«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 5 (31 Agosto 1992)

 

Nero, rosso e tricolore

 

 

Uno degli aspetti più sintomatici di come Giuseppe Mazzini è stato letto, interpretato e «vissuto» in termini eterogenei è il rapporto che con la sua figura ebbero sia il fascismo che l'antifascismo, sia l'Italia del Ventennio, sia quella della Prima Repubblica. Difficile districarsi nella grande messe di citazioni e di richiami alla primogenitura. Difficile individuare l'erede perfetto, che forse non esiste perché Mazzini appartiene alla Storia italiana nella sua interezza e, solo in tale logica, va interpretato e collocato. Tuttavia l'argomento non è di poco conto, particolarmente oggi, in tempi di ridiscussioni globali e di superamento autentico dei vecchi stereotipi storiografici e politici. Perciò abbiamo intervistato Giano Accame, giornalista e saggista, che, per la particolarità della sua esperienza culturale politica, ci è sembrato bene adatto a «fotografare» la complessità e la trasversalità delle interpretazioni dell'opera mazziniana.
Nato a Stoccarda, nel 1928, ma ligure di adozione e tradizioni familiari, inviato speciale di vari quotidiani, stretto collaboratore di Randolfo Pacciardi nell'esperienza di "Nuova Repubblica", anticipatrice, durante gli anni Sessanta, del dibattito presidenziale, ricercatore per gli "Annali dell'economia italiana" (IPSOA) di Epicarmo Corbino e Gaetano Rasi, direttore, tra il 1988 e il 1991, del "Secolo d'Italia", attualmente commentatore de "II Sabato", autore, tra l'altro, di "Il fascismo immenso e rosso", nel quale ha raccolto quasi un trentennio di riflessioni, prima passionali poi più scientifiche, sul fenomeno fascista nel suo duplice e non contraddittorio rapporto con la modernizzazione e la tradizione, Giano Accame è sempre stato un attento indagatore dei tormentati percorsi intellettuali e politici che, tra sinistra, destra e viceversa, hanno segnato questo secolo, evidenziando i limiti delle vecchie letture ideologiche. In questo cammino, entro cui è nata e si è sviluppata «l'ideologia italiana», Giuseppe Mazzini può ben essere considerato uno dei primi protagonisti. Con un rischio: che appartenendo, per statura morale e politica, un po' a tutti i diversi filoni politici ed ideologici, alla fine non rischi di non appartenere più a nessuno...
Potrebbe essere una nobile gara -ci dice Accame- ma non vedo nessuno correre ad appropriarsi dell'eredità di Mazzini. È troppo scomodo per i nostri partiti, a cominciare dal Partito repubblicano, che ne delega volentieri il culto all'Associazione Mazziniana.

D. — Certo è che a Mazzini questa prima Repubblica non ha tributato grandi onori...
R. — Sì, un paio di francobolli. Nella toponomastica c'era già prima.

D. — C'è poi da considerare il sostanziale antimarxismo mazziniano. Anche per questo Mazzini venne emarginato nel dopoguerra?
R. — Questo genere di prevenzione ha certo influito nell'ambito della cultura, dove il marxismo fu forte. Meno in politica, dove tutto sommato il marxismo è pur sempre rimasto relegato all'opposizione. Ma la «conventio ad excludendum» si è giocata su altri modelli: quello democristiano, quello americano. Mazzini, che fu forse il primo a denunciare il comunismo in uno scritto del 1847, "Pensieri sulla democrazia in Europa", come un sistema tirannico, non è stato usato quasi per una allergia nei confronti del suo spiritualismo. Sin dal 1945 l'Italia uscita dalla sconfitta gli ha preferito Cattaneo, considerato più pratico.

D. — Ma ritorniamo al discorso sulla collocazione di Mazzini rispetto alla nostra storia nazionale. Com'è possibile che Mazzini sia stato «giocato» contemporaneamente sul fronte fascista e su quello antifascista?
R. — La frattura che ha legittimato entrambe le interpretazioni si è consumata sul piano della libertà. Mazzini concepiva uniti i valori di libertà e di nazione. Come Marinetti, d'Annunzio, Gentile e quegli squadristi che all'inizio cantavano: «nel fascismo è la salvezza / della nostra libertà». Nella pratica del regime questi valori purtroppo si separarono. Così, tra i mazziniani, chi ha seguito l'uno e chi l'altro.

D. — Il problema centrale rimane la democrazia. Democratico per antonomasia, Mazzini venne tuttavia arruolato dal fascismo. Come fu possibile?
R. — Il fascismo fu definito da Mussolini una «democrazia organizzata, centralizzata, autoritaria». Ebbe consensi larghissimi, mai più ripetuti, ed immise nuovi ceti nello Stato. Potè, quindi, considerarsi per molti aspetti più democratico della vecchia Italia dei notabili. Anche Togliatti lo definì un regime reazionario «di massa» Ad arruolare Mazzini tra i precursori del fascismo fu inizialmente "il Patto Nazionale - Rivista mensile di educazione storica e di coltura mazziniana" fondata nel 1922 a Roma da Armando Casalini, deputato fascista assassinato qualche anno dopo da un sovversivo, e proseguita da Armando Lodolini. Anche Italo Balbo, che veniva come Curzio Malaparte dal Partito repubblicano e si era laureato con una tesi sulla socialità di Mazzini, sentiva questa continuità. Chi però le diede la formulazione culturalmente più alta fu Giovanni Gentile. Vorrei citare a questo proposito la conclusione del discorso su «Mazzini e la nuova Italia», che Gentile tenne a Genova il 22 giugno 1934 nella casa di Mazzini per l'inaugurazione dell'Istituto Mazziniano: «E venne il fascismo, che ci fa riudire la voce di Mazzini nel suo accento più profondo. La stessa concezione spiritualistica del mondo; lo stesso carattere religioso; la stessa avversione all'individualismo; lo stesso concetto dello Stato e della nazione, unità fondamentale e sostanza spirituale dei cittadini; lo stesso postulato dì un modo totalitario d'intendere la vita umana; la stessa diffidenza verso il liberalismo meccanico della classica economia astratta; e quindi il principio della riorganizzazione delle forze sociali in un corpo che l'atomismo delle leggi economiche assoggetti alla concreta forma dello Stato etico, come dire alla stessa coscienza dell'uomo. Mazzini perciò oggi è con noi; e l'Italia, finalmente, gli rende giustizia e saluta in lui il suo profeta».
Converrà aggiungere, a riprova di come l'interpretazione di Gentile non fosse affatto arbitraria, che lo stesso anno il filosofo radicale inglese Bertrand Russell nella sua "Storia delle idee del secolo XIX" criticando aspramente Mazzini lo indicava come un precursore di Mussolini.

D. — E poi c'è stata la RSI... Pavolini a Verona dirà che «il manifesto programmatico è una sintesi dell'originario pensiero mussoliniano il quale come è stato ricordato coincide per molta parte con quello di Mazzini ...».
R. — In effetti la socializzazione della RSI cercò di realizzare l'ideale mazziniano di «capitale e lavoro nelle stesse mani». Ma nel discriminare e perseguitare gli ebrei Mazzini non sarebbe stato d'accordo.

D. — Un'ulteriore chiave di lettura può forse essere Oriani. In "Lotta politica" Oriani scrive: «Al pari di ogni novatore, Mazzini sarà al tempo stesso rivoluzionario e reazionario ...». E ipotizzabile un Mazzini al di là della destra e della sinistra?
R. — Credo proprio che all'apostolo dell'unità nazionale questi steccati non interessassero. Diffidava anche dei partiti e nella sua ideologia, che non venne dalla rivoluzione francese matrice delle distinzioni parlamentari in destra e sinistra, il progresso non rinnega mai i fondamenti della tradizione, a cominciare da Dio. A proposito della distanza tra Mazzini e la rivoluzione francese, converrà anche ricordare che non fu affatto massone. Mazzini ricorda nelle sue memorie di essere stato iniziato fuggevolmente alla massoneria durante un incontro con un massone nel corridoio di un carcere. Ma lo ricorda appunto scherzosamente, come una esperienza curiosa e non influente nella sua vita. Non a caso la sua esperienza settaria si consumò nell'azione nazionalpopolare della Giovine Italia: tutta un 'altra cosa.

D. — Pensando a un Mazzini nazionalpopolare viene da pensare ad un altro repubblicano eterodosso, padre di questa Repubblica eppure da essa emarginato, Randolfo Pacciardi, con il quale lei ha avuto per decenni stretti rapporti di collaborazione. Quale era la concezione che aveva Pacciardi di di Mazzini?
R. — Per la verità Pacciardi, come uomo d'azione, si sentiva più vicino a Garibaldi. Dei vecchi mazziniani un po' lo irritava un eccesso di liturgia, quasi l'involontaria parodia di una chiesa. Ma quando Ugo La Malfa si vantò di avere svecchiato il Partito repubblicano liberandolo da Mazzini, Pacciardi, che non si considerava affatto un repubblicano eterodosso (eterodossi erano piuttosto gli altri, venuti dal Partito d'azione) ne fu amareggiato, perché la sua ideologia aveva infondo quel punto di riferimento, insieme alla lezione di Bovio, Ghisleri e Conti.

D. — Non fu un caso dunque l'emarginazione di Pacciardi e la contemporanea scarsa attenzione di questa Repubblica nei confronti di Mazzini?
R. — La rottura tra Pacciardi e La Malfa si consumò su argomenti più attuali, quasi gli stessi che tanti anni dopo giustificarono le picconate di Francesco Cossiga. Ma certo al fondo c'erano anche i motivi di questo genere. La Malfa, che veniva dal nucleo azionista della Banca Commerciale, diede al Partito repubblicano dei tratti neocapitalistici ed economicistici che Pacciardi non condivideva. La tradizione da cui veniva lui era quella dei mazziniani e garibaldini «volontari di tutte le guerre» come Antonio Fratti, il deputato repubblicano di Forlì che nel 1887 andò quasi cinquantenne a morire a Domokos combattendo contro i turchi per la libertà della Grecia. È una tradizione di volontariato che vive ancora come leggenda nei circoli repubblicani della Romagna. Nel Parlamento di oggi non vedo più nessuno capace di questi slanci.

D. — Possiamo dire che padre incompreso della prima, Mazzini potrebbe diventare l'ispiratore della seconda Repubblica?
R. — Mi piacerebbe, ma ci credo poco.

D. — Quali valori mazziniani crede possano essere recuperati all'attualità politica?
R. — La concezione spiritualistica della vita contro l'utilitarismo che impronta l'attuale egemonia liberalcapitalista. Una grande idea della nazione italiana che sappia integrarsi con le altre patrie in Europa. E la partecipazione dei lavoratori nella gestione delle imprese; che ha già contribuito con la «Mitbestimmung» quale fattore di collaborazione ed ammortizzatore sociale alla riaffermazione della Germania tra le più dinamiche potenze produttive nel mondo.
 

Giano Accame

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