le opinioni
Etnopluralismo e società
multirazziale
Il nostro rifiuto del razzismo
-inteso come supremazia biologica o soltanto culturale a fronte di altre etnie-
non può essere messo in discussione da alcuno. Tanto meno da quanti appartengono
al ciarpame intellettualistico che interpreta ossequiosamente le mode imposte
dalle centrali dette oggi neocolonialiste, da quelle stesse centrali che
storicamente in nome dell'uguaglianza e della libertà hanno distrutto popoli e
sradicato culture, praticando con l'«asiento» il monopolio del mercato degli
schiavi o liquidando con il Winchester e con l'alcool gli Indiani d'America.
Sempre «democraticamente».
Una democrazia ben nota agli abitanti di Dresda e di Hiroshima; o di Baghdad.
Pipe-lines e Coca-Cola, supermarket e bombe intelligenti. A Los Angeles come a
Gaza. Sempre per «modernizzare» sulla via del «progresso» che si chiama usura.
Dalla nostra parte abbiamo un'antica e solida tradizione di tolleranza e di
rispetto per le diversità etniche e culturali. Il nostro riferimento storico si
chiama Roma. Lo stesso riferimento che ebbe Federico II che subì gli anatemi e
le scomuniche papali per aver rifiutato di condurre crociate contro il mondo
islamico considerato l'alleato naturale dell'Europa e dell'Italia.
Il nostro riferimento politico è costituito dal principio di organicità, da una
concezione -quindi- di una Societas che è unitaria e plurima in quanto accetta
le differenze. Anzi l'unica autentica -essendo al di là delle differenze, delle
forme fisiche, psichiche e culturali- vuole la pluralità e si esprime come
universalismo che è ben altra cosa dal cosmopolitismo incentrato sul principio
della «uniformizzazione».
La nostra visione etnopluralista ci spinge non soltanto a credere nelle
differenze tra uomini e tra etnie ma a batterci per la conservazione o per la
ricostituzione delle diversità perché da esse dipende la sola possibilità di
resistenza -oggi- e di contrattacco -domani- contro il disegno mondialista.
Ma deve essere ben chiaro che il nostro etnopluralismo non può in nessun caso
essere confuso con l'accettazione di una società multirazziale. Non si tratta di
un distinguo nominalistico ma sostanziale. Il nostro no a qualsivoglia società
di tale tipo discende dalla consapevolezza del carattere devastante proprio del
multi-razzialismo, perché destinato a distruggere le identità popolari e le
specificità culturali e perché -quindi- funzionale alle strategie mondialiste.
Tutto si confonde, s'inquina, si uniforma; si allentano le tensioni, vengono
meno le capacità e la volontà di lotta non solo contro l'omologazione culturale
ma contro la «omogeneizzazione» che costituisce una sorta di metabolismo
materiale involutivo che porta alla morte.
La strada verso il «villaggio globale» passa sì attraverso i consumi e
attraverso le mille droghe e le mille mode, ma passa anche -e in maniera
definitiva- attraverso la confusione razziale, attraverso il «meticciato».
Il meticciato razziale è l'applicazione dell'uniformità al mondo dei corpi. Esso
corrisponde, sul piano politico-culturale, al cosmopolitismo ed al mondialismo
che pretendono l'uniformizzazione dei popoli e delle etnie. Il meticciato
conduce -per dirla con Levalois- ad «un mondo di anonimi incroci, senza radici,
abbrutiti dalla società consumista, imprigionati nelle illusioni che il mondo
ultimo dispensa».
È in questa ottica che va visto il problema dell'immigrazione della «gente di
colore» e in Europa e in Italia. Non è pensabile né accettabile che la spinta
migratoria possa condurre alla devastazione che sarebbe indotta dalla confusione
razziale; soltanto gli sciancati della politica e gli epigoni deformi della
cultura dominante possono guardare con compiacimento alla prospettiva di una
società multirazziale.
Noi rifiutiamo la logica del segregazionismo e della discriminazione perché
estranea alla nostra cultura ed alla nostra concezione della politica. A noi non
piacciono i metodi e gli atteggiamenti polizieschi. Ma non piacciono neanche le
«guerre tra poveri»; né tantomeno le guerre tra bande di microspacciatori. Noi
non vogliamo che i nostri popoli, che la nostra comunità debbano vivere il
dramma conseguente ad un'immigrazione sempre più massiva ed incontrollata, che
debbano pagare per le colpe di governanti incapaci, di demagoghi privi di una
qualsivoglia strategia -che possa definirsi politica- sui flussi migratori.
Abbiamo assistito al comportamento cialtronesco usato dal governo italiano nei
confronti di disperati ed esausti profughi albanesi ghettizzati prima nello
Stadio di Bari e poi «rinviati al mittente» con il più infame degli inganni.
Assistiamo ogni giorno alla «negrizzazione» di interi quartieri delle nostre
città divenuti infrequentabili per la popolazione «bianca».
Ma a noi non sta bene la contrapposizione tra «bianchi» e «negri»: non ci
appartiene culturalmente, non l'accettiamo politicamente. E non possiamo
tollerare che per un demenziale ed ipocrita atteggiamento terzomondista la
Comunità Nazionale sia costretta a subire l'insulto della schizofrenia
occidentalista.
Contro il terzomondismo della cultura ufficiale ed egemone noi rilanciamo la
nostra visione etnopluralista che ci consente di guardare ai problemi del Terzo
Mondo -del Sud del Mondo!- con il realismo di chi su posizioni antagoniste sa
indicare soluzioni organiche.
Il Terzo Mondo non lo si aiuta favorendo lo sradicamento dei suoi popoli ma
cooperando con essi perché possano costruire il loro destino sulla e nella loro
terra. Cooperazione e non assistenzialismo, collaborazione e non
«civilizzazione» tecnocratica che coincide, poi, con gli interessi del
neo-capitalismo sempre pronto ad esportare i suoi modelli di sviluppo con
l'intendimento ipocritamente dichiarato di voler favorire il progresso dei paesi
sottosviluppati laddove il fine reale è quello di assoggettarli alla logica di
mercato per mantenerli nella loro condizione di sfruttamento economico e di
sudditanza politica.
A guardare bene gli «aiuti» economici forniti dalle lobbies multinazionali si
pongono sempre in rapporto di specularità con gli interventi militari. Gli uni e
gli altri sono tra di loro complementari in quanto mirati al raggiungimento di
un identico scopo. Ancora pipe-lines e bombe intelligenti; ed ancora
filantropismo ed umanitarismo d'accatto che sono i termini inflazionati con cui
la cultura dominante tenta di mascherare il volto cinico dello imperialismo.
La nostra sfida deve trasferirsi dal piano puramente culturale su quello delle
proposte operative. La nostra provocazione deve trasformarsi in forza dirompente
capace di frantumare gli schemi della cultura egemone e, quindi, di aggregare le
potenzialità rivoluzionarie intorno all'unico progetto alternativo possibile.
Oggi che alla dialettica artificiale Occidente-Oriente, depotenziata
definitivamente a seguito della fine del comunismo e dell'annullamento dei
blocchi contrapposti, si è sostituito il rapporto reale -politico e non
geografico- Nord-Sud, dobbiamo operare nell'«area vasta» costituita dal Sud
perché è solo in essa che si può sviluppare l'antagonismo al sistema mondialista
arroccato nel Nord industrializzato e «progressista» che coincide come topos con
l'Occidente.
Oltre e contro l'Occidente il Terzo Mondo va a collocarsi, dunque, come il
naturale referente politico dell'Europa ed ancor più dell'Italia. È il Sud -e di
fronte e di contro al Nord vi è sempre stato un Sud!- la zona ancora oggi
«oggettivamente» in grado di resistere e di contrapporsi all'omologazione
mondialista e all'egalitarismo cosmopolita perché nel suo spazio «le radici
etniche e le tradizioni culturali sono ancora formidabili motori di storia». E
che ciò sia vero è riscontrato nella realtà dai popoli in lotta per la propria
indipendenza e per la propria sovranità.
Dalla Palestina all'Irlanda, dall'Iran alla Libia, dal Libano all'Iraq, ovunque
nel Sud c'è chi ancora si ribella e combatte creando antagonismi radicali contro
la demonìa economicistica, contro l'arroganza mercantilistica del mondialismo.
Ed è a quei popoli che noi dobbiamo guardare per recuperare noi stessi il gusto
della lotta per riacquistare con la nostra indipendenza la nostra piena
sovranità nazionale; per ritrovare la nostra identità storicamente rapinataci
dai signori dell'usura, dai bottegai del supermarket.
E, dunque, anche il nostro etnopluralismo, collegato ad una precisa scelta di
campo antioccidentalista, che ci consente di guardare realisticamente agli
attuali eventi storico-politici e ad individuare le soluzioni ai problemi -in
primo luogo europei- legati ai nazionalismi, alle etnie, alle spinte
separatistiche. Una soluzione che -come abbiamo già avuto più volte modo di
sostenere- va rinvenuta in un quadro geopolitico del Continente che travalica i
confini propriamente europei inserendosi in quell'area più vasta che va
dall'Atlantico alla siberiana Vladivostok.
È all'interno di una tale visione Euro-russa che possono e debbono trovarsi le
soluzioni dei problemi -dalla bomba demografica, al cosiddetto «sottosviluppo»,
all'immigrazione- discendenti dallo spostamento dell'asse della politica lungo
la direzione Nord-Sud. In questo quadro la Comunità Federale Europea, tornando
ad essere soggetto attivo di storia, può svolgere un ruolo decisivo recuperando,
peraltro, nel Mediterraneo il suo tradizionale rapporto di cooperazione
economica e culturale e con il privilegiare il mondo arabo e con l'opporsi alle
logiche imperialistiche statunitensi e sioniste.
E funzione di primaria importanza è quella che dovrà esercitare l'Italia
(inserita nell'asse meridionale della Comunità) una volta riconquistata la sua
piena sovranità politica, riconquista che passa attraverso la sconfitta del
ruolo egemone della DC e degli altri partiti -detti popolari!- di potere che
costituiscono gli strumenti dell'imperialismo statunitense ed i «terminali»
delle centrali economiche e finanziarie del dominio mondialista.
Riconquista che passa, ancora, attraverso l'eliminazione della presenza
americana sul territorio nazionale e lo scioglimento della NATO.
Il nostro antagonismo non può esaurirsi sul piano delle analisi e delle
astrazioni intellettualistiche: deve trasportarsi sul piano del fare e
dell'operare, deve trasformarsi in azione politica propositiva. Sta a noi -in
sintonia ideale e solidale con tutti i movimenti in lotta per l'indipendenza
nazionale- stabilire ed indicare le linee d'intervento; e starà a noi seguirle,
poi, con determinazione e coerenza. E la coerenza non è un vezzo estremistico né
un flatus vocis gettato lì dai venditori d'idee per incantare militanti beoti:
essa costituisce il discrimine tra l'uomo disposto a battersi e l'intellettuale
predisposto per il ciarlare.
E l'intellettuale può anche scrivere pregevoli pamphlets ma, di certo, non fa
storia.
Paolo
Signorelli
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