«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 4 (31 Luglio 1992)

 

La potenza della parola

 

 

«Né ferro, né piombo, né fuoco possono salvare la Libertà, ma la parola soltanto».
Sono le ultime considerazioni effettuate in vita da Angelo Fortunato Formiggini prima che librasse il tragico «volo» suicida dalla Ghirlandina modenese, per protestare contro la malvagità delle leggi razziali.
Quasi nulla mi lega all'editore emiliano sul piano delle idealità, tutto chiuso com'era nel suo universalismo radical-massonico ma cito la frase per la potenza del messaggio che promana.
Io non conosco fisicamente Enrico Landolfi ma non è vero che gli amici degli amici sono pur essi amici? S'era amico di Beppe Niccolai, s'è amico di Piero Vassallo, è anche mio amico e se avrà la pazienza di ascoltarmi, chiacchiereremo da vecchi amici. Anche perché non è che sia per me proprio uno sconosciuto.
Da "Gramsci e Gioberti nel discorso nazionale-popolare" a "Socialismo e Nazione" ho posto attenzione a quest'uomo, ch'è oltre tutto interessante per la sua collocazione, la quale gli permette una libertà d'azione, che quelli come me solo oggi cominciano ad assaporare. In questo dialogo a distanza dovremmo però mettere ordine giacché c'è tanto da dibattere e lo spazio è tiranno. E chissà quale avvenire può avere e quali frutti può dare questo parlarci per iscritto.
Parlarci. Della storia del nostro popolo dal cosiddetto Risorgimento al fascismo; dalla cosiddetta Resistenza ai giorni nostri.
L'articolo "Tutti i colori del nero", di cui Landolfi è autore nel terzo numero di "Tabularasa", m'invita a interessanti considerazioni che abbraccerebbero tutta l'«ideologia italiana» e la chiusura del «pezzo» m'induce ad aspettare trepidante di leggere quanto avrà da scrivere un hinimicus, secondo la definizione schmittiana, sulla tragica ma bella esperienza della RSI.
Per intanto vorrei aprire con un argomento che per me è fondamentale ai fini di una trattazione proficua dai risvolti politici, sociali ed economici. Landolfi me ne fornisce l'occasione allorché richiama, nel succitato articolo, il «merito storico del segretario del PSI che, nell'occasione di Sigonella, seppe andare oltre, e di molto, a una tradizione di grigio, conformistico, servile appiattimento sull'egemonismo americano e sul ruolo guida degli USA».
Da ciò si arguisce che io pongo sul tavolo ideale di questo nostro discutere, e per questa volta, la questione basilare, fondamentale, essenziale della sovranità italiana come soggetto di politica internazionale. L'episodio di Sigonella rappresenta ormai un frammento paleostorico che è morto definitivamente nel momento in cui si concedeva l'avallo all'ultima (in ordine di tempo) e più sporca «operazione di polizia internazionale» che la storia moderna potrà annoverare nei suoi annali. Nel momento in cui si condivideva e ci si rendeva partecipi d'un turpe disegno, qual è stato quello che ha preceduto «Desert Storm», di Sigonella si perdeva anche il ricordo e si manifestava vieppiù la volontà di continuare ad esercitare un ruolo subalterno agli ordini e per gli interessi della capitale dell'Impero a stelle e strisce.
I comportamenti degli uomini si giudicano, più che per le loro idee, per le loro azioni. Si potrà non convenirne, si potrà portare a discarico qualche relazione scritta su mandato di Perez de Cuellar ma il dato oggettivo che si ricava è uno solo e incontrovertibile: non è morale individuare le cause dello squilibrio della terra nelle contraddizioni stridenti fra Nord e Sud del mondo e poi schierarsi a fianco dell'America, che ne è la principale responsabile.
Quindi è giocoforza riproporre quell'antico quesito, che era a base di tutto il sistema di pensare, al quale ci educò Beppe Niccolai: l'Italia è una nazione sovrana?
Per noi la risposta è scontata e tale è non perché affetti da antiamericanismo viscerale: la visceralità non permette giudizi meditati tanto che si può essere così viscerali da ridursi poi (e lo fece anche Almirante) ad effettuare trasferte oltreoceano, dove ciclicamente il vassallo riceve l'investitura del Suzerain.
E se un tempo queste manifestazioni erano tipiche del centro-destra (dirà Gaspari, longevo ministro scudocrociato in livrea di lacchè: «Mi tremavano le gambe a stare davanti a Weinberger, il Ministro della difesa della Nazione più potente del mondo, e a discutere con lui sulla doppia opzione zero. Io, che son figlio di un ex-emigrante abruzzese negli USA»), oggi esse non sono estranee alla sinistra.
Scriverà Giorgio Napolitano, Presidente della Camera dei Deputati anche con i voti socialisti, in "Europa e America dopo l'89" (Laterza Editore): «I paesi di maggiore tradizione e solidità democratica [...] dell'Occidente europeo e nordamericano, sono chiamati a esprimere insieme una visione innovatrice del futuro dell'Europa e del mondo, un impegno di costruzione di un nuovo ordine europeo e mondiale».
Se questa è l'essenza del riformismo nostrano, in nome del quale si ricompatta il craxismo socialista e il napolitanismo pidiessino, allora è il caso di parlare di laiolismo. Da "Bocche di donne e di fucili" a "II voltagabbana", da "Nel cerchio dell'ultimo sole" ad "A conquistare la rossa primavera".
Se dobbiamo considerare il riformismo di questi tempi come il fenomeno più moderno di tutta la vecchia galassia del social-comunismo testé caduto, alla luce di queste tesi non ci rimane altro che farci avvolgere nella ragnatela della disperazione. Perché qui siamo alla celebrazione del Tancredi di lampedusiana memoria; siamo a spacciare, per nuove, idee ammuffite ideologie infarcite di internazionalismo nemmeno più proletario frammisto ad associazionismo massonico da «Corda fratres», che predicava un'impossibile fratellanza fra tutti i popoli e le classi, «decontaminati» dalla politica.
Imboccare questa presunta «nuova via» significa continuare a fuggire dalla propria storia e rendersi collimanti con le strampalate idee di Francis Fukuyama, che ritiene la «civiltà occidentale» come la migliore dei mondi possibili, a tal punto che non dovremmo null'altro desiderare e con la fine dei nostri sogni termina la storia del mondo.
Questa supposta «nuova sinistra» passa disinvoltamente dalla critica spietata al capitalismo privato, a farne incestuosamente propri i destini esiziali. E fa pensare che l'alleanza fra Stalin e Roosevelt, fra le due «filosofie», sia andata molto oltre la necessità della contingenza storica.
Invece la caduta della Cortina di Ferro riapre lo scenario delle potenzialità d'ogni singola nazione. L'«89» è sconvolgente ma non sembrano rendersene conto i piccoli uomini che ci governano, tutti presi a masturbarsi con il Mito di Maastricht. Necessita possedere un alto sentire per rendersi conto che in questa Europa occorre rinvigorire i «valori aggreganti» e non limitarsi soltanto a curare gli «interessi aggreganti». Ed è con questo spirito che le nazioni devono riprendere ad interrogarsi, dopo quarantacinque anni di catalessi, sui propri destini.
Per quanto ci riguarda noi restiamo fermi nella nostra convinzione che basa le sue ragioni d'essere sugli archetipi di chi riteneva Chicago la capitale del maiale e concimava così la rivolta contro il materialismo, l'edonismo, la subalternità dell'essere all'avere.
Riavere in mano le chiavi di casa significa iniziare una nuova rivoluzione che porti la propria Patria a riottenere quella dignità che fa d'un grumo di genti un popolo, d'un popolo una nazione che fonda uno stato diverso dalle moderne Tangentopoli. Ciò rappresenta una delle essenze d'un ragionamento per il quale, se condiviso, è possibile ottenere la «coesione su ciò che non vogliamo».
 

Vito Errico

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