Orizzonti perduti
Abbiamo girato la boa. Sembrerà troppo facile dire che lo avevamo previsto, ma è
così. Non era difficile forse, non siamo stati certo soli a farlo, ma era su
questa previsione, su questa analisi che avevamo calibrato le nostre scelte. Non
comprese da molti un anno fa, non comprese forse ancora oggi da qualcuno.
Queste elezioni hanno segnato un confine, una svolta, ancor più sul piano delle
sensazioni, delle reazioni che su quello dei numeri: si è incrinato
definitivamente il monopolio consociativistico della politica e del governo,
tutto è ridiventato possibile. Non si può certo ancora dire che siano scomparsi
i partiti, i quali hanno sostanzialmente mantenuto, in termini percentuali, sia
la propria forza che i rapporti proporzionali reciproci. È la fisionomia dei
partiti, il loro ruolo che non esiste più, la dinamica complessiva che li
sorreggeva ha mutato le proprie direttrici.
Sono ancora sintomi, ma ormai evidenti ed irreversibili. Quando le strutture di
un palazzo iniziano a cedere si avvertono segni evidenti, si aprono crepe, si
registrano cedimenti; da un certo punto in poi il processo diventa irreversibile
ed il crollo arriva all'improvviso. In un attimo, in un solo secondo, tutta la
materia, coesa fino all'attimo precedente, riacquista la sua struttura
originaria, i mattoni ridiventano mattoni, i sassi sassi, il legno legno, la
calce polvere. Quello che prima era un muro, un palazzo, diventa un mucchio di
materiali grezzi, sciolti, pronti per essere riutilizzati o buttati in una
discarica.
Questo è lo stato della politica italiana: il crollo non è ancora avvenuto ma è
lì lì per esserci, e quando ci sarà, in un solo istante non esisterà più nulla
di quello che avevamo conosciuto.
I sintomi, dunque. Non erano ancora ultimati gli spogli che già erano saltati
tutti i patti e tutte le certezze della vigilia, la logica del CAF naufragata. E
nonostante gli sforzi compiuti ancora in queste ore per rimetterla in piedi, non
sembra destinata a restaurarsi e se qualcuno vi riuscisse (mentre scrivo si vota
ancora per il Quirinale) non sarà che per una stagione effimera. Gli
schieramenti inediti per la elezione dei presidenti delle camere hanno
dimostrato efficacemente la nascita di nuovi, transitori equilibri.
Ma il sintomo più chiaro sta nelle dimensioni e nelle modalità dell'emersione
dello scandalo partito dall'inchiesta del giudice Di Pietro. Fatti noti a tutti
da sempre e da tutti ritenuti intoccabili; la corruzione, quel tipo di
corruzione, era il fondamento stesso del potere e della politica italiana.
Improvvisamente quello che sembrava impossibile diventa possibile. Si muovono,
in maniera inaspettata, tre grandi soggetti: i giudici, gli imprenditori, la
gente. Un pool di magistrati coraggiosi trova lo spazio per rompere l'omertà ed
i controlli gerarchici e scoperchia la pentola milanese, a ruota seguono altri
colleghi in ogni parte del Paese, innestando un meccanismo che sembra ormai
inarrestabile. Gli imprenditori, complici o vittime, si mettono in fila, in una
sorta di ordalia liberatoria per contribuire a dare una forma alla macchina
della corruzione. La gente, che a Milano si scuote da un torpore decennale e
scende in piazza, insieme missini, comunisti, verdi, retini, democristiani,
leghisti, alla ricerca di una speranza; la gente che in tutta Italia comincia a
denunciare a parlare a liberarsi.
Tre atteggiamenti convergenti sostenuti da un'unica sensazione: l'assenza di un
potere riconoscibile cui rendere conto o da cui nascondersi. Questo è il senso
più tangibile della crisi, un potere che non c'è più, l'attesa che ne nasca uno
nuovo. Nel vuoto tutto diviene, quindi, possibile, tutto è effimero.
Non è secondario il fatto, per quanto ci riguarda, che nessuno di noi, di quanti
decidemmo di uscire dalla gabbia di un partito, abbia avuto una esitazione, un
dubbio, di fronte al recupero elettorale di quel partito. Paradossalmente, anzi,
le nostre fila si sono ingrossate dopo il risultato e molti altri hanno compiuto
la nostra stessa scelta ad un anno di distanza e molti ancora ci hanno detto:
«avevate ragione».
Indubbiamente Fini è stato bravo. Ha agito all'interno con quella
spregiudicatezza e quella determinazione che altri avrebbero dovuto e non hanno
saputo usare. All'esterno ha portato il MSI fuori dalla confusione delineando il
profilo di un partito che è l'esatto contrario di quello in cui noi e tanti
altri, per ragioni diverse, speravamo. Ciò gli ha consentito di pescare nel
serbatoio labile del populismo conservatore e di inserirsi per un po' in quei
giochetti parlamentari che, da oppositore interno, tanto aborriva. È una storia
tanto povera e tanto vecchia da non farci ritenere che la sorte del MSI non
resti comunque legata alla crisi della politica italiana. Per ora abbiamo avuto
solo conferme.
Le nostre povere fiches le abbiamo puntate sulla casella della crisi, la nostra
scommessa è fondata sul collasso e sulla transizione. C'è tra di noi chi non ha
votato scegliendo di partecipare alla vita del nostro Paese a livelli diversi da
quello puramente elettorale, c'è chi ha scelto la presenza attiva in quei
movimenti che, per la propria dichiarata transitorietà e per una somma di
intenti programmatici, più rispondevano alle opzioni individuali. Ma ognuno ha
saputo dare, per quello che è e che rappresenta, un apporto attivo, non di
attesa o di testimonianza, a questo momento di cambiamento.
Non intendiamo esprimere posizioni ingenue, ma neanche muoverci all'interno di
una affettata e distaccata analisi intellettuale. Siamo comunque troppo abituati
a vivere di emozioni e nutrirci di simboli, di miti. Nei giorni in cui ci sembra
di vedere nuovamente delinearsi quegli orizzonti della politica che ci erano
stati sottratti, quando vediamo, da Milano, le immagini di una città che,
rompendo gli steccati, si ribella al grido di «ladri-ladri», la nostra mente non
può che andare a posarsi sul sogno di Brasillach e La Rochelle, sulle loro
emozionate note del '34.
È un tempo di grandi mischiamenti.
Umberto
Croppi
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