Nero, rosso e tricolore
Uno degli aspetti più
sintomatici di come Giuseppe Mazzini è stato letto, interpretato e «vissuto» in
termini eterogenei è il rapporto che con la sua figura ebbero sia il fascismo
che l'antifascismo, sia l'Italia del Ventennio, sia quella della Prima
Repubblica. Difficile districarsi nella grande messe di citazioni e di richiami
alla primogenitura. Difficile individuare l'erede perfetto, che forse non esiste
perché Mazzini appartiene alla Storia italiana nella sua interezza e, solo in
tale logica, va interpretato e collocato. Tuttavia l'argomento non è di poco
conto, particolarmente oggi, in tempi di ridiscussioni globali e di superamento
autentico dei vecchi stereotipi storiografici e politici. Perciò abbiamo
intervistato Giano Accame, giornalista e saggista, che, per la particolarità
della sua esperienza culturale politica, ci è sembrato bene adatto a
«fotografare» la complessità e la trasversalità delle interpretazioni dell'opera
mazziniana.
Nato a Stoccarda, nel 1928, ma ligure di adozione e tradizioni familiari,
inviato speciale di vari quotidiani, stretto collaboratore di Randolfo Pacciardi
nell'esperienza di "Nuova Repubblica", anticipatrice, durante gli anni Sessanta,
del dibattito presidenziale, ricercatore per gli "Annali dell'economia italiana"
(IPSOA) di Epicarmo Corbino e Gaetano Rasi, direttore, tra il 1988 e il 1991,
del "Secolo d'Italia", attualmente commentatore de "II Sabato", autore, tra
l'altro, di "Il fascismo immenso e rosso", nel quale ha raccolto quasi un
trentennio di riflessioni, prima passionali poi più scientifiche, sul fenomeno
fascista nel suo duplice e non contraddittorio rapporto con la modernizzazione e
la tradizione, Giano Accame è sempre stato un attento indagatore dei tormentati
percorsi intellettuali e politici che, tra sinistra, destra e viceversa, hanno
segnato questo secolo, evidenziando i limiti delle vecchie letture ideologiche.
In questo cammino, entro cui è nata e si è sviluppata «l'ideologia italiana»,
Giuseppe Mazzini può ben essere considerato uno dei primi protagonisti. Con un
rischio: che appartenendo, per statura morale e politica, un po' a tutti i
diversi filoni politici ed ideologici, alla fine non rischi di non appartenere
più a nessuno...
Potrebbe essere una nobile gara -ci dice Accame- ma non vedo nessuno correre ad
appropriarsi dell'eredità di Mazzini. È troppo scomodo per i nostri partiti, a
cominciare dal Partito repubblicano, che ne delega volentieri il culto
all'Associazione Mazziniana.
D. — Certo è che a Mazzini questa prima Repubblica non ha tributato grandi
onori...
R. — Sì, un paio di francobolli. Nella toponomastica c'era già prima.
D. — C'è poi da considerare il sostanziale antimarxismo mazziniano. Anche per
questo Mazzini venne emarginato nel dopoguerra?
R. — Questo genere di prevenzione ha certo influito nell'ambito della cultura,
dove il marxismo fu forte. Meno in politica, dove tutto sommato il marxismo è
pur sempre rimasto relegato all'opposizione. Ma la «conventio ad excludendum» si
è giocata su altri modelli: quello democristiano, quello americano. Mazzini, che
fu forse il primo a denunciare il comunismo in uno scritto del 1847, "Pensieri
sulla democrazia in Europa", come un sistema tirannico, non è stato usato quasi
per una allergia nei confronti del suo spiritualismo. Sin dal 1945 l'Italia
uscita dalla sconfitta gli ha preferito Cattaneo, considerato più pratico.
D. — Ma ritorniamo al discorso sulla collocazione di Mazzini rispetto alla
nostra storia nazionale. Com'è possibile che Mazzini sia stato «giocato»
contemporaneamente sul fronte fascista e su quello antifascista?
R. — La frattura che ha legittimato entrambe le interpretazioni si è consumata
sul piano della libertà. Mazzini concepiva uniti i valori di libertà e di
nazione. Come Marinetti, d'Annunzio, Gentile e quegli squadristi che all'inizio
cantavano: «nel fascismo è la salvezza / della nostra libertà». Nella pratica
del regime questi valori purtroppo si separarono. Così, tra i mazziniani, chi ha
seguito l'uno e chi l'altro.
D. — Il problema centrale rimane la democrazia. Democratico per antonomasia,
Mazzini venne tuttavia arruolato dal fascismo. Come fu possibile?
R. — Il fascismo fu definito da Mussolini una «democrazia organizzata,
centralizzata, autoritaria». Ebbe consensi larghissimi, mai più ripetuti, ed
immise nuovi ceti nello Stato. Potè, quindi, considerarsi per molti aspetti più
democratico della vecchia Italia dei notabili. Anche Togliatti lo definì un
regime reazionario «di massa» Ad arruolare Mazzini tra i precursori del fascismo
fu inizialmente "il Patto Nazionale - Rivista mensile di educazione storica e di
coltura mazziniana" fondata nel 1922 a Roma da Armando Casalini, deputato
fascista assassinato qualche anno dopo da un sovversivo, e proseguita da Armando
Lodolini. Anche Italo Balbo, che veniva come Curzio Malaparte dal Partito
repubblicano e si era laureato con una tesi sulla socialità di Mazzini, sentiva
questa continuità. Chi però le diede la formulazione culturalmente più alta fu
Giovanni Gentile. Vorrei citare a questo proposito la conclusione del discorso
su «Mazzini e la nuova Italia», che Gentile tenne a Genova il 22 giugno 1934
nella casa di Mazzini per l'inaugurazione dell'Istituto Mazziniano: «E venne il
fascismo, che ci fa riudire la voce di Mazzini nel suo accento più profondo. La
stessa concezione spiritualistica del mondo; lo stesso carattere religioso; la
stessa avversione all'individualismo; lo stesso concetto dello Stato e della
nazione, unità fondamentale e sostanza spirituale dei cittadini; lo stesso
postulato dì un modo totalitario d'intendere la vita umana; la stessa diffidenza
verso il liberalismo meccanico della classica economia astratta; e quindi il
principio della riorganizzazione delle forze sociali in un corpo che l'atomismo
delle leggi economiche assoggetti alla concreta forma dello Stato etico, come
dire alla stessa coscienza dell'uomo. Mazzini perciò oggi è con noi; e l'Italia,
finalmente, gli rende giustizia e saluta in lui il suo profeta».
Converrà aggiungere, a riprova di come l'interpretazione di Gentile non fosse
affatto arbitraria, che lo stesso anno il filosofo radicale inglese Bertrand
Russell nella sua "Storia delle idee del secolo XIX" criticando aspramente
Mazzini lo indicava come un precursore di Mussolini.
D. — E poi c'è stata la RSI... Pavolini a Verona dirà che «il manifesto
programmatico è una sintesi dell'originario pensiero mussoliniano il quale come
è stato ricordato coincide per molta parte con quello di Mazzini ...».
R. — In effetti la socializzazione della RSI cercò di realizzare l'ideale
mazziniano di «capitale e lavoro nelle stesse mani». Ma nel discriminare e
perseguitare gli ebrei Mazzini non sarebbe stato d'accordo.
D. — Un'ulteriore chiave di lettura può forse essere Oriani. In "Lotta politica"
Oriani scrive: «Al pari di ogni novatore, Mazzini sarà al tempo stesso
rivoluzionario e reazionario ...». E ipotizzabile un Mazzini al di là della
destra e della sinistra?
R. — Credo proprio che all'apostolo dell'unità nazionale questi steccati non
interessassero. Diffidava anche dei partiti e nella sua ideologia, che non venne
dalla rivoluzione francese matrice delle distinzioni parlamentari in destra e
sinistra, il progresso non rinnega mai i fondamenti della tradizione, a
cominciare da Dio. A proposito della distanza tra Mazzini e la rivoluzione
francese, converrà anche ricordare che non fu affatto massone. Mazzini ricorda
nelle sue memorie di essere stato iniziato fuggevolmente alla massoneria durante
un incontro con un massone nel corridoio di un carcere. Ma lo ricorda appunto
scherzosamente, come una esperienza curiosa e non influente nella sua vita. Non
a caso la sua esperienza settaria si consumò nell'azione nazionalpopolare della
Giovine Italia: tutta un 'altra cosa.
D. — Pensando a un Mazzini nazionalpopolare viene da pensare ad un altro
repubblicano eterodosso, padre di questa Repubblica eppure da essa emarginato,
Randolfo Pacciardi, con il quale lei ha avuto per decenni stretti rapporti di
collaborazione. Quale era la concezione che aveva Pacciardi di di Mazzini?
R. — Per la verità Pacciardi, come uomo d'azione, si sentiva più vicino a
Garibaldi. Dei vecchi mazziniani un po' lo irritava un eccesso di liturgia,
quasi l'involontaria parodia di una chiesa. Ma quando Ugo La Malfa si vantò di
avere svecchiato il Partito repubblicano liberandolo da Mazzini, Pacciardi, che
non si considerava affatto un repubblicano eterodosso (eterodossi erano
piuttosto gli altri, venuti dal Partito d'azione) ne fu amareggiato, perché la
sua ideologia aveva infondo quel punto di riferimento, insieme alla lezione di
Bovio, Ghisleri e Conti.
D. — Non fu un caso dunque l'emarginazione di Pacciardi e la contemporanea
scarsa attenzione di questa Repubblica nei confronti di Mazzini?
R. — La rottura tra Pacciardi e La Malfa si consumò su argomenti più attuali,
quasi gli stessi che tanti anni dopo giustificarono le picconate di Francesco
Cossiga. Ma certo al fondo c'erano anche i motivi di questo genere. La Malfa,
che veniva dal nucleo azionista della Banca Commerciale, diede al Partito
repubblicano dei tratti neocapitalistici ed economicistici che Pacciardi non
condivideva. La tradizione da cui veniva lui era quella dei mazziniani e
garibaldini «volontari di tutte le guerre» come Antonio Fratti, il deputato
repubblicano di Forlì che nel 1887 andò quasi cinquantenne a morire a Domokos
combattendo contro i turchi per la libertà della Grecia. È una tradizione di
volontariato che vive ancora come leggenda nei circoli repubblicani della
Romagna. Nel Parlamento di oggi non vedo più nessuno capace di questi slanci.
D. — Possiamo dire che padre incompreso della prima, Mazzini potrebbe diventare
l'ispiratore della seconda Repubblica?
R. — Mi piacerebbe, ma ci credo poco.
D. — Quali valori mazziniani crede possano essere recuperati all'attualità
politica?
R. — La concezione spiritualistica della vita contro l'utilitarismo che impronta
l'attuale egemonia liberalcapitalista. Una grande idea della nazione italiana
che sappia integrarsi con le altre patrie in Europa. E la partecipazione dei
lavoratori nella gestione delle imprese; che ha già contribuito con la «Mitbestimmung»
quale fattore di collaborazione ed ammortizzatore sociale alla riaffermazione
della Germania tra le più dinamiche potenze produttive nel mondo.
Giano
Accame
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