«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 4 (31 Luglio 1992)

 

Dopo il massacro le prefiche

 


Anche stavolta, volutamente, siamo rimasti fuori dal coro. Ciechi di rabbia, eppure silenziosi, davanti ai feretri di Giovanni Falcone, di sua moglie e dei poliziotti della scorta. In silenzio! Come sempre, in occasione degli innumerevoli fatti di sangue che, con ritmata ferocia, scandiscono i trionfi di Mafia ed il progressivo disfacimento dei più elementari princìpi della civile convivenza.
Un silenzio che non è soltanto ispirato dal rispetto per le vittime di ieri e di oggi. Men che meno, da una sorta di aristocratico distacco che pur ci tenta in questi sciagurati tempi nostri, in cui ogni valore perde senso e dilagano egoismi, miserie e miserabili: l'illecito diventa lecito; i mediocri ed i furbastri hanno ragione dei capaci e degli onesti; i criminali possono tessere indisturbati trame di morte; il profitto è spesso malaffare; la ricchezza ed il potere, comunque ottenuti, obiettivi da tutti perseguiti.
No! non è religioso raccoglimento, né cristiana pietà la scelta del silenzio davanti alla barbarie. Né impotenza, né rassegnazione.
La verità è che, ben più cinico ed insopportabile dell'ennesimo massacro, ci appare il rituale che gli fa da corollario: la liturgia delle parole e delle chiacchiere, quando non della menzogna; il lamento delle prefiche; lo sciopero automatico; le mobilitazioni più o meno spontanee di una troppo enfatizzata e non sempre incolpevole società civile; i commenti di palazzo che disegnano patetici fantasmi di democrazie aggredite, istituzioni minacciate, stabilità compromesse.
Palazzinari, politici e non. Animali forterazza. Gran parte di essi stanno lì da circa mezzo secolo. Miracolosamente sopravvissuti a tentativi destabilizzanti di destra e sinistra, all'attacco proditorio di golpisti neri e brigatisti rossi. Stanno lì. Inamovibili ed imperturbabili come tutte le nomenklature. Indenni lungo la notte della repubblica, quando ci si scannava ogni giorno per strada: immemori di piduisti e gladiatori, faccendieri e depistatoli di questo o quel servizio, interno od internazionale.
Tutti lì, nel palazzo, anche in quell'afoso sabato pomeriggio. A servire il paese, come sempre. Lavoravano alacremente per noi, davanti al catafalco di Montecitorio, per regalarci il presidente più amato. Altro che faide e dissapori, risse tra bande correntizie e polemiche da osteria. Maldicenze. Nient'altro che maldicenze.
Si era al tredicesimo giorno ed in attesa della diciassettesima votazione -sia detto per gli amanti della cabala- quand'ecco la notizia: il giudice Falcone era stato trucidato. Ed ecco il coro: attacco destabilizzante al cuore delle istituzioni democratiche.
Che, invece, guarda caso, dopo il massacro si «stabilizzano»; e si ricompongono equilibri di potere e perdute alleanze, ricevendo l'agonizzante partitismo un'insperata e provvida terapia intensiva. E, forse, d'ora in avanti qualche conto svizzero sarà al riparo da inopportune ingerenze.
Potere demoniaco e taumaturgico della mafia! Che, a ben vedere, da un lato dimostra un'impressionante capacità organizzativa ed operativa attraverso un'azione militare che fa impallidire i Corpi speciali degli eserciti più efficienti e, dall'altro, denuncia macroscopici limiti strategici: scegliendo di portare un attacco destabilizzante ed ottenendo l'esatto effetto contrario.
No! non si allarmino i «mafiologi». E neppure gli spiriti candidi che -catturati dalla favoletta hegeliana dello Stato come «astrazione»- ne invocano una più incisiva presenza per arginare lo strapotere criminale. Non si offendano i paladini delle legislazioni speciali e dei codici di guerra. Ci perdonino le folte schiere di meridionalisti tanto colti, quanto piagnoni.
Per noi, il tempo delle favole è passato da un pezzo. Sicché, se non v'è dubbio alcuno che l'uccisione di Falcone sia opera di mafia, non di meno l'azione criminale lascia coltri spessissime di inquietanti interrogativi.
E ci convince di quanto sia ipocrita e strumentale considerare la Mafia come una sorta di anti-Stato o di stato parallelo, un contropotere conflittuale ed alternativo rispetto a quello dominante. Essa è -piaccia o non piaccia- stato nello Stato, potere nel Potere. Di più: uno dei cardini sui quali -anche storicamente- si erge l'attuale sistema politico.
Anni di indagini degli organismi inquirenti, inchieste parlamentari, tonnellate di carte e documenti sotto «segreto d'archivio» lo hanno ampiamente dimostrato. Per non parlare dell'esperienza di ciascuno di noi che, vivendo a Sud della speranza, sa bene quanti intrecci, complicità, contiguità e connivenze leghino il mondo della politica a quello degli affari ed entrambi alla malavita organizzata.
Non fosse così, la Mafia sarebbe stata sconfitta, come lo fu il terrorismo. Ma il primo era un fenomeno realmente «eversivo», la seconda no. Ed è questa la ragione della sua ennesima, terrificante vittoria e della sua ultradecennale impunità. Uccidendo Giovanni Falcone, la Mafia ha sicuramente centrato anche obiettivi di carattere interno, relativi cioè a propri interessi e programmi. Scegliendo di farlo con un massacro, ed in «questo» momento politico, essa ha realizzato un disegno strategico che è altrettanto funzionale a partiti ed uomini che fingono di strapparsi le vesti ed i capelli. Come le prefiche, appunto.
E fra poco calerà il sipario anche sull'ultimo pugno di uomini che, come tanti altri, non ha fatto niente di più e niente di meno che il proprio dovere in un'epoca dominata dall'arbitrio, dall'illegalità e dal privilegio.
Ricordo una vecchia saga nibelunga. L'anziana donna, accanto al fuoco, raccontava al bambino: «Tuo padre è lassù, nelle grotte degli antichi guerrieri coi capelli di rame e con gli occhi di cielo. Dorme, perché adesso è il tempo della pace ...»
Più d'uno ha sostenuto che Falcone fosse un anti-eroe. A noi piace ricordare lui, sua moglie e la sua scorta -ma anche i tanti altri che l'hanno preceduto- come gli eroi di oggi. Esempi e simboli dai quali partire per costruire una società migliore e più giusta.
Possiamo farcela. Dobbiamo farcela.
 

Beniamino Donnici

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