«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 4 (31 Luglio 1992)

 

le opinioni

Etnopluralismo e società multirazziale

 

 

Il nostro rifiuto del razzismo -inteso come supremazia biologica o soltanto culturale a fronte di altre etnie- non può essere messo in discussione da alcuno. Tanto meno da quanti appartengono al ciarpame intellettualistico che interpreta ossequiosamente le mode imposte dalle centrali dette oggi neocolonialiste, da quelle stesse centrali che storicamente in nome dell'uguaglianza e della libertà hanno distrutto popoli e sradicato culture, praticando con l'«asiento» il monopolio del mercato degli schiavi o liquidando con il Winchester e con l'alcool gli Indiani d'America.
Sempre «democraticamente».
Una democrazia ben nota agli abitanti di Dresda e di Hiroshima; o di Baghdad. Pipe-lines e Coca-Cola, supermarket e bombe intelligenti. A Los Angeles come a Gaza. Sempre per «modernizzare» sulla via del «progresso» che si chiama usura.
Dalla nostra parte abbiamo un'antica e solida tradizione di tolleranza e di rispetto per le diversità etniche e culturali. Il nostro riferimento storico si chiama Roma. Lo stesso riferimento che ebbe Federico II che subì gli anatemi e le scomuniche papali per aver rifiutato di condurre crociate contro il mondo islamico considerato l'alleato naturale dell'Europa e dell'Italia.
Il nostro riferimento politico è costituito dal principio di organicità, da una concezione -quindi- di una Societas che è unitaria e plurima in quanto accetta le differenze. Anzi l'unica autentica -essendo al di là delle differenze, delle forme fisiche, psichiche e culturali- vuole la pluralità e si esprime come universalismo che è ben altra cosa dal cosmopolitismo incentrato sul principio della «uniformizzazione».
La nostra visione etnopluralista ci spinge non soltanto a credere nelle differenze tra uomini e tra etnie ma a batterci per la conservazione o per la ricostituzione delle diversità perché da esse dipende la sola possibilità di resistenza -oggi- e di contrattacco -domani- contro il disegno mondialista.
Ma deve essere ben chiaro che il nostro etnopluralismo non può in nessun caso essere confuso con l'accettazione di una società multirazziale. Non si tratta di un distinguo nominalistico ma sostanziale. Il nostro no a qualsivoglia società di tale tipo discende dalla consapevolezza del carattere devastante proprio del multi-razzialismo, perché destinato a distruggere le identità popolari e le specificità culturali e perché -quindi- funzionale alle strategie mondialiste.
Tutto si confonde, s'inquina, si uniforma; si allentano le tensioni, vengono meno le capacità e la volontà di lotta non solo contro l'omologazione culturale ma contro la «omogeneizzazione» che costituisce una sorta di metabolismo materiale involutivo che porta alla morte.
La strada verso il «villaggio globale» passa sì attraverso i consumi e attraverso le mille droghe e le mille mode, ma passa anche -e in maniera definitiva- attraverso la confusione razziale, attraverso il «meticciato».
Il meticciato razziale è l'applicazione dell'uniformità al mondo dei corpi. Esso corrisponde, sul piano politico-culturale, al cosmopolitismo ed al mondialismo che pretendono l'uniformizzazione dei popoli e delle etnie. Il meticciato conduce -per dirla con Levalois- ad «un mondo di anonimi incroci, senza radici, abbrutiti dalla società consumista, imprigionati nelle illusioni che il mondo ultimo dispensa».
È in questa ottica che va visto il problema dell'immigrazione della «gente di colore» e in Europa e in Italia. Non è pensabile né accettabile che la spinta migratoria possa condurre alla devastazione che sarebbe indotta dalla confusione razziale; soltanto gli sciancati della politica e gli epigoni deformi della cultura dominante possono guardare con compiacimento alla prospettiva di una società multirazziale.
Noi rifiutiamo la logica del segregazionismo e della discriminazione perché estranea alla nostra cultura ed alla nostra concezione della politica. A noi non piacciono i metodi e gli atteggiamenti polizieschi. Ma non piacciono neanche le «guerre tra poveri»; né tantomeno le guerre tra bande di microspacciatori. Noi non vogliamo che i nostri popoli, che la nostra comunità debbano vivere il dramma conseguente ad un'immigrazione sempre più massiva ed incontrollata, che debbano pagare per le colpe di governanti incapaci, di demagoghi privi di una qualsivoglia strategia -che possa definirsi politica- sui flussi migratori.
Abbiamo assistito al comportamento cialtronesco usato dal governo italiano nei confronti di disperati ed esausti profughi albanesi ghettizzati prima nello Stadio di Bari e poi «rinviati al mittente» con il più infame degli inganni. Assistiamo ogni giorno alla «negrizzazione» di interi quartieri delle nostre città divenuti infrequentabili per la popolazione «bianca».
Ma a noi non sta bene la contrapposizione tra «bianchi» e «negri»: non ci appartiene culturalmente, non l'accettiamo politicamente. E non possiamo tollerare che per un demenziale ed ipocrita atteggiamento terzomondista la Comunità Nazionale sia costretta a subire l'insulto della schizofrenia occidentalista.
Contro il terzomondismo della cultura ufficiale ed egemone noi rilanciamo la nostra visione etnopluralista che ci consente di guardare ai problemi del Terzo Mondo -del Sud del Mondo!- con il realismo di chi su posizioni antagoniste sa indicare soluzioni organiche.
Il Terzo Mondo non lo si aiuta favorendo lo sradicamento dei suoi popoli ma cooperando con essi perché possano costruire il loro destino sulla e nella loro terra. Cooperazione e non assistenzialismo, collaborazione e non «civilizzazione» tecnocratica che coincide, poi, con gli interessi del neo-capitalismo sempre pronto ad esportare i suoi modelli di sviluppo con l'intendimento ipocritamente dichiarato di voler favorire il progresso dei paesi sottosviluppati laddove il fine reale è quello di assoggettarli alla logica di mercato per mantenerli nella loro condizione di sfruttamento economico e di sudditanza politica.
A guardare bene gli «aiuti» economici forniti dalle lobbies multinazionali si pongono sempre in rapporto di specularità con gli interventi militari. Gli uni e gli altri sono tra di loro complementari in quanto mirati al raggiungimento di un identico scopo. Ancora pipe-lines e bombe intelligenti; ed ancora filantropismo ed umanitarismo d'accatto che sono i termini inflazionati con cui la cultura dominante tenta di mascherare il volto cinico dello imperialismo.
La nostra sfida deve trasferirsi dal piano puramente culturale su quello delle proposte operative. La nostra provocazione deve trasformarsi in forza dirompente capace di frantumare gli schemi della cultura egemone e, quindi, di aggregare le potenzialità rivoluzionarie intorno all'unico progetto alternativo possibile.
Oggi che alla dialettica artificiale Occidente-Oriente, depotenziata definitivamente a seguito della fine del comunismo e dell'annullamento dei blocchi contrapposti, si è sostituito il rapporto reale -politico e non geografico- Nord-Sud, dobbiamo operare nell'«area vasta» costituita dal Sud perché è solo in essa che si può sviluppare l'antagonismo al sistema mondialista arroccato nel Nord industrializzato e «progressista» che coincide come topos con l'Occidente.
Oltre e contro l'Occidente il Terzo Mondo va a collocarsi, dunque, come il naturale referente politico dell'Europa ed ancor più dell'Italia. È il Sud -e di fronte e di contro al Nord vi è sempre stato un Sud!- la zona ancora oggi «oggettivamente» in grado di resistere e di contrapporsi all'omologazione mondialista e all'egalitarismo cosmopolita perché nel suo spazio «le radici etniche e le tradizioni culturali sono ancora formidabili motori di storia». E che ciò sia vero è riscontrato nella realtà dai popoli in lotta per la propria indipendenza e per la propria sovranità.
Dalla Palestina all'Irlanda, dall'Iran alla Libia, dal Libano all'Iraq, ovunque nel Sud c'è chi ancora si ribella e combatte creando antagonismi radicali contro la demonìa economicistica, contro l'arroganza mercantilistica del mondialismo. Ed è a quei popoli che noi dobbiamo guardare per recuperare noi stessi il gusto della lotta per riacquistare con la nostra indipendenza la nostra piena sovranità nazionale; per ritrovare la nostra identità storicamente rapinataci dai signori dell'usura, dai bottegai del supermarket.
E, dunque, anche il nostro etnopluralismo, collegato ad una precisa scelta di campo antioccidentalista, che ci consente di guardare realisticamente agli attuali eventi storico-politici e ad individuare le soluzioni ai problemi -in primo luogo europei- legati ai nazionalismi, alle etnie, alle spinte separatistiche. Una soluzione che -come abbiamo già avuto più volte modo di sostenere- va rinvenuta in un quadro geopolitico del Continente che travalica i confini propriamente europei inserendosi in quell'area più vasta che va dall'Atlantico alla siberiana Vladivostok.
È all'interno di una tale visione Euro-russa che possono e debbono trovarsi le soluzioni dei problemi -dalla bomba demografica, al cosiddetto «sottosviluppo», all'immigrazione- discendenti dallo spostamento dell'asse della politica lungo la direzione Nord-Sud. In questo quadro la Comunità Federale Europea, tornando ad essere soggetto attivo di storia, può svolgere un ruolo decisivo recuperando, peraltro, nel Mediterraneo il suo tradizionale rapporto di cooperazione economica e culturale e con il privilegiare il mondo arabo e con l'opporsi alle logiche imperialistiche statunitensi e sioniste.
E funzione di primaria importanza è quella che dovrà esercitare l'Italia (inserita nell'asse meridionale della Comunità) una volta riconquistata la sua piena sovranità politica, riconquista che passa attraverso la sconfitta del ruolo egemone della DC e degli altri partiti -detti popolari!- di potere che costituiscono gli strumenti dell'imperialismo statunitense ed i «terminali» delle centrali economiche e finanziarie del dominio mondialista.
Riconquista che passa, ancora, attraverso l'eliminazione della presenza americana sul territorio nazionale e lo scioglimento della NATO.
Il nostro antagonismo non può esaurirsi sul piano delle analisi e delle astrazioni intellettualistiche: deve trasportarsi sul piano del fare e dell'operare, deve trasformarsi in azione politica propositiva. Sta a noi -in sintonia ideale e solidale con tutti i movimenti in lotta per l'indipendenza nazionale- stabilire ed indicare le linee d'intervento; e starà a noi seguirle, poi, con determinazione e coerenza. E la coerenza non è un vezzo estremistico né un flatus vocis gettato lì dai venditori d'idee per incantare militanti beoti: essa costituisce il discrimine tra l'uomo disposto a battersi e l'intellettuale predisposto per il ciarlare.
E l'intellettuale può anche scrivere pregevoli pamphlets ma, di certo, non fa storia.
 

Paolo Signorelli

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