le lettere
Sulla coerenza
Per la seconda volta nel volgere
di alcuni mesi, Umberto Croppi, trattando su "Tabularasa" del «caso
Pietrangelo», fa professione di scarso apprezzamento per il termine «coerenza» e
per i coerenti in genere.
Pur senza averne particolari titoli, vorrei comunque tentare una difesa dell'una
e degli altri. Premetto subito che non intendo qui assumere ruoli ed oneri
impropri: non vi è da parte mia alcuna apologia dell'arroccamento, quando questo
poggi sulle comodità dell'a-priori, del pre-concetto, dell'indiscusso e
dell'indiscutibile.
A maggior ragione oggi, dove -con la caduta dei muri... tanto per restare in
tema di luoghi comuni- non si possono concedere attenuanti alle anime belle che
non vogliono più arrendersi, nemmeno all'evidenza. Volendo circoscrivere
l'argomento al piccolo mondo di comune origine, alla granitica coerenza dei
Tassi, Tremaglia & Co. dichiaro apertamente di preferire una zigzagante
trasversalità, ogni sincera e palese contraddizione, l'anticonformismo più
velleitario. Molto, molto più apprezzabili di costoro e dell'ambiente che li
esprime, i più scettici fra i sognatori, i più curiosi fra i disillusi, i più
sofferenti fra gli inquieti...
Credo allora di poter intuire quale sia stata, in Umberto, la spinta alla
duplice attestazione di filo-incoerenza. E di poterla anche in qualche modo
condividere. Troppi e troppe volte hanno imperversato in quel nostro mondo di
ieri i dispensatori di intransigenze (e di personali indulgenze), perché non
abbia a trarre alimento una logica e fisiologica diffidenza verso le
proclamazioni interessate di certezze assolute e sovrane. Ne convengo: dopo
tanti esclamativi, maiuscole e sottolineature, più che opportune risultano le
parentesi, le virgole e -soprattutto, direi- gli interrogativi. (Esercizi di
meditata punteggiatura che, del resto, non da oggi impegnano gli autori de
"L'Eco" e di "Tabularasa").
Se dunque aderisco all'idea che le pietre soltanto non possono legittimamente
mutar parere, mi sembra peraltro utile ribadire il principio della «normalità»
della coerenza: quando per essa si intenda -come io credo si debba- la
caratteristica di chi cerca di agire in armonia con i propri convincimenti.
Non è forse per seguire una tale esigenza di chiarezza che, giusto un anno fa,
la finimmo col MSI? E non fu forse un distacco, maturatosi nel corso della
guerra del Golfo, che venne da noi vissuto in piena coscienza e coerenza, sino a
sfociare «naturalmente» e senza prospettive o strategie di sorta, nelle
dimissioni di centinaia di singoli militanti/dirigenti in ogni parte d'Italia?
E se quella «coerenza» verrà giudicata innocente, mi si consenta sin d'ora di
rivendicarla per quanti, nel «cambiar idea», dal cambio non hanno avuto, né
tentato di avere, utile alcuno.
Eppoi... chi è stato «meno» coerente e chi ha «più» cambiato idea? Quelli -gli
ex innovatori, gli ex nazionalpopolari- rimasti al riparo delle loro sicurezze
dipartito, oppure quest'altri -gli ex tout-court- ora esposti alla libertà ed
alle intemperie del campo aperto?
Ai posteri, se ne avranno voglia, la sentenza.
(Per intanto non guasterebbe, forse, una chiosa di U.C.)
Alberto
Ostidich
La «coerenza» è una di quelle
parole a cui si possono attribuire valori e significati diversi. Anche Alberto,
nel parlarne, è costretto a distinguere la sua, la nostra (quella su cui siamo
d'accordo) coerenza da quella di altri. Tale distinzione io l'ho data per
scontata nei pezzi incriminati, trattando comunque la coerenza secondo due
diverse prospettive riguardo a Buttafuoco.
Nel primo caso (quello dello scorso agosto) per contestargli scherzosamente la
sua incoerenza; nel secondo (il corsivo dello scorso numero) difendendo il
diritto dell'esteta giocherellone a contraddirsi di fronte a qualche amico che
glielo contesta in nome della propria, magari tardiva, coerenza.
Coerenti come noi o incoerenti come Pietrangelo, con le cui tesi sono peraltro
spesso in disaccordo, l'importante è essere, perlappunto, «innocenti».
U. C.
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