«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 4 (31 Luglio 1992)

 

A Dio i martiri non gli hanno fatto mai cambiar giudizio

 


«A Dio i martiri non gli hanno fatto mai cambiar giudizio», così il Gaber di "Io se fossi Dio".
Per noi comuni mortali la cosa è un po' diversa e, di fronte al sangue, ad una violenza che sfugge alla nostra comprensione, capita a volte di vacillare, di revocare in dubbio certe nostre certezze. È così che guardando le immagini dell'uccisione di Salvo Lima e, ancor più, quelle dell'attentato a Falcone, una emozione ci ha fatto dubitare per un attimo dell'assioma «potere politico = mafia, corruzione, criminalità». Per un attimo appunto, ma poi sull'emozione hanno dovuto riprendere il sopravvento il ragionamento, il buon senso, l'esperienza.
E quindi l'assioma torna ad essere al centro della nostra valutazione, della nostra analisi, in forma più meditata anzi, quindi meno acritica, meno pregiudiziale. Sempre meno moralistica e sempre più politica. I due episodi possono avere, ed hanno avuto, molte diverse letture, nessuna certa, spesso compatibili o sovrapponibili anche se diverse, ma probabilmente, al di là dello specifico ed immediato movente, si inseriscono entrambi nel cambiamento delle regole della politica italiana. Costituiscono un indice dello stato dei rapporti tra la politica e la criminalità organizzata, non la loro negazione. E, ce lo siamo detto più volte, anche se non c'è un legame tra i due fatti e le inchieste giudiziarie di quel fenomeno che oggi si chiama tangentopoli, episodi così diversi e lontani hanno una loro coerenza di sintomi, si inseriscono in quel più generale processo di rottura dei vecchi schemi.
Due filoni diversi, dunque, che si intrecciano, che vanno valutati insieme ma tenendo conto della loro differenza.
La corruzione, quella che tutti conosciamo, quella che secondo la chiamata in correo di Bettino Craxi non assolve nessuno è divenuta, poco a poco un metodo pervasivo, un sistema, una regola. Tutta la vita politica italiana ormai è scandita da essa: non esiste da anni una opposizione anche perché non vi è opposizione che non sia assoggettata a questa regola e la lotta politica si è sempre più trasformata in lotta per la partecipazione alla spartizione del bottino. Ma la corruzione non è quello che si vorrebbe far credere, un sistema di finanziamento sommerso dei partiti, essa è meccanismo di potere delle correnti, dei gruppi, delle cosche nei partiti ed è anche generalizzata aspirazione all'arricchimento personale.
Sull'altro versante mafia, camorra, 'ndrangheta, sono apparati di potere criminali divenuti spropositatamente forti grazie al traffico della droga e delle armi. Sono due mercati, questi, intimamente connessi e intimamente legati a certi apparati dello Stato, con connivenze necessarie sia di tipo politico che istituzionale. E in questo settore che passano le risposte a molti degli interrogativi rimasti insoluti in questi anni. Droga, armi, mafia, servizi segreti, stragi, controllo di interi territori, controllo di pacchetti di voti, è tutto nello stesso calderone.
Non c'è un politico a capo della mafia come non c'è un mafioso padrone della politica, sono due facce della stessa medaglia, sono gruppi, fazioni che si controllano, in un equilibrio precario e che si inviano segnali, avvertimenti, che a volte si scontrano.
Basterebbe un dato, oltretutto parziale. Si calcola che la droga renda ai trafficanti italiani circa 40.000 miliardi l'anno (stima di qualche anno fa): una cifra di tali dimensioni metterebbe chiunque in grado di comprare vasti settori del potere.
Ma una considerazione più grave a questo è connessa. Secondo alcuni esperti una discreta aliquota di queste entrate viene «pulita» attraverso l'acquisto di titoli di Stato italiani negoziati all'estero. Se questo, come sembra, è vero, significa che la mafia è il maggior azionista di uno Stato che gestisce, già oltre i limiti della bancarotta, le proprie scarne economie attraverso i «prestiti» che i cittadini gli fanno investendo in titoli. Provate a pensare cosa avverrebbe se la mafia portasse all'incasso questo suo pacchetto di cambiali che lo Stato gli ha sottoscritto. Pensate a qual'è la forza di ricatto che ciò gli attribuisce, sullo «Stato», non solo sui «Partiti» o gli uomini.
Sono solo cenni di argomenti che costituiscono una voragine insondabile su cui altri e meglio di me si sono profusi in questi anni. Sono evidenti, noti, vissuti da ognuno di noi i motivi che attestano la contiguità totale tra criminalità e sistema dei partiti in Italia: le collusioni, per usare un termine adoperato dallo stesso Falcone.
Perché, c'è da chiedersi oggi, solo oggi ed in forme così eclatanti emergono? Perché oggi gli attentati eccellenti ed apparentemente senza senso, perché il risveglio della magistratura, perché i pentimenti. Perché quel sistema di apparati collusi cede, perché le regole del potere saltano, perché gli equilibri da precari diventano instabili e si aprono varchi per la protesta, per l'azione giudiziaria, ma anche si manifestano in forma eccessiva, morbosa, i tentativi di quel potere di sopravvivere a sé stesso, di rigenerarsi.
Tempi brutti dunque all'orizzonte. Non basteranno le riforme cui si ricorre tardivamente per tamponare la diga che crolla. Non basteranno certi pensionamenti importanti che già nella formazione del nuovo governo si sono adombrati. Gli intrecci di cui si parlava, il modus operandi di chi oggi è in politica, a tutti i livelli, sono così diffusi e radicati che una svolta non potrà che coinvolgere tutto.
Quello che realmente spaventa è che non ci sembra di individuare oggi nessuno in grado di gestire il passaggio, di raccogliere delle eredità, di guidare il cambiamento. Manca in Italia una nuova cultura di governo e soprattutto qualcuno che sia in grado di interpretarla.
Ci piacerebbe indicare, magari illudendoci, questo o quel personaggio, questa o quella forza come un riferimento verso cui orientarsi. Purtroppo non ne vediamo, perché anche proprio i più onesti, quelli con cui ci sembra opportuno oggi collaborare, onestamente si collocano come fenomeni di transizione, come ponti.
Altro non c'è quindi da fare che raccogliere gli sforzi degli uomini di buona volontà e dare ed offrire aiuti senza pregiudizi: c'è almeno di buono che la necessità ha portato una radicale spinta al superamento. Ci siamo da tempo culturalmente attrezzati per passare attraverso questo guado, perseguiamo il nostro destino di viandanti, commuovendoci pure davanti allo spettacolo della violenza e della morte, ma senza farci distrarre da convinzioni che, se non sono ormai più ideologiche, derivano dalla nostra esperienza, da quello che abbiamo imparato.
 

Umberto Croppi

Indice