Revisionismo storico
Era inevitabile che con lo sbriciolamento del muro di Berlino cadesse quel
castello di menzogne che la storiografia del secondo dopoguerra ha costruito ad
usum delphini.
L'avulsione dei paletti della Cortina di Ferro costringerà a riscrivere la
storia. Ne vedremo delle belle e assisteremo, noi che certe verità abbiamo
sempre conosciuto, al rovinio di «eroi», che altro non erano che volgari
traditori, e all'innalzamento agli onori degli altari della storia di figure
scientemente lasciate marcire sol perché avevano commesso il tragico «errore» di
trovarsi a combattere nel campo perdente.
Troveremo vieppiù la conferma di errori madornali, in cui incorsero nel passato
uomini politici trasformati in Dei. Lenin ammoniva che il modo migliore per
uccidere un politico è trasformarlo in un'icona. Gli archivi si aprono e dai
carteggi saltano fuori i documenti, la prova provata delle nefandezze e degli
eroismi della storia.
Viene anche riesumata una lettera con la quale Togliatti spiegava a Vincenzo
Bianco, agente dell'Internazionale comunista, firmatario del documento di
scioglimento del Comintern, perché era giusto che gli uomini dell'ARMIR,
catturati dai sovietici, crepassero nei lager dell'Armata Rossa. Occhetto ne è
rimasto agghiacciato e con lui tutte le «anime belle» della repubblica italiana
nata dalla resistenza.
Solo Giorgio Bocca è rimasto impassibile. Questo vecchio arnese della guerra
civile, supponente moralista, edificatore con le sue azioni partigiane (ma se ne
rende conto?) di questa repubblica che cola a picco nei liquami della Baggina e
di tutti gli scandali di quarantacinque anni di democrazia mafiosa, è costretto
alla impassibilità del ruolo che s'è dato, figli, medaglia d'argento d'una
guerra fratricida, deve difendere Togliatti e con lui il proprio passato.
Condannando «Ercoli», non si salva la guerra civile. E se a Bocca togliete
quell'episodio cruento della storia italiana, non ne rimane più nulla: una vita
sprecata. La storia ristabilisce la verità e lui, imperterrito, rimane
abbarbicato alle menzogne del 25 Aprile.
Da "L'Espresso" del 10.5.1992: «[La guerra partigiana] non è stata una guerra
civile fra democratici e fascisti perché l'8 settembre del '43 i fascisti
italiani erano già morti e sotterrati, anche se i loro fantasmi si aggiravano
per l'Italia occupata dai nazisti. La guerra partigiana è stata guerra
risorgimentale contro lo straniero occupante e guerra democratica per l'avvento
in Italia di uno Stato libero».
Quello di Lucky Luciano, Vito Guarrasi, Salvo Lima e di tutti i mafiosi che
hanno tenuto a battesimo il paese del malaffare.
E poi... i due anni di guerra civile, Bocca della Verità, contro chi li ha
combattuti? Contro i «fantasmi»? Suvvia... e chiediamo scusa per l'inciso. Forse
non ne valeva la pena.
Il calvario dei nostri uomini in Russia è consegnato alla storia. Poco è stato
pubblicizzato su ciò che avvenne prima della disastrosa ritirata e dopo, fra
quelli che non riuscirono a sfondare a Nikolaevka. Da "Centomila gavette di
ghiaccio" di Bedeschi a "II sergente nella neve" di Mario Rigoni Stern, da "7
rubli per il cappellano" di Guido Maurillo Turla a "Mai tardi" e "La strada del
Davai" di Nuto Rovelli, a tutta la sequela di testimonianze pubblicate in questi
quarantacinque anni, c'è stato un solo interesse della pubblicistica e della
storiografia «resistenziale»: mettere in cattiva luce il fascismo, «regime
dell'avventura» che «con scarpe di cartone, col moschetto '91» si era lanciato
alla conquista dell'impossibile.
Sulle motivazioni dell'entrata in guerra dell'Italia lasciamo parlare Giovanni
Spadolini, attuale presidente del Senato e forse presidente della Repubblica,
che su "Italia e Civiltà" del 1944 scriveva: «È chiaro che una grande potenza,
posta all'incrocio di essenziali vie marittime, con fondamentali interessi
marittimi da difendere e salvaguardare e altrettanto fondamentali obiettivi
economici e militari e territoriali da realizzare, con in più un potente,
rinnovante principio ideale da diffondere, non poteva appartarsi da un conflitto
in cui si poneva in giuoco il destino dell'intero mondo».
Ed esiste un libro, "Tecnica della sconfitta", scritto dallo storico di fama
Franco Bandini, il quale documenta come l'armamento e il livello di preparazione
dell'Esercito Italiano fino al 1942 non aveva nulla da invidiare a quello
inglese e men che meno francese e russo. Ma questo è un altro fatto.
Necessita però, per non irrobustire la confusione, porsi finalmente delle
domande, che esigono delle risposte. Ciò doveva compiere il mondo del
neofascismo italiano, che s'è piccato (spesso a torto) di arrogarsi un'eredità,
dissipata in onore a un tizio come Cossiga. Non l'ha fatto e non lo farà più,
scadendo nella reticenza di fronte alla storia, che ne condanna inesorabilmente
la credibilità.
E un quesito da porsi davanti alla propria coscienza e a quella del popolo
italiano è questo: che ci andammo a fare in Russia? La conduzione della guerra
da parte degli Stati Maggiori italiani fu disastrosa. C'è da riconoscerlo. Gli
eroismi individuali costituiscono un conto, il giudizio complessivo però non può
essere assolutorio.
Il fascismo ebbe una colpa grave: frenò la rivoluzione. Se è vero che all'inizio
non ebbe la forza di sfoltire i ranghi degli Stati Maggiori, brulicanti di
massoni e reazionari, è pur vero che quando questa forza fu acquisita, durante
gli Anni del Consenso, il problema non fu affrontato. Anzi si fece di più e di
peggio. Scadendo in una funzione legittimista e legalitaria, si glorificarono
certi soggetti, come il Badoglio, marchiati già di codardia nei fatti del Primo
Conflitto Mondiale.
I risultati non potevano essere che quelli che furono. Una guerra disordinata,
una faciloneria colpevole, nessuna strategia e una tattica inconcludente, che
non porteranno risultati positivi e faranno strage del sangue di un popolo.
Dunque... che ci andammo a fare in Russia? Qual'era l'obiettivo strategico di
quella spedizione? Non se ne vede. Esisteva soltanto una questione ideologica,
che non fu tenuta in gran conto allorché si trattò, nei Primi Anni Trenta, di
stipulare accordi economici con Stalin, che portarono a costruire nei cantieri
navali italiani il fior fiore della Marina da guerra sovietica. Pur tuttavia,
per una questione ideologica sarebbe stato sufficiente il CSIR (Corpo di
Spedizione in Russia), quell'unico Corpo d'Armata, comandato dal Generale Messe,
composto da tre divisioni, una Legione della Milizia e due gruppi d'aviazione,
mandati ad affiancare i Tedeschi nell'«Operazione Barbarossa».
Si volle di più, Mussolini volle di più e ci infognammo. Gli interessi
strategici italiani dovevano rimanere circoscritti al Mediterraneo. Non
prendemmo Malta, non conquistammo Gibilterra. Se quelle dieci divisioni
dell'ARMIR, con i loro settemila ufficiali e duecentoventimila uomini fossero
state dirottate in Africa Settentrionale comandate da uomini diversi da Rodolfo
Graziani, che avrà la rara «capacità» di farsi distruggere la 10ª Armata, forte
di altrettanti 220.000 uomini, superiori in tutto ai 36.000 inglesi di O'Connor,
probabilmente la storia avrebbe avuto un altro corso.
Di simili «incidenti» sarebbe ora che qualcuno chiedesse perdono al popolo
italiano e ai settantamila che non tornarono dalle steppe russe. E questo
perdono va implorato anche da parte di coloro i quali sono schierati dalla parte
di chi, per interessi di fazione, si fece truce carceriere degli uomini
dell'ARMIR.
Non c'è solo Togliatti. Perché il pericolo che si corre è questo. Come s'è
addossata tutta la colpa dei disastri militari e politici a Mussolini, il che
non è giusto, adesso si vorrebbe crocifiggere solo Togliatti. No. Togliatti era
in buona compagnia. Con lui c'era Rita Montagnani, Giuseppe Di Vittorio e tutto
il gotha del comunismo fuoriuscito. E non solo quello. Non c'è nemmeno da
meravigliarsi di certi loro atteggiamenti.
Qualche settimana fa ci si è chiesto come avesse potuto un italiano come
Togliatti ergersi a carnefice di altri italiani. La domanda è oziosa. Per il
comunismo non esistevano nazionalità e sistemi di valori ad esse afferenti.
Antonio Gramsci, nella «Introduzione al 1° Corso della Scuola Interna di
Partito» già nel 1925 scriveva: «In campo internazionale il nostro partito è una
semplice sezione di un partito più grande, di un partito mondiale».
L'internazionalismo comunista è esaustivo nello spiegare l'atteggiamento dei
«compagni» nostrani nei confronti dei soldati italiani prigionieri. Come
esauriente diventa il richiamo, che Togliatti effettua nella ormai famosa
lettera a Bianco, sul «vecchio Hegel». È l'interpretazione della storia che il
filosofo di Stoccarda dava, a spingere il «migliore» a considerarlo
confidenzialmente. Hegel fu una personalità controversa, ammiratore di
Napoleone, ritenuto «l'anima del mondo», che «seduto a cavallo lo sormonta e lo
domina». Ritenne la storia «un grande banco di macelleria».
In "Lezioni sulla filosofia della storia" spiegherà che per comprenderne la
razionalità come affermazione di libertà necessita porsi al di sopra
dell'individuo e di una moralità, ritenuta «astratta», e collocarsi in una
prospettiva capace di comprendere il significato anche del male e della
sofferenza nella realizzazione di un disegno.
Mentre gli uomini laceri dell'ARMIR morivano di tifo petecchiale nei lager della
Siberia e della Bessarabia, Togliatti era collocato in tale prospettiva. È vero
che non poteva far nulla per loro. Era la sua ideologia a impedirgli di agire.
Nulla contava lo strazio di uomini ridotti a larve, che morivano come mosche. La
loro passione, anzi, costituiva «il più efficace degli antidoti» per guarire il
popolo italiano da quel «male necessario» che l'aveva contagiato.
Una misura di hegelismo e machiavellismo.
Di fronte a tanto cinismo può rabbrividire sinceramente solo chi ritiene la
storia e il suo divenire «malattia dell'uomo moderno», secondo la definizione di
Nietzsche e ha rifiutato il «feticismo della temporalità» di evoliana memoria. A
questi non appartiene certo Togliatti e la sua combriccola. E tutti gli
intellettuali contemporanei, adusi a magnificarlo fino ad appellarlo «II
Migliore», che peggiore non poteva essere. Per gli uomini e la loro storia.
Vito
Errico
|