È primavera
Di primavere annunciate, lungamente attese e mai fiorite, è pieno il divenire
delle stagioni, quanto l'incedere della storia. Certe storiche primavere, poi
-vere, presunte o tradite- si sono spesso manifestate in autunno, qualche volta
in ottobre.
1922. Il calendario indica primavera, i metereologi interrogano la sfera di
cristallo per sapere quando il mandorlo si desterà dal letargo... la Storia
-insolitamente- strizza l'occhio al calendario.
Terremoto politico. Così titolavano, a tutte colonne, la maggior parte dei
quotidiani nazionali, all'indomani del voto del 5 e 6 aprile: il «day after».
Ricordate le immagini sui teleschermi, moderni ed invadenti totem, scrupolosi
«ordinatori» delle umane vicende? Man mano che i dati affluivano e si
«omogeneizzavano» sulle incalzanti «videate», le facce della nomenklatura
politica nostrana, immortalate per i «commenti a caldo», disegnavano smorfie di
incredulità e sgomento. Come quelle, del resto, dei giullari di corte, direttori
di rete, cronisti di palazzo, commentatori a «gettone» ed intellettuali
«prèt-à-porter».
Terremoto politico: cronaca, minuto per minuto, del crollo annunciato di un
impero che riteneva di poter sopravvivere all'avanzare tumultuoso, sconvolgente
e fascinoso di quella Storia che -a dispetto dei tanti Fukuyama di turno- ha
deciso, improvvisamente, di azzerare equilibri e rapporti di forza, di
modificare la politica e persino la geografia del pianeta, ridisegnando scenari,
indicando nuove prospettive, rispolverando altari e sotterrando simulacri,
riscrivendo epitaffi, sorridendo a chi ha fatto tesoro delle sconfitte ed
irridendo agli inchini dei servi, prima ancora che alla protervia dei
trionfatori.
Immaginarsi i politicanti nostrani -razza particolarmente mediocre e
pervicacemente ottusa- davanti alla sorprendente scoperta che il vento della
storia non avesse soffiato, né continuasse a fischiare, soltanto a Praga o
Berlino, a Buda come a Mosca o Kabul, nella polverizzata Jugoslavia o in
Albania; per azeri, azerbaigiani, kazaki, come per inglesi, austriaci, belgi,
francesi ed americani; per musulmani ed ortodossi, cattolici e protestanti; per
le «mono» ed «oligocrazie», quanto per le democrazie; in Oriente quanto in
Occidente; al Nord come al Sud del mondo. Già, immaginarsi i politici di casa
nostra davanti alla scoperta che neppure il sacro -e, per loro, prodigo di
privilegi- italico suolo veniva risparmiato dall'onda sismica che, dall'89 in
poi, epicentro nel cuore d'Europa, si è propagata in ogni continente.
Andreotti, Craxi, Forlani, Occhetto, Cariglia, La Malfa, Altissimo, Fini e gli
altri, prime donne e comparse, tutti in fila per sei col resto di due come nella
filastrocca che cantavamo da bambini, lanciati in ardite imprese politichesi per
descrivere o spiegare ora la «significativa flessione» ora la «discreta tenuta»,
l'«arretramento di qualche frazione di punto» o il «consolidamento della
rappresentanza parlamentare»; tutti egualmente incapaci di comprendere che la
pacchia è finita per sempre. Che, cioè, ad uscir sconfitto dalle urne non è
questo o quel partito, uno schieramento o l'altro, la maggioranza che non c'è
più e l'opposizione che non è in grado di sostituirla, ma l'intero sistema di
potere politico ed economico che essi, secondo logiche consociative, hanno
contribuito a costruire ed al quale si sono abbeverati.
Si chiude una fase, si completa un «ciclo», saltano gli schemi con i quali
ciascuno di noi era abituato a ragionare, antiche certezze si dissolvono,
perdono di senso i luoghi della politica che ci erano familiari, vanno
irrimediabilmente in crisi remote appartenenze.
No! non è solo un potere via via diventato «regime» che si polverizza e disperde
in questa primavera; non sono soltanto i partiti -con i loro perversi ed occulti
intrecci, con le complicità e connivenze inconfessate, con le ruberie e gli
scandali di cui continuano ad essere protagonisti- che, ben al di là dei
consensi comunque raccattati, perdono definitivamente il loro soffocante peso ed
il consolidato «ruolo» nella società; non è più questione di marioli ed
affaristi, tangentocrati e mafiosi, stragisti, piduisti, gladiatori e
depistatoli.
Tutto questo, a guardarlo oggi, appare tremendamente lontano: come se ci fossimo
improvvisamente trovati dinanzi ad una svolta epocale. La fine, cioè, -questa sì
non da tutti prevista!- di una cultura che, nel bene e nel male, ha fin qui
rappresentato ed impregnato di sé mezzo secolo di storia. Della nostra storia.
Ecco: se c'è un elemento -vorremmo dire un sentimento- che diffusamente emerge,
dopo il voto di aprile, è una sorta di «sradicamento» culturale da cui deriva
una crisi di identità che riguarda tutti. Che «ci» riguarda tutti. Di più: la
consapevolezza, avvertita anche da quanti hanno finito per votare per partiti ed
uomini «tradizionali», che -dopo «quel» voto- nulla sarà come prima. Come se si
fosse celebrato, finalmente, un rito sacrificale e «liberatorio».
Sicché, comunque vadano le cose dal punto di vista dei cambiamenti istituzionali
e costituzionali, qualunque sia la riforma elettorale che gli sconcertati -e tra
poco disoccupati- attori della politica metteranno in cantiere, la novità vera
-e per certi versi rivoluzionaria- è l'essersi innestato un processo
irreversibile di revisione culturale e di rivisitazione storica che finirà
necessariamente per disaggregare e riaggregare l'esistente, producendo nuove
polarità, nuove affinità, differenti sensibilità culturali, sintesi
programmatiche e strategiche fino a ieri impensabili.
Per questo non ci sembra azzardato ipotizzare che, anche al di là delle miopie,
delle pigrizie, dei pregiudizi e delle ambiguità di molti di noi, dalla
confusione creatrice di oggi non potrà non lievitare un nuovo, forte e vincente
antagonismo, nutrito di diverse e, magari, opposte esperienze e contributi.
Agirà, cioè, nei prossimi mesi ed anni un qualche invisibile e misterioso
laboratorio culturale nel quale si forgeranno generazioni nuove, capaci di
accettare e vincere la difficile sfida dei tempi.
Ecco perché, a differenza di altri, non ci soffermeremo più di tanto sul
significato e sulle prospettive dell'annunciato successo leghista al nord; sulla
fine dell'onda lunga socialista; sulla frana democristiana e sulla pesante
scomunica che la società civile ha scaraventato addosso a certi vescovi
marpioni; sull'empito di orgoglio, peraltro di corto respiro, che ha spinto
molti orfani del comunismo a stringersi intorno ai colori sociali difesi da
Cossutta e Garavini, costringendo Occhetto a leccarsi le piaghe e le ferite
all'ombra poco ristoratrice della sua quercia-bonsai; sui premi cossighiani -e
fors'anche massonici- ai liberali di Altissimo od agli scodinzolanti picconatori
di Fini; sul mediocre risultato di La Malfa o su quello di Cariglia; sul
tramonto verde e sul due-per-cento della Rete, oppure sull'ennesimo scoop del
solito Pannella.
Altre cose premono sullo scenario di fine millennio. Ben altri e più solidi
imperi vacillano, rendendo di più facile lettura il processo di transizione dal
vecchio al nuovo che non poteva non interessare l'Italia e di cui il voto di
aprile è stato un semplice indicatore di viraggio.
D'altra parte, che di questo si tratti -e non di un banale incidente di percorso
sulla via della modernizzazione del sistema- è provocato dal fatto che, nelle
settimane immediatamente successive, i vari ed obbligati adempimenti
istituzionali ne hanno messo a nudo lo stato di marasma, fornendo la
dimostrazione eloquente che «quel» voto era stato sostanzialmente e radicalmente
diverso da tutti gli altri. Non solo, ma se qualcuno avesse ancora dei dubbi, i
fatti di Milano -di questi giorni e di queste ore- quasi per una beffa
cronologica del destino rammentano che i partiti -tutti i partiti, come sin qui
li abbiamo sciaguratamente conosciuti e sopportati- sono spariti per sempre
dall'immaginario collettivo.
Ma, dicevamo, altre vicende, ben altri avvenimenti si offrono ad una analisi
appena meno che parziale e superficiale. E su di essi torneremo diffusamente,
nei prossimi numeri di "Tabularasa". Ma vogliamo fin d'ora accennarvi, perché si
tratta di interessanti e stimolanti terreni sui quali misurare impegno politico,
capacità culturale e maturità ed attualità complessiva di un «progetto».
Non sappiamo se i fatti verificatisi sull'asse Los Angeles-New York
obbligheranno l'amministrazione Bush ad interrogarsi su quel che sta accadendo
nel ventre d'America, risparmiando al Gheddafi di turno il piacere di vedere in
azione gli intelligentissimi e sofisticati pronipoti dei «gloriosi» Winchester
di cui hanno ben memoria i superstiti della Nazione Indiana. Fatto si è che la
rivolta nera dei giorni scorsi è un segno dei tempi.
Come lo sono gli scioperi ad oltranza che stanno destabilizzando la robusta
Germania o le tensioni che si verificano un po' ovunque in occidente. Né
basteranno ad esorcizzarle l'Expo di Siviglia o l'Euro-Disney di Parigi, le
imprese del Moro o i botti del Cinquecentenario.
C'è malessere, nel cuore dell'impero! Come una bomba a tempo innescata «ab
origine» e destinata ad esplodere. Quel che sappiamo è che noi ci sentiamo
vicini alla rabbia dei neri, quanto alla disperazione di tutti gli emarginati,
ai popoli che rivendicano dignità ed indipendenza ed a quelli che sono
determinati a difendere cultura, tradizioni, memoria, confini. A quanti cioè non
ci stanno ad arrendersi al nuovo ed aberrante ordine mondiale. Alle logiche
devastanti dell'usura e del profitto.
No! Questi non son tempi in cui bisogna mettere in campo partitini e
movimentucoli, ergere steccati e ritagliarsi spazi personali o di gruppo. Il
malessere che sale come una marea montante non è solo economico, sociale, morale
e culturale. È un male sordo e sottile, profondo e lacerante che appartiene a
tutti, che mina l'esistenza di ciascuno, giorno dopo giorno
Son tempi questi, per dirla con Heidegger, in cui «c'è bisogno di un altro Dio e
di un'altra religione». Altro che vecchi e nuovi feticci! Si faccia avanti chi
vuole e chi può!
Beniamino
Donnici
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