Tutti i colori del nero
L'amico Vito Errico -vorrà perdonarmi, spero, se così mi permetto chiamarlo, pur
non avendo il piacere di conoscerlo di persona- mi eleva al rango di
«ispiratore» di un interessante suo articolo apparso nel secondo numero di
"Tabularasa". Davvero troppa considerazione, che mi impegna a misurarmi con la
massima accortezza e spirito dialogico, costruttivo, sinergico, con una serie di
affermazioni che, pur di notevole interesse, sembrano del tutto scevre di
residui elementi polemici e perfino, talvolta, di qualche pregiudizio.
Ma è giusto, anzitutto, dare atto a Errico della positività dell'angolazione
nella quale si colloca fin dall'inizio del suo scritto, allorché dichiara,
evidentemente esprimendo anche il punto di vista del gruppo cui appartiene: «Noi
abbiamo superato i vecchi schematismi, tanto è vero che abbiamo avuto il
coraggio di resecare un cordone ombelicale che ci stava recidendo le carotidi
del pensare. Abbiamo subito il complesso del Nemico ma l'abbiamo superato».
Perché mai è da giudicare positivamente tale concetto? Semplice: una cultura che
voglia porsi e proporsi come «nazionale» -e, a maggior ragione, «nazionale
popolare»- non può farsi carico di esigenze, idee, ideali, sentimenti, posizioni
caratterizzanti altre culture ed esperienze e scelte di vita che, pur ad essa
antagonistiche -per lo meno inizialmente-, tuttavia vengono in evidenza quali
momenti e aspetti non obliterabili del complessivo quadro storico del Paese. In
altri termini, il dovere della unitarietà emerge come il connotato specifico, il
proprium, di una linea «nazionale», o «nazionale popolare», da acquisire,
elaborare, approfondire non in una chiave puramente sentimentale, ma in un senso
più vasto, ossia quale dato fortemente politico, strategico e, per così
esprimersi, «rivoluzionario».
Naturalmente, trattandosi di culture aggregate e vissute in una logica di
permanente contrapposizione, il processo unitario che deve coinvolgerle -e,
possibilmente, esaurirle e fonderle nella lunga prospettiva- non potrebbe che
essere dialettico; fatto, cioè, di una serie ininterrotta ancorché creativa e
originalissima di tensioni e distensioni, di scomposizioni e ricomposizioni oggi
inimmaginabili, di commistioni o attualmente imprevedibili rispecificazioni.
«Era poi vero nemico?», si chiede, e sembra chiedere, Errico.
Non saprei. Diciamo che, con ogni probabilità, era un «nemico» storicamente
necessario ai fini dell'innesco di quel processo dialettico di cui ora appena
accennato, dal quale far scaturire ciò che un Poeta degli Anni '30-'40 -artista
scrittore e guerriero dalle controverse e contraddittorie e avventurose vicende
politiche- avrebbe, forse, suggestivamente titolato: "Nel gran cerchio
dell'ultimo orizzonte". Proprio come un volume suo di liriche.
* * *
La forma cortese e la costruttività dell'approccio di Errico alle mie ragioni
non gli vietano, peraltro, di esprimere, anche se in modo implicito, il dubbio
che sia intenzione mia coinvolgere il gruppo di "Tabularasa" -e, più in
generale, coloro che incarnano la tradizione niccolaiana- in una operazione
partitocratica. Orbene, io non ho né autorevolezza né mandato atti a consentirmi
il tentativo di immischiare chicchessia in qualsivoglia assiemaggio. Se però,
per absurdum, l'una e l'altro avessi, tutto mi industrierei di suggerire meno
che un inserimento partitocratico. E sia pure ad esclusivo livello culturale.
Quindi, stia tranquillo l'amico Errico: remotissima è da me l'astrattissima idea
di indurlo a «intraprendere una corsia preferenziale nei confronti del vecchiume
partitocratico tutto italiano». Ben altre sono le «corsie preferenziali»
preferite da chi, come il sottoscritto, può vantare aspre e inesauste e non
sempre perdute battaglie, non soltanto giornalistiche contro tutto ciò che è
partitocratico.
Tengo però presente che, già dirigente politico nazionale e provinciale, sono in
grado di assicurare che spesso e non volentieri i partiti, gli iscritti ai
partiti, sono le prime vittime di quella degenerazione della democrazia che
anzitutto Luigi Sturzo chiamò, appunto, partitocrazia. Perché gestori e
consumatori non ne sono coloro che si espongono, pagano le tessere, subiscono le
conseguenze di una scelta fatta per puro e duro idealismo, ma fameliche e
crudelissime nomenklature generali e locali, ferrignamente strutturate,
centralizzate, innervate su diffusi e capillari tessuti clientelari.
* * *
Aggiungo a quanto testé affermato che non mi punge affatto vaghezza di spendere
tesi e argomenti in prò di qualche ingresso, «organizzativo» o meno, nel campo
partitico dove è attestato il PSI. Dico ciò in quanto mi par di capire che
Errico mi «sospetti» di porre in essere ragionamenti che vanno in questa
direzione. Ma anche per ciò che attiene al tema PSI egli può e deve dormire
placidamente su due origlieri, perché quando scrivo per la bella e interessante
rivista diretta da Antonio Carli alighierianamente «faccio parte per me stesso»,
pur se non ho motivo di credere che i pensamenti versati nelle note in viaggio
di piacere (intellettuale) a Viareggio dispiacciano tanto o troppo a Via del
Corso e, magari, in altre Vie.
Del resto, perché i socialisti dovrebbero prendere cappello? La politica estera
di Craxi, ivi compresa la vexata quaestio della guerra del Golfo, può certo non
destare entusiasmi e non soltanto all'amico Vito Errico -non è un reato!-, ma
essa nulla toglie al merito storico del segretario del PSI che, nell'occasione
di Sigonella, seppe andare oltre, e di molto, a una tradizione di grigio,
conformistico, servile appiattimento sull'egemonismo americano e sul ruolo guida
degli USA, superando d'un balzo la situazione di sovranità limitata nella quale
l'Italia era stata mortificata dal moderatismo centrista.
Scrivo queste parole tanto più volentieri in quanto, notoriamente, non sono uso
baciare la terra su cui Bettino Craxi poggia i piedi, diversamente da altri
ognora proni a veri o presunti cenni di simpatia o di interesse nei loro
confronti da parte del leader socialista, salvo manifestarsi banalmente e
trasformisticamente prudenzialisti allorché intervengono, per esempio, fatti
come quelli di Milano.
«Noi non ci siamo mai sintonizzati su queste lunghezze d'onda», esclama Errico,
sempre facendo riferimento alla politica estera del PSI.
Benissimo. Se infatti si fosse «sintonizzato» quale sarebbe oggi il contributo
suo e del filone politico-culturale cui appartiene all'indispensabile dibattito
con le grandi forze popolari che "Tabularasa", se ho ben compreso, ritiene di
dover «nazionalizzare»? Del resto, checché se ne dica e se ne pensi, le idee di
Craxi, in tema di politica estera o di altro offrono spunti e livelli di
discussione né precaria né superficiale all'interno del partito socialista e,
più in generale, della sinistra. Quindi, non è detto che le obiezioni errichiane
non trovino nel PSI orecchie anche autorevoli, o autorevolissime, disposte a
prestarvi congrua attenzione e interesse. Per il momento, comunque, si contenti
della mia.
* * *
Mi sento confortato dal notevole apporto che già con questo suo articolo Vito
Errico da ad un confronto -al momento solo ideale e puramente immaginato- con le
culture esterne al suo campo. Apporto, mi piace pensare, condiviso dall'insieme
del gruppo che da vita alla pubblicazione su cui egli si esprime. È
gratificante, anzitutto, un concetto come questo: «Si tenga presente che non
esistono da parte nostra nostalgie di partiti unici e non ci piacciono cesarismi
di maniera».
Perfetto. Altrettanto interessante il suo invito a rifarsi alle tesi
revisionistiche del socialismo elaborato negli Anni Trenta da Carlo Rosselli,
una firma che spicca nel Gotha dell'antifascismo emigrato. Addirittura l'amico
Errico riproduce un paio di brevi ma significativi periodi rosselliani
estrapolati dal saggio "II socialismo liberale", che così recitano in polemica
con il vetero-socialismo più ufficiale: «Ha parlato sinora quasi esclusivamente
di interessi, di diritti, di benessere materiale. Deve ora parlare più spesso di
idealità, di doveri, di sacrifici».
Perché giudico apprezzabile tale citazione in positivo del Rosselli, che con
ogni probabilità ha lasciato di stucco il lettore consueto di "Tabularasa"?
Anzitutto, perché segno inequivoco di superiore serenità d'animo, ineludibile
precondizione per il confronto ravvicinato fra culture tuttora irrimediabilmente
e irrinunciabilmente nemiche ad oltre settantanni dal primo scontro; da quando,
cioè, l'unità del movimento interventista andò in frantumi nel giudizio sulla
pace di Versaglia, sugli assetti postbellici più o meno wilsoniani in Europa e
negli spazi coloniali. E nel vaticinio sul modo di essere dell'Italia, sul suo
destino a livello planetario. Ad oltre settant'anni, quindi, da quella scissura
che indusse il compianto Augusto Del Noce a illustrare gli azionisti -ossia la
versione definitiva, più complessa e sofisticata, del movimento "Giustizia e
Libertà" fondato da Carlo Rosselli- come «i trotzkysti del fascismo».
Presentazione ardita che, ove accettata, potrebbe attagliarsi non solo alla
folta schiera di socialisti illustri e perfino illustrissimi dopo la sconfitta
fascista, ma anche al gruppo dei giovani gramsciani di Torino dapprima
mussoliniani e interventisti quindi ideatori e scrittori dell'«Ordine Nuovo» e
co-fondatori del Partito Comunista d'Italia unitamente alla componente
bordighista.
È mia opinione che anche con queste culture storielle del movimento operaio sono
chiamati a confrontarsi uomini come Antonio Carli e Vito Errico, che, par di
capire, pur desiderosi di elaborare autonomamente princìpi, strategie, tattiche,
politiche delle alleanze; pur decisi a non rinnegarsi, a non prodursi in un
«pentitismo» che non servirebbe a niente e a nessuno perché alibistico, ambiguo,
strumentale e, dunque, intrinsecamente perverso e destituito di moralità,
purtuttavia rifuggono dallo «scontro a sinistra» per evitare il ruolo grigio di
guardie bianche in camicia nera.
Va da sé che sto ricostruendo a senso, su intuizioni generalissime, ragion per
cui mi si corregga ove andassi errato.
Torna acconcio a questo punto constatare, e non senza sorpresa, come, con il
loro contenuto ideologico, le poche parole avvedutamente estrapolate da Errico
dal saggio rosselliano assomiglino quali gocce d'acqua, della stessa acqua, alle
consegne civili, alle parole d'ordine, agli impegni etici e spirituali, alle
intuizioni sociali, alle concezioni rivoluzionarie, non dei nazisti e dei loro
servi sciocchi di lingua italiana -la parte abbietta della RSI-, ma dei ragazzi
e delle ragazze, degli uomini e delle donne, che nell'autunno del 1943 vollero
optare per il regime del Garda e si fecero «repubblichini» pensando anche alla
socializzazione e, magari, lontani trilioni di anni luce dall'immaginare che
l'illusione del ribaltamento delle sorti di una guerra già irrimediabilmente
segnate fosse destinata a sfociare in uno scontro terribile fra italiani, con
l'inevitabile conseguenza di massacri, rastrellamenti, agguati, vendette,
efferatezze, ferocie di vario genere e specie.
In proposito, vale la pena leggere, o rileggere, il bellissimo romanzo
autobiografico di un ex giovane legionario della Guardia Nazionale Repubblicana
che ora, mi dicono, vota radicale, Franco Mazzantini, edito alcuni anni or sono
dalla Mondadori con il titolo "A cercar la bella morte".
E uguale invito mi piace rivolgere per "II repubblichino", del marò della X MAS
Ugo Franzolin, una penna fra le migliori anche se non fra le più fortunate.
Tanto vero che non trova grandi editori, anche se lo strameriterebbe.
* * *
II Lettore avrà certo compreso che di Vito Errico mi è andata a genio la
straordinaria onestà intellettuale. La colgo anche nella straripata sincerità
con cui, in rapidissimi ma sufficienti tocchi, presenta, come dire? tutti i
colori del nero, compresi i nerissimi, quelli che più nero non si può. Senza con
ciò cadere nel laiolismo, ossia in un fenomeno di maledizione e persecuzione
verso i propri camerati e il loro e suo passato, di rinnegamento esasperato,
sovraeccitato, allucinato e allucinante.
Vediamo: «Anche noi potremmo dire per comodità che il nostro fascismo, che
guardava a Marcello Gallian piuttosto che ad Achille Starace, a Carlo Ravasio
anziché a Dino Grandi, è altro. Ma il fascismo fu quello di Mussolini: con le
bonifiche, la fondazione di città, l'impianto di protezioni sociali, i
littoriali della cultura, ma anche il Tribunale Speciale, le leggi razziali che
ci fanno tanta vergogna, la retorica del regime, la condotta disastrosa della
guerra, il sacrificio spesso inutile di migliaia di vite umane, non di rado le
migliori. Di tutto questo portiamo responsabilità che non possiamo scaricare e
dalle quali possiamo redimerci soltanto in un maniera: non incorrendo negli
stessi errori commessi nel passato e cogliere dalla storia tutta la durezza e la
crudezza delle sue lezioni. Farcene cilicio, che marchi a sangue le nostre carni
e la nostra anima. Per sentirci toccati del nostro sangue, in parità con chi ha
subito, spesso ingiustamente, violenze e prevaricazioni».
Ed ecco una salutare componente propositiva: «Ed è proprio dalle lezioni del
passato che noi tutti, noi che abbiamo visto in una cultura borghese imperante
l'ostacolo maggiore per l'affermazione dei nostri ideali, dovremo sederci
intorno a un tavolo e discutere. E se proprio non possiamo unirci sulle cose che
vogliamo, dovremo almeno trovare coesione su ciò che non vogliamo».
Troppa grazia, sant'Antonio! Anzi San Vito! Scherzi a parte, mi scuso per la
riproduzione di un brano ampio già apparso in queste pagine, ma mi è parso
troppo efficace, troppo originale, troppo centrato per non riproporlo
all'approfondimento del pubblico di "Tabularasa".
In cosa consiste il suo pregio? È presto detto: nel differenziarsi in profondità
sia dall'ingenuo, puerile, irritante, irrazionale integralismo nostalgico, sia
-lo si diceva dianzi- dal laiolismo, acriticamente succhiato alla mammella
dell'ala dura di quel vetero-antifascismo di maniera messo fortemente in
discussione anche all'interno della stessa cultura antifascista. Per esempio,
nel vario radicalismo non soltanto pannelliano.
Cose degne di chiose l'amico Errico dice, anche, a proposito della RSI. Ma il
discorso, qui, mi condurrebbe lontano. Troppo. E tirannia di spazio, come usava
dire nell'Ottocento, mi vieta di inoltrarmi in esso.
Ma non scanso l'argomento. Non mi tiro indietro. Aspetto, solo, che il
direttore, Antonio Carli, dia il consenso.
Enrico
Landolfi
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