Arrivano i mostri?
Tutto ha inizio la notte del 20
gennaio quando una decina di giovanissimi tra i 14 ed i 25 anni ferisce in
circostanze poco chiare due extracomunitari che conducono la loro misera
esistenza all'interno del Parco di Colle Oppio, in una delle zone più degradate
della capitale: immediatamente i principali canali massmediali nazionali
scoprono la minaccia «naziskin» e, come ad un segnale convenuto, lanciano
l'ennesimo allarme per la democrazia.
La vicenda, emblematica come altre accadute e parimenti «amplificate» in varie
parti d'Europa, alza il velo sul degrado umano e sociale delle nostre città, sul
tragico destino di chi, costretto ad espatriare dal Sud del pianeta, povero e
«straccione», non riesce ad inserirsi in un sistema produttivo e subisce
l'ostilità dei figli alienati di questa democrazia senza qualità che ritrovano
un «senso» al proprio esistere in ritualità, simbologie, forme di aggregazione
fortemente sentite quanto mal interpretate.
In una memorabile puntata dell'«Istruttoria», le capacità giornalistiche di
Giuliano Ferrara, novello demiurgo della coscienza popolare, coadiuvato
dall'inconsistenza e dal pressapochismo culturale e politico delle controparti,
sembra voler dimostrare all'intera comunità nazionale come i «nemici» della
società multirazziale siano relitti politici fuori dal tempo, dalla dinamica
storica, dalla coscienza civile. L'operazione culturale degli sponsors Fininvest
del «mondialismo» è marcatamente finalizzata ad incasellare nell'area razzista e
quindi in un «cattiverio» assoluto, ogni antagonismo alla società multirazziale.
I selvaggi unici nemici del mondialismo
II «manifesto programmatico» di questa operazione, che già contiene le
giustificazioni morali di ogni nefandezza condotta in nome della «Civiltà»,
chirurgici bombardamenti compresi, traspare dalla voce emozionata di George Bush
che annuncia al Mondo, non appena eletto presidente degli Stati Uniti che: «Oggi
non ci si chiede più quale sistema sociale e politico sia il migliore: tutti
sanno che è il nostro ...».
È solo l'inizio di una nuova stagione che inaugura il Nuovo Ordine Mondiale, con
le operazioni di polizia planetaria, con la filosofia della «unicità» dello
sviluppo.
È, quindi, utile e necessario dimostrare come tutto ciò che suona antagonista
alla società omologata e pacificata «deve» essere violento, intollerante,
fanatico. Non basta quindi additare come selvaggi all'immaginario collettivo
dell'Occidente i popoli che perseguono una via autonoma e «altra» rispetto al
Mondialismo. Occorre che all'interno delle opulente società occidentali i
potenziali antagonisti si accomodino tutti nelle predisposte e fisiologiche
caselle comportamentali additabili al pubblico disprezzo.
La figura definita del nuovo satana che al posto delle corna esibisce la pelata
sotto lo sguardo ispirato di Ferrara o quello sornione di Costanzo crea
l'evento.
In un tripudio di svastiche, croci celtiche, bandiere della Lazio e gagliardetti
vari, risorge nell'Italia riformata al pensiero «liberal» l'incubo del nazismo
tetro e violento. La gente inizia a guardarsi le spalle, lo «skinhead» incombe,
con la sua furia incontenibile e incontrollabile, con il suo odio ferale verso
tutto e tutti.
E pensare che l'origine di tanta minaccia non nasce a Bayreuth, ma dalle giovani
generazioni inglesi degli Anni Sessanta allevati al culto della III rivoluzione
industriale sognando rivolte da week-end per ritrovarsi poi a fare i commessi
nei negozi per i rimanenti cinque giorni della settimana.
Le origini Skinheads
La patria del movimento è appunto l'Inghilterra, luogo d'origine di quasi tutte
le mode, le tendenze, le trasgressioni, le manie giovanili del dopoguerra. I
fratelli minori di quei «Mods», indimenticabili ed indimenticati protagonisti di
uno dei più acclamati «cult-movie» degli Anni Settanta, stanchi delle avventure,
delle risse, delle scorribande sulle nebbiose spiagge di Brighton e nelle
squallide periferie industriali anglosassoni, dopo aver anelato al «love reign
over me» con relativo salto dalle bianche scogliere di Dover, inaspriscono il
loro aspetto rasando sempre di più i capelli, fino alla soluzione finale:
nascono così gli «skinheads».
Elementi precisi ed esclusivi del loro abbigliamento diventano una sorta di
divisa che identifica e crea senso di «appartenenza»: Levi's 501, anfibi Dr.
Martens con punta in acciaio, camicie Ben Shermans o polo Fred Perry, bretelle
sottili.
La voglia di provocare ad ogni costo e di trasgredire le basi della puritana
società anglosassone determina un progressivo riconoscersi ed identificarsi in
simboli e ritualità proprie delle Rivoluzioni nazionali europee del Novecento.
Appare subito evidente che la croce celtica, la svastica, il saluto romano sono
utilizzati solo in quanto simboli «proibiti» per eccellenza e, patimenti,
l'identificazione politica non riguarda il pensiero politico fascista o
nazionalsocialista ma la demonizzazione dello stesso.
Ma è la musica la principale forma di diffusione dell'onda «skinheads», ad
iniziare dal gruppo inglese dei "Madness", allo Ska, alla Oi Music, fino ai
nostri giorni, al White Rock inneggiante alla «supremazia bianca» di gruppi come
"Skrewdriver", il più celebre, "Skullhead", "No Remorse", "Elite Terror".
Vettore importante della «cultura skin» tutta una serie di rivistine spesso
ciclostilate che propagandano gadgets vari, concerti, appuntamenti calcistici.
Ed è appunto lo Stadio uno degli scenari prediletti dalle teste rasate. Anche
nel nostro paese. Attorno ad un fatto-accadimento «effimero» si ricreano le
condizioni del conflitto, dell'appartenenza, del territorio. Si ricreano forme
di aggregazione con propri «riti» e precisi codici comportamentali.
Se da una parte il fenomeno è riconducibile al generale processo di
trasformazione della società in direzione «anglosassone», cioè verso un modello
sociale a tal punto «totale» ed omologatore da riuscire ad incanalare in senso
«implosivo» ogni diversità o aspirazione ad essa, ogni ricerca di appartenenze
definite sui «neutri» terreni delle «mode» e dell'immagine facendo di
quest'ultima l'unico mezzo pensabile di rivendicazione di specificità,
dall'altra è sintomatico il riaffiorare di una generale quanto confusa
aspirazione ad un «radicamento» negato alle giovani generazioni da questa
società patinata ed infelice.
La società multirazziale o la barbarie?
Ed è proprio in difesa di questa società che lo «skinhead» viene «usato»,
attraverso la creazione di una riserva di «irriducibili» che proprio perché
additabili ed oggettivamente esecrabili diventano di volta in volta vittime e
colpevoli. È emblematico come più di un intellettuale nei giorni del massimo
battage antiskin sottolineava con enfasi il pericolo di un possibile revival
nazista scorgendo strette analogie tra la situazione attuale e quella degli anni
Trenta, «dimenticando» di evidenziare le differenze tra il movimento «skin» e la
temperie culturale e politica che diede vita alle rivoluzioni nazionali del
Novecento.
La figura dello «skinhead», mitizzata e amplificata, sostenuta dalle avvedute
tesi di tanti intellettuali «liberal» angosciati dai rischi per la democrazia,
diventa -viene fatta diventare- archetipo del barbaro distruttore, cosicché per
sillogismo chiunque si pone contro la società multi-razziale e mondialista,
distruttrice della specificità, diventa un barbaro irrazionale.
Ammoniva Tocqueville: «Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una
folla di esseri simili e uguali che volteggiano su sé stessi per procurarsi
piccoli e meschini piaceri di cui si pasce la loro anima. Ognuno di essi
ritiratosi in disparte, è come straniero a tutti gli altri, i suoi figli e i
suoi pochi amici costituiscono per lui l'umanità. Al di sopra di questa folla
vedo innalzarsi un enorme potere tutelare, che si occupa solo di assicurare ai
sudditi il benessere e di vegliare sulle loro sorti».
Noi siamo la civiltà voi la barbarie, se non siete come noi convincetevi di
essere barbari e comportatevi come previsto. La trappola fin quando funzionerà?
Fabio
Granata
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