«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 3 (31 Maggio 1992)

 

Revisionismo storico

 


Era inevitabile che con lo sbriciolamento del muro di Berlino cadesse quel castello di menzogne che la storiografia del secondo dopoguerra ha costruito ad usum delphini.
L'avulsione dei paletti della Cortina di Ferro costringerà a riscrivere la storia. Ne vedremo delle belle e assisteremo, noi che certe verità abbiamo sempre conosciuto, al rovinio di «eroi», che altro non erano che volgari traditori, e all'innalzamento agli onori degli altari della storia di figure scientemente lasciate marcire sol perché avevano commesso il tragico «errore» di trovarsi a combattere nel campo perdente.
Troveremo vieppiù la conferma di errori madornali, in cui incorsero nel passato uomini politici trasformati in Dei. Lenin ammoniva che il modo migliore per uccidere un politico è trasformarlo in un'icona. Gli archivi si aprono e dai carteggi saltano fuori i documenti, la prova provata delle nefandezze e degli eroismi della storia.
Viene anche riesumata una lettera con la quale Togliatti spiegava a Vincenzo Bianco, agente dell'Internazionale comunista, firmatario del documento di scioglimento del Comintern, perché era giusto che gli uomini dell'ARMIR, catturati dai sovietici, crepassero nei lager dell'Armata Rossa. Occhetto ne è rimasto agghiacciato e con lui tutte le «anime belle» della repubblica italiana nata dalla resistenza.
Solo Giorgio Bocca è rimasto impassibile. Questo vecchio arnese della guerra civile, supponente moralista, edificatore con le sue azioni partigiane (ma se ne rende conto?) di questa repubblica che cola a picco nei liquami della Baggina e di tutti gli scandali di quarantacinque anni di democrazia mafiosa, è costretto alla impassibilità del ruolo che s'è dato, figli, medaglia d'argento d'una guerra fratricida, deve difendere Togliatti e con lui il proprio passato. Condannando «Ercoli», non si salva la guerra civile. E se a Bocca togliete quell'episodio cruento della storia italiana, non ne rimane più nulla: una vita sprecata. La storia ristabilisce la verità e lui, imperterrito, rimane abbarbicato alle menzogne del 25 Aprile.
Da "L'Espresso" del 10.5.1992: «[La guerra partigiana] non è stata una guerra civile fra democratici e fascisti perché l'8 settembre del '43 i fascisti italiani erano già morti e sotterrati, anche se i loro fantasmi si aggiravano per l'Italia occupata dai nazisti. La guerra partigiana è stata guerra risorgimentale contro lo straniero occupante e guerra democratica per l'avvento in Italia di uno Stato libero».
Quello di Lucky Luciano, Vito Guarrasi, Salvo Lima e di tutti i mafiosi che hanno tenuto a battesimo il paese del malaffare.
E poi... i due anni di guerra civile, Bocca della Verità, contro chi li ha combattuti? Contro i «fantasmi»? Suvvia... e chiediamo scusa per l'inciso. Forse non ne valeva la pena.
Il calvario dei nostri uomini in Russia è consegnato alla storia. Poco è stato pubblicizzato su ciò che avvenne prima della disastrosa ritirata e dopo, fra quelli che non riuscirono a sfondare a Nikolaevka. Da "Centomila gavette di ghiaccio" di Bedeschi a "II sergente nella neve" di Mario Rigoni Stern, da "7 rubli per il cappellano" di Guido Maurillo Turla a "Mai tardi" e "La strada del Davai" di Nuto Rovelli, a tutta la sequela di testimonianze pubblicate in questi quarantacinque anni, c'è stato un solo interesse della pubblicistica e della storiografia «resistenziale»: mettere in cattiva luce il fascismo, «regime dell'avventura» che «con scarpe di cartone, col moschetto '91» si era lanciato alla conquista dell'impossibile.
Sulle motivazioni dell'entrata in guerra dell'Italia lasciamo parlare Giovanni Spadolini, attuale presidente del Senato e forse presidente della Repubblica, che su "Italia e Civiltà" del 1944 scriveva: «È chiaro che una grande potenza, posta all'incrocio di essenziali vie marittime, con fondamentali interessi marittimi da difendere e salvaguardare e altrettanto fondamentali obiettivi economici e militari e territoriali da realizzare, con in più un potente, rinnovante principio ideale da diffondere, non poteva appartarsi da un conflitto in cui si poneva in giuoco il destino dell'intero mondo».
Ed esiste un libro, "Tecnica della sconfitta", scritto dallo storico di fama Franco Bandini, il quale documenta come l'armamento e il livello di preparazione dell'Esercito Italiano fino al 1942 non aveva nulla da invidiare a quello inglese e men che meno francese e russo. Ma questo è un altro fatto.
Necessita però, per non irrobustire la confusione, porsi finalmente delle domande, che esigono delle risposte. Ciò doveva compiere il mondo del neofascismo italiano, che s'è piccato (spesso a torto) di arrogarsi un'eredità, dissipata in onore a un tizio come Cossiga. Non l'ha fatto e non lo farà più, scadendo nella reticenza di fronte alla storia, che ne condanna inesorabilmente la credibilità.
E un quesito da porsi davanti alla propria coscienza e a quella del popolo italiano è questo: che ci andammo a fare in Russia? La conduzione della guerra da parte degli Stati Maggiori italiani fu disastrosa. C'è da riconoscerlo. Gli eroismi individuali costituiscono un conto, il giudizio complessivo però non può essere assolutorio.
Il fascismo ebbe una colpa grave: frenò la rivoluzione. Se è vero che all'inizio non ebbe la forza di sfoltire i ranghi degli Stati Maggiori, brulicanti di massoni e reazionari, è pur vero che quando questa forza fu acquisita, durante gli Anni del Consenso, il problema non fu affrontato. Anzi si fece di più e di peggio. Scadendo in una funzione legittimista e legalitaria, si glorificarono certi soggetti, come il Badoglio, marchiati già di codardia nei fatti del Primo Conflitto Mondiale.
I risultati non potevano essere che quelli che furono. Una guerra disordinata, una faciloneria colpevole, nessuna strategia e una tattica inconcludente, che non porteranno risultati positivi e faranno strage del sangue di un popolo.
Dunque... che ci andammo a fare in Russia? Qual'era l'obiettivo strategico di quella spedizione? Non se ne vede. Esisteva soltanto una questione ideologica, che non fu tenuta in gran conto allorché si trattò, nei Primi Anni Trenta, di stipulare accordi economici con Stalin, che portarono a costruire nei cantieri navali italiani il fior fiore della Marina da guerra sovietica. Pur tuttavia, per una questione ideologica sarebbe stato sufficiente il CSIR (Corpo di Spedizione in Russia), quell'unico Corpo d'Armata, comandato dal Generale Messe, composto da tre divisioni, una Legione della Milizia e due gruppi d'aviazione, mandati ad affiancare i Tedeschi nell'«Operazione Barbarossa».
Si volle di più, Mussolini volle di più e ci infognammo. Gli interessi strategici italiani dovevano rimanere circoscritti al Mediterraneo. Non prendemmo Malta, non conquistammo Gibilterra. Se quelle dieci divisioni dell'ARMIR, con i loro settemila ufficiali e duecentoventimila uomini fossero state dirottate in Africa Settentrionale comandate da uomini diversi da Rodolfo Graziani, che avrà la rara «capacità» di farsi distruggere la 10ª Armata, forte di altrettanti 220.000 uomini, superiori in tutto ai 36.000 inglesi di O'Connor, probabilmente la storia avrebbe avuto un altro corso.
Di simili «incidenti» sarebbe ora che qualcuno chiedesse perdono al popolo italiano e ai settantamila che non tornarono dalle steppe russe. E questo perdono va implorato anche da parte di coloro i quali sono schierati dalla parte di chi, per interessi di fazione, si fece truce carceriere degli uomini dell'ARMIR.
Non c'è solo Togliatti. Perché il pericolo che si corre è questo. Come s'è addossata tutta la colpa dei disastri militari e politici a Mussolini, il che non è giusto, adesso si vorrebbe crocifiggere solo Togliatti. No. Togliatti era in buona compagnia. Con lui c'era Rita Montagnani, Giuseppe Di Vittorio e tutto il gotha del comunismo fuoriuscito. E non solo quello. Non c'è nemmeno da meravigliarsi di certi loro atteggiamenti.
Qualche settimana fa ci si è chiesto come avesse potuto un italiano come Togliatti ergersi a carnefice di altri italiani. La domanda è oziosa. Per il comunismo non esistevano nazionalità e sistemi di valori ad esse afferenti. Antonio Gramsci, nella «Introduzione al 1° Corso della Scuola Interna di Partito» già nel 1925 scriveva: «In campo internazionale il nostro partito è una semplice sezione di un partito più grande, di un partito mondiale».
L'internazionalismo comunista è esaustivo nello spiegare l'atteggiamento dei «compagni» nostrani nei confronti dei soldati italiani prigionieri. Come esauriente diventa il richiamo, che Togliatti effettua nella ormai famosa lettera a Bianco, sul «vecchio Hegel». È l'interpretazione della storia che il filosofo di Stoccarda dava, a spingere il «migliore» a considerarlo confidenzialmente. Hegel fu una personalità controversa, ammiratore di Napoleone, ritenuto «l'anima del mondo», che «seduto a cavallo lo sormonta e lo domina». Ritenne la storia «un grande banco di macelleria».
In "Lezioni sulla filosofia della storia" spiegherà che per comprenderne la razionalità come affermazione di libertà necessita porsi al di sopra dell'individuo e di una moralità, ritenuta «astratta», e collocarsi in una prospettiva capace di comprendere il significato anche del male e della sofferenza nella realizzazione di un disegno.
Mentre gli uomini laceri dell'ARMIR morivano di tifo petecchiale nei lager della Siberia e della Bessarabia, Togliatti era collocato in tale prospettiva. È vero che non poteva far nulla per loro. Era la sua ideologia a impedirgli di agire. Nulla contava lo strazio di uomini ridotti a larve, che morivano come mosche. La loro passione, anzi, costituiva «il più efficace degli antidoti» per guarire il popolo italiano da quel «male necessario» che l'aveva contagiato.
Una misura di hegelismo e machiavellismo.
Di fronte a tanto cinismo può rabbrividire sinceramente solo chi ritiene la storia e il suo divenire «malattia dell'uomo moderno», secondo la definizione di Nietzsche e ha rifiutato il «feticismo della temporalità» di evoliana memoria. A questi non appartiene certo Togliatti e la sua combriccola. E tutti gli intellettuali contemporanei, adusi a magnificarlo fino ad appellarlo «II Migliore», che peggiore non poteva essere. Per gli uomini e la loro storia.

 

Vito Errico

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