'u paisi». Tieni questo piccolo regalo Gigina, e Gigina comincia uno spogliarello, il massimo della originalità, raglia a gola spiegata «Nove settimane e mezzo», «muta! disgraziata ca 'cca mi ettanu fori!». Succede questo: una cappa di silenzio, due lampi di furia negli occhi di Dandi, quindi lui sibila: «io mi chiamo Luigia Maria e non comprendo il terronese». Pure il travestito leghista dovevo incontrare. Ma il sogno continua, e quelle due lì cominciano a sbranarsi, loro due, cioè lui e lei, lei e lei, ed io fra di loro. «Ma cu ciu u cunta a 'u paisi», sono cose che capitano al continente, ed è sempre la stessa storia, prendiamo l'aria del continente e il primo paio di corna che si trova in giro ci si impianta in testa meglio di un'antenna parabolica.
Ma mi sveglio, finalmente mi sveglio, e non sono socialista, non mi trovo a Milano, sono ancora pendolare fra la Sicilia, Napoli e Roma, non mi fermo in piazza al paese perché non voglio sentirne di posti di lavoro e di banche, non mi passa nemmeno dalla testa di passare davanti all'agenzia del Banco di Sicilia, non voglio farmi inseguire dai postulanti, voglio fare la «aopposizzione». Ecco, mi sono svegliato e la mattinata scorre tranquilla. E' vero: com'è difficile trovare «l'alba dentro l'imbrunire», come difficile digerire i totani in zuppa piccante presi alla sera, ma troppo alla sera, verso le due di notte.
 

Pietrangelo Buttafuoco

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