«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 3 (31 Maggio 1992)

 

È primavera

 


Di primavere annunciate, lungamente attese e mai fiorite, è pieno il divenire delle stagioni, quanto l'incedere della storia. Certe storiche primavere, poi -vere, presunte o tradite- si sono spesso manifestate in autunno, qualche volta in ottobre.
1922. Il calendario indica primavera, i metereologi interrogano la sfera di cristallo per sapere quando il mandorlo si desterà dal letargo... la Storia -insolitamente- strizza l'occhio al calendario.
Terremoto politico. Così titolavano, a tutte colonne, la maggior parte dei quotidiani nazionali, all'indomani del voto del 5 e 6 aprile: il «day after».
Ricordate le immagini sui teleschermi, moderni ed invadenti totem, scrupolosi «ordinatori» delle umane vicende? Man mano che i dati affluivano e si «omogeneizzavano» sulle incalzanti «videate», le facce della nomenklatura politica nostrana, immortalate per i «commenti a caldo», disegnavano smorfie di incredulità e sgomento. Come quelle, del resto, dei giullari di corte, direttori di rete, cronisti di palazzo, commentatori a «gettone» ed intellettuali «prèt-à-porter».
Terremoto politico: cronaca, minuto per minuto, del crollo annunciato di un impero che riteneva di poter sopravvivere all'avanzare tumultuoso, sconvolgente e fascinoso di quella Storia che -a dispetto dei tanti Fukuyama di turno- ha deciso, improvvisamente, di azzerare equilibri e rapporti di forza, di modificare la politica e persino la geografia del pianeta, ridisegnando scenari, indicando nuove prospettive, rispolverando altari e sotterrando simulacri, riscrivendo epitaffi, sorridendo a chi ha fatto tesoro delle sconfitte ed irridendo agli inchini dei servi, prima ancora che alla protervia dei trionfatori.
Immaginarsi i politicanti nostrani -razza particolarmente mediocre e pervicacemente ottusa- davanti alla sorprendente scoperta che il vento della storia non avesse soffiato, né continuasse a fischiare, soltanto a Praga o Berlino, a Buda come a Mosca o Kabul, nella polverizzata Jugoslavia o in Albania; per azeri, azerbaigiani, kazaki, come per inglesi, austriaci, belgi, francesi ed americani; per musulmani ed ortodossi, cattolici e protestanti; per le «mono» ed «oligocrazie», quanto per le democrazie; in Oriente quanto in Occidente; al Nord come al Sud del mondo. Già, immaginarsi i politici di casa nostra davanti alla scoperta che neppure il sacro -e, per loro, prodigo di privilegi- italico suolo veniva risparmiato dall'onda sismica che, dall'89 in poi, epicentro nel cuore d'Europa, si è propagata in ogni continente.
Andreotti, Craxi, Forlani, Occhetto, Cariglia, La Malfa, Altissimo, Fini e gli altri, prime donne e comparse, tutti in fila per sei col resto di due come nella filastrocca che cantavamo da bambini, lanciati in ardite imprese politichesi per descrivere o spiegare ora la «significativa flessione» ora la «discreta tenuta», l'«arretramento di qualche frazione di punto» o il «consolidamento della rappresentanza parlamentare»; tutti egualmente incapaci di comprendere che la pacchia è finita per sempre. Che, cioè, ad uscir sconfitto dalle urne non è questo o quel partito, uno schieramento o l'altro, la maggioranza che non c'è più e l'opposizione che non è in grado di sostituirla, ma l'intero sistema di potere politico ed economico che essi, secondo logiche consociative, hanno contribuito a costruire ed al quale si sono abbeverati.
Si chiude una fase, si completa un «ciclo», saltano gli schemi con i quali ciascuno di noi era abituato a ragionare, antiche certezze si dissolvono, perdono di senso i luoghi della politica che ci erano familiari, vanno irrimediabilmente in crisi remote appartenenze.
No! non è solo un potere via via diventato «regime» che si polverizza e disperde in questa primavera; non sono soltanto i partiti -con i loro perversi ed occulti intrecci, con le complicità e connivenze inconfessate, con le ruberie e gli scandali di cui continuano ad essere protagonisti- che, ben al di là dei consensi comunque raccattati, perdono definitivamente il loro soffocante peso ed il consolidato «ruolo» nella società; non è più questione di marioli ed affaristi, tangentocrati e mafiosi, stragisti, piduisti, gladiatori e depistatoli.
Tutto questo, a guardarlo oggi, appare tremendamente lontano: come se ci fossimo improvvisamente trovati dinanzi ad una svolta epocale. La fine, cioè, -questa sì non da tutti prevista!- di una cultura che, nel bene e nel male, ha fin qui rappresentato ed impregnato di sé mezzo secolo di storia. Della nostra storia. Ecco: se c'è un elemento -vorremmo dire un sentimento- che diffusamente emerge, dopo il voto di aprile, è una sorta di «sradicamento» culturale da cui deriva una crisi di identità che riguarda tutti. Che «ci» riguarda tutti. Di più: la consapevolezza, avvertita anche da quanti hanno finito per votare per partiti ed uomini «tradizionali», che -dopo «quel» voto- nulla sarà come prima. Come se si fosse celebrato, finalmente, un rito sacrificale e «liberatorio».
Sicché, comunque vadano le cose dal punto di vista dei cambiamenti istituzionali e costituzionali, qualunque sia la riforma elettorale che gli sconcertati -e tra poco disoccupati- attori della politica metteranno in cantiere, la novità vera -e per certi versi rivoluzionaria- è l'essersi innestato un processo irreversibile di revisione culturale e di rivisitazione storica che finirà necessariamente per disaggregare e riaggregare l'esistente, producendo nuove polarità, nuove affinità, differenti sensibilità culturali, sintesi programmatiche e strategiche fino a ieri impensabili.
Per questo non ci sembra azzardato ipotizzare che, anche al di là delle miopie, delle pigrizie, dei pregiudizi e delle ambiguità di molti di noi, dalla confusione creatrice di oggi non potrà non lievitare un nuovo, forte e vincente antagonismo, nutrito di diverse e, magari, opposte esperienze e contributi. Agirà, cioè, nei prossimi mesi ed anni un qualche invisibile e misterioso laboratorio culturale nel quale si forgeranno generazioni nuove, capaci di accettare e vincere la difficile sfida dei tempi.
Ecco perché, a differenza di altri, non ci soffermeremo più di tanto sul significato e sulle prospettive dell'annunciato successo leghista al nord; sulla fine dell'onda lunga socialista; sulla frana democristiana e sulla pesante scomunica che la società civile ha scaraventato addosso a certi vescovi marpioni; sull'empito di orgoglio, peraltro di corto respiro, che ha spinto molti orfani del comunismo a stringersi intorno ai colori sociali difesi da Cossutta e Garavini, costringendo Occhetto a leccarsi le piaghe e le ferite all'ombra poco ristoratrice della sua quercia-bonsai; sui premi cossighiani -e fors'anche massonici- ai liberali di Altissimo od agli scodinzolanti picconatori di Fini; sul mediocre risultato di La Malfa o su quello di Cariglia; sul tramonto verde e sul due-per-cento della Rete, oppure sull'ennesimo scoop del solito Pannella.
Altre cose premono sullo scenario di fine millennio. Ben altri e più solidi imperi vacillano, rendendo di più facile lettura il processo di transizione dal vecchio al nuovo che non poteva non interessare l'Italia e di cui il voto di aprile è stato un semplice indicatore di viraggio.
D'altra parte, che di questo si tratti -e non di un banale incidente di percorso sulla via della modernizzazione del sistema- è provocato dal fatto che, nelle settimane immediatamente successive, i vari ed obbligati adempimenti istituzionali ne hanno messo a nudo lo stato di marasma, fornendo la dimostrazione eloquente che «quel» voto era stato sostanzialmente e radicalmente diverso da tutti gli altri. Non solo, ma se qualcuno avesse ancora dei dubbi, i fatti di Milano -di questi giorni e di queste ore- quasi per una beffa cronologica del destino rammentano che i partiti -tutti i partiti, come sin qui li abbiamo sciaguratamente conosciuti e sopportati- sono spariti per sempre dall'immaginario collettivo.
Ma, dicevamo, altre vicende, ben altri avvenimenti si offrono ad una analisi appena meno che parziale e superficiale. E su di essi torneremo diffusamente, nei prossimi numeri di "Tabularasa". Ma vogliamo fin d'ora accennarvi, perché si tratta di interessanti e stimolanti terreni sui quali misurare impegno politico, capacità culturale e maturità ed attualità complessiva di un «progetto».
Non sappiamo se i fatti verificatisi sull'asse Los Angeles-New York obbligheranno l'amministrazione Bush ad interrogarsi su quel che sta accadendo nel ventre d'America, risparmiando al Gheddafi di turno il piacere di vedere in azione gli intelligentissimi e sofisticati pronipoti dei «gloriosi» Winchester di cui hanno ben memoria i superstiti della Nazione Indiana. Fatto si è che la rivolta nera dei giorni scorsi è un segno dei tempi.
Come lo sono gli scioperi ad oltranza che stanno destabilizzando la robusta Germania o le tensioni che si verificano un po' ovunque in occidente. Né basteranno ad esorcizzarle l'Expo di Siviglia o l'Euro-Disney di Parigi, le imprese del Moro o i botti del Cinquecentenario.
C'è malessere, nel cuore dell'impero! Come una bomba a tempo innescata «ab origine» e destinata ad esplodere. Quel che sappiamo è che noi ci sentiamo vicini alla rabbia dei neri, quanto alla disperazione di tutti gli emarginati, ai popoli che rivendicano dignità ed indipendenza ed a quelli che sono determinati a difendere cultura, tradizioni, memoria, confini. A quanti cioè non ci stanno ad arrendersi al nuovo ed aberrante ordine mondiale. Alle logiche devastanti dell'usura e del profitto.
No! Questi non son tempi in cui bisogna mettere in campo partitini e movimentucoli, ergere steccati e ritagliarsi spazi personali o di gruppo. Il malessere che sale come una marea montante non è solo economico, sociale, morale e culturale. È un male sordo e sottile, profondo e lacerante che appartiene a tutti, che mina l'esistenza di ciascuno, giorno dopo giorno
Son tempi questi, per dirla con Heidegger, in cui «c'è bisogno di un altro Dio e di un'altra religione». Altro che vecchi e nuovi feticci! Si faccia avanti chi vuole e chi può!
 

Beniamino Donnici

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