La potenza della parola
«Né ferro, né piombo, né fuoco
possono salvare la Libertà, ma la parola soltanto».
Sono le ultime considerazioni effettuate in vita da Angelo Fortunato Formiggini
prima che librasse il tragico «volo» suicida dalla Ghirlandina modenese, per
protestare contro la malvagità delle leggi razziali.
Quasi nulla mi lega all'editore emiliano sul piano delle idealità, tutto chiuso
com'era nel suo universalismo radical-massonico ma cito la frase per la potenza
del messaggio che promana.
Io non conosco fisicamente Enrico Landolfi ma non è vero che gli amici degli
amici sono pur essi amici? S'era amico di Beppe Niccolai, s'è amico di Piero
Vassallo, è anche mio amico e se avrà la pazienza di ascoltarmi, chiacchiereremo
da vecchi amici. Anche perché non è che sia per me proprio uno sconosciuto.
Da "Gramsci e Gioberti nel discorso nazionale-popolare" a "Socialismo e Nazione"
ho posto attenzione a quest'uomo, ch'è oltre tutto interessante per la sua
collocazione, la quale gli permette una libertà d'azione, che quelli come me
solo oggi cominciano ad assaporare. In questo dialogo a distanza dovremmo però
mettere ordine giacché c'è tanto da dibattere e lo spazio è tiranno. E chissà
quale avvenire può avere e quali frutti può dare questo parlarci per iscritto.
Parlarci. Della storia del nostro popolo dal cosiddetto Risorgimento al
fascismo; dalla cosiddetta Resistenza ai giorni nostri.
L'articolo "Tutti i colori del nero", di cui Landolfi è autore nel terzo numero
di "Tabularasa", m'invita a interessanti considerazioni che abbraccerebbero
tutta l'«ideologia italiana» e la chiusura del «pezzo» m'induce ad aspettare
trepidante di leggere quanto avrà da scrivere un hinimicus, secondo la
definizione schmittiana, sulla tragica ma bella esperienza della RSI.
Per intanto vorrei aprire con un argomento che per me è fondamentale ai fini di
una trattazione proficua dai risvolti politici, sociali ed economici. Landolfi
me ne fornisce l'occasione allorché richiama, nel succitato articolo, il «merito
storico del segretario del PSI che, nell'occasione di Sigonella, seppe andare
oltre, e di molto, a una tradizione di grigio, conformistico, servile
appiattimento sull'egemonismo americano e sul ruolo guida degli USA».
Da ciò si arguisce che io pongo sul tavolo ideale di questo nostro discutere, e
per questa volta, la questione basilare, fondamentale, essenziale della
sovranità italiana come soggetto di politica internazionale. L'episodio di
Sigonella rappresenta ormai un frammento paleostorico che è morto
definitivamente nel momento in cui si concedeva l'avallo all'ultima (in ordine
di tempo) e più sporca «operazione di polizia internazionale» che la storia
moderna potrà annoverare nei suoi annali. Nel momento in cui si condivideva e ci
si rendeva partecipi d'un turpe disegno, qual è stato quello che ha preceduto «Desert
Storm», di Sigonella si perdeva anche il ricordo e si manifestava vieppiù la
volontà di continuare ad esercitare un ruolo subalterno agli ordini e per gli
interessi della capitale dell'Impero a stelle e strisce.
I comportamenti degli uomini si giudicano, più che per le loro idee, per le loro
azioni. Si potrà non convenirne, si potrà portare a discarico qualche relazione
scritta su mandato di Perez de Cuellar ma il dato oggettivo che si ricava è uno
solo e incontrovertibile: non è morale individuare le cause dello squilibrio
della terra nelle contraddizioni stridenti fra Nord e Sud del mondo e poi
schierarsi a fianco dell'America, che ne è la principale responsabile.
Quindi è giocoforza riproporre quell'antico quesito, che era a base di tutto il
sistema di pensare, al quale ci educò Beppe Niccolai: l'Italia è una nazione
sovrana?
Per noi la risposta è scontata e tale è non perché affetti da antiamericanismo
viscerale: la visceralità non permette giudizi meditati tanto che si può essere
così viscerali da ridursi poi (e lo fece anche Almirante) ad effettuare
trasferte oltreoceano, dove ciclicamente il vassallo riceve l'investitura del
Suzerain.
E se un tempo queste manifestazioni erano tipiche del centro-destra (dirà
Gaspari, longevo ministro scudocrociato in livrea di lacchè: «Mi tremavano le
gambe a stare davanti a Weinberger, il Ministro della difesa della Nazione più
potente del mondo, e a discutere con lui sulla doppia opzione zero. Io, che son
figlio di un ex-emigrante abruzzese negli USA»), oggi esse non sono estranee
alla sinistra.
Scriverà Giorgio Napolitano, Presidente della Camera dei Deputati anche con i
voti socialisti, in "Europa e America dopo l'89" (Laterza Editore): «I paesi di
maggiore tradizione e solidità democratica [...] dell'Occidente europeo e
nordamericano, sono chiamati a esprimere insieme una visione innovatrice del
futuro dell'Europa e del mondo, un impegno di costruzione di un nuovo ordine
europeo e mondiale».
Se questa è l'essenza del riformismo nostrano, in nome del quale si ricompatta
il craxismo socialista e il napolitanismo pidiessino, allora è il caso di
parlare di laiolismo. Da "Bocche di donne e di fucili" a "II voltagabbana", da
"Nel cerchio dell'ultimo sole" ad "A conquistare la rossa primavera".
Se dobbiamo considerare il riformismo di questi tempi come il fenomeno più
moderno di tutta la vecchia galassia del social-comunismo testé caduto, alla
luce di queste tesi non ci rimane altro che farci avvolgere nella ragnatela
della disperazione. Perché qui siamo alla celebrazione del Tancredi di
lampedusiana memoria; siamo a spacciare, per nuove, idee ammuffite ideologie
infarcite di internazionalismo nemmeno più proletario frammisto ad
associazionismo massonico da «Corda fratres», che predicava un'impossibile
fratellanza fra tutti i popoli e le classi, «decontaminati» dalla politica.
Imboccare questa presunta «nuova via» significa continuare a fuggire dalla
propria storia e rendersi collimanti con le strampalate idee di Francis
Fukuyama, che ritiene la «civiltà occidentale» come la migliore dei mondi
possibili, a tal punto che non dovremmo null'altro desiderare e con la fine dei
nostri sogni termina la storia del mondo.
Questa supposta «nuova sinistra» passa disinvoltamente dalla critica spietata al
capitalismo privato, a farne incestuosamente propri i destini esiziali. E fa
pensare che l'alleanza fra Stalin e Roosevelt, fra le due «filosofie», sia
andata molto oltre la necessità della contingenza storica.
Invece la caduta della Cortina di Ferro riapre lo scenario delle potenzialità
d'ogni singola nazione. L'«89» è sconvolgente ma non sembrano rendersene conto i
piccoli uomini che ci governano, tutti presi a masturbarsi con il Mito di
Maastricht. Necessita possedere un alto sentire per rendersi conto che in questa
Europa occorre rinvigorire i «valori aggreganti» e non limitarsi soltanto a
curare gli «interessi aggreganti». Ed è con questo spirito che le nazioni devono
riprendere ad interrogarsi, dopo quarantacinque anni di catalessi, sui propri
destini.
Per quanto ci riguarda noi restiamo fermi nella nostra convinzione che basa le
sue ragioni d'essere sugli archetipi di chi riteneva Chicago la capitale del
maiale e concimava così la rivolta contro il materialismo, l'edonismo, la
subalternità dell'essere all'avere.
Riavere in mano le chiavi di casa significa iniziare una nuova rivoluzione che
porti la propria Patria a riottenere quella dignità che fa d'un grumo di genti
un popolo, d'un popolo una nazione che fonda uno stato diverso dalle moderne
Tangentopoli. Ciò rappresenta una delle essenze d'un ragionamento per il quale,
se condiviso, è possibile ottenere la «coesione su ciò che non vogliamo».
Vito
Errico
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