«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 5 (31 Agosto 1992)

 

L'identità nazionale tra solidarietà ed egoismo

 


Sull'ultimo numero di "Tabularasa" sono apparsi due articoli, di struttura e segno opposti, sulla questione del razzismo, dell'immigrazione, della società multirazziale. Sebbene si tratti di argomento passato per qualche mese in secondo piano per l'urgenza di altri eventi di cronaca e di politica, esso resta di grande, stringente attualità. Colgo, quindi, lo spunto per tornare, anch'io, a parlarne. Con una premessa metodologica, riguardo all'intervento di Paolo Signorelli che io ho letto con sconcerto e sul quale alcune annotazioni definitive vanno fatte per fugare l'impressione che si parli tra sordi.
Nel pezzo abbonda l'uso della prima persona plurale: «il nostro rifiuto», «la nostra parte», «il nostro riferimento politico», «Noi rifiutiamo»... Ma «noi» chi? Vien fatto di chiedermi ad ogni passo. Nel chiudere, lo scorso anno, la serie de "l'Eco" e aprire quella di "Tabularasa" lo facemmo con una chiara, inequivocabile dichiarazione di intenti: non esisteva più, per quanti sottoscrissero quell'impegno, nessun tipo di appartenenza storica, di identità collettiva preesistente. Tabula rasa, appunto. Si ricominciava da zero, o meglio da alcuni riferimenti, da un patto stabilito ex novo e per integrazioni successive, su poche chiare premesse che allora enunciammo, senza nessun intento prescrittivo, chiedendo su esse una adesione. E tra queste vi era anche la questione della società multirazziale. Chi pensasse ancora di poter venire a prescrivere le norme di pensiero di una nostra qualsiasi cultura organica ha sbagliato porta. Arrivo persino a dubitare della opportunità di pubblicare, su tali argomenti, opinioni che vengono espresse con la pretesa di un plurale onnicomprensivo e non, come io farò, con la progressiva approssimazione della opinione personale. Ed è argomento che mi sta troppo personalmente a cuore per non dichiarare subito la totale incompatibilità del mio modo di affrontare la questione con l'uso di categorie di analisi quali la «confusione razziale» che indurrebbe chissà quali «devastazioni», il «meticciato razziale», la «negrizzazione di interi quartieri».
Questo è razzismo (posizione legittima come ogni altra se dichiarata per ciò che è) non la «supremazia biologica o soltanto culturale», che del razzismo è soltanto una modalità di espressione. Legittima ma irreparabilmente diversa dalla mia. Tanto razzista da portare l'estensore del pezzo a porre l'accento sul «problema dell'immigrazione della gente di colore» ritenuto evidentemente differente dalla immigrazione altrettanto massiccia della gente bianca e da ogni altro tipo di emigrazione (compresa quella degli Italiani nel mondo).
In realtà, certamente, ogni emigrazione/immigrazione comporta dei problemi ed è di questi che bisogna occuparsi, affrontandoli con tutto il realismo necessario, nel tentativo di comprendere le ragioni, attenuarne gli scompensi e con la discriminante culturale di un atteggiamento di solidarietà. Vivere il problema come rischio da scongiurare o, addirittura, come attacco programmato alla identità nazionale conduce inevitabilmente ad acuire i problemi, a moltiplicarne le tensioni, a bastonare i «negri» ai semafori.
È uno dei rari argomenti in cui il diverso approccio porta a due fronti netti e contrapposti, a prescindere da tutte le possibili sfumature intermedie (queste sì di carattere intellettualistico). È un discorso estremamente pratico, la cui attualità non permette nessuna lettura ideologica e nessun rimando a petizioni di principio o soluzioni progettuali di lungo termine. È un fenomeno in atto, qui ed ora.

Il Mondialismo
Partiamo da lontano, da un argomento cui in altra occasione dedicheremo lo spazio dovuto, ma che va affrontato per togliere qualsiasi confusione. Il mondialismo non c'entra nulla con i fenomeni ed i problemi delle immigrazioni di massa. Ma anche qui dobbiamo liberarci da incrostazioni ideologiche. Se potesse darsi un mondo omogeneo ed universo, privo di conflitti, io verso di esso non avrei nessun tipo di pregiudizio. Il fatto è che millenni di storie e culture e condizioni di vita diverse non si cancellano con un colpo di spugna e che il conflitto è una caratteristica etologica dell'umanità. Su questo è naufragato l'universalismo comunista: semplicemente non funziona. Ma non è ancora questo il punto: il «mondialismo» contro cui io mi batto non è la sana utopistica pretesa di fare un mondo omogeneo, è il nome che io do al disegno americano ed americanocentrico di affermare la cultura statunitense come modello egemone ed uniformatore.
Con, per giunta, tutta la carica razzista che tale volontà comporta.

La Legge Martelli
Torniamo, quindi, all'argomento centrale. Due atteggiamenti, dicevo, che conducono a due fronti opposti, due universi simbolici. È apparso chiaro sulla questione paradossale della legge Martelli. Paradossale perché in realtà essa ha rappresentato il primo tentativo di porre un freno all'immigrazione, di regolamentare gli accessi, di porre ostacoli, una legge, in realtà fortemente restrittiva, in certi aspetti assurdamente restrittiva. E tuttavia per il modo in cui è stata presentata, esposta, vissuta ha determinato una inversione simbolica dei campi.
Due gli schieramenti che si sono creati: contro MSI, PRI, LEGHE, a favore tutti gli altri.
A prescindere dal suo contenuto, che pochi conoscono, è stata l'occasione per dividere i due atteggiamenti, quello di chi rifiuta la libera circolazione della gente e combatte ogni integrazione e quello di chi è disposto a comprendere, senza pregiudizi e con spirito di solidarietà di quanti sono costretti ad abbandonare la propria terra per cercare di sopravvivere altrove.
Qui è il cuore del problema. La storia dell'umanità è storia di immigrazioni. Carestie, cataclismi, innovazioni, repressioni o la semplice ricerca di condizioni di vita migliori hanno costantemente determinato flussi migratori che hanno contribuito a plasmare, modificare culture, usi, a distruggere e creare civiltà. Oggi siamo di fronte alla fase acuta di uno di tali rimescolamenti.
Con delle novità. Delle grandi novità: la possibilità di comunicare a livello planetario. La televisione catapulta in ogni angolo del mondo le immagini della opulenza occidentale. Rende visibile il fatto che una esigua minoranza dell'umanità consuma la quasi totalità dei beni disponibili, a scapito e sulla pelle del resto del mondo. La facilità di comunicare e di spostarsi fa sì che con quattro ore di aereo o una notte di nave ci si possa affrancare dalla fame, dal caldo, dalla polvere nella speranza di vivere negli interstizi della società opulenta.
Solo con quello che si consuma in Italia per gli alimenti di cani e gatti si garantirebbe un livello di vita dignitoso ad intere regioni dell'India. Non è forse legittimo che una insegnante peruviana, costretta a mantenere una famiglia con 70.000 lire al mese, venga a guadagnarsene quindici volte tanto per fare la cameriera a Roma, sopperendo peraltro ad un vuoto di «offerta di lavoro»? Non è da accettare il fatto che un Marocchino od un Senegalese si sottraggano ad un ambiente invivibile per clima, igiene, miseria e vengano a vivere, magari dello stesso niente, sotto un cielo più benevolo?
Senza contare che l'abisso di differenze, la miseria, la sporcizia, la distruzione della economia e degli equilibri locali li abbiamo quasi sempre creati noi. Nobile, bello il tentativo di chi progetta piani di riequilibrio «a casa loro», ma si da il caso che quand'anche si iniziasse ad attuarli (e non siamo ancora neanche nell'ordine di idee di cominciare) ci vorrebbero decenni per vederne gli effetti. Intanto milioni di persone questi drammi li vivono ora. E ne muoiono ora!
Esistono poi certe spinte, che nessuna legge, nessun esercito, nessun muro riescono a fermare. Per decenni c'è chi si è fatto uccidere per inseguire un sogno al di qua del muro di Berlino. Ogni notte migliaia di Messicani rischiano di farsi uccidere su uno dei confini più protetti e sorvegliati del mondo, quello che li separa dal sogno americano.
Voglio dire che, ci piaccia o meno, si tenti o meno di arginarla, l'onda dell'immigrazione continuerà ad investirci. Il problema, l'unico problema è, quindi, come poter convivere con essa. Con i nidi di mitragliatrice sui balconi o preparandosi a dividere il di più di cui oggi godiamo. È una spinta in forte crescita, motivata dalle ragioni più naturali e profonde che si schianta contro un occidente piccolo, fiacco, stanco di vivere, stanco di procreare. Se fosse vera la tesi di chi, con Luttwak, pensa che tra i due mondi esiste una distanza incolmabile e lo scontro si presenta come l'unico scenario possibile, allora siamo pure certi che per la legge del numero e della fame siamo destinati a soccombere.

Le società multirazziali
Quanto è facile e quanto è pericoloso barricarsi dietro una formula, costruire un totem, un tabù. Che cos'è la società multirazziale? Se si escludono le piccole, arcaiche comunità chiuse di tipo tribale, che edificano la propria identità nell'opposizione ad un'altra diversa comunità, non vi è società che non sia multirazziale. Multirazziali e polietnici sono stati tutti gli imperi, da quello romano a quello austro-ungarico; multirazziali le grandi civiltà: quella indiana e quella mediterranea e mediorientale, tanto per fare esempi. Multirazziale per necessità ogni stato nazionale, che ha come elemento fondante la definizione di un confine, di un territorio dentro cui si ritrovano etnie, storie, culture anche molto diverse. La storia dei popoli è anche storia di coabitazioni, di scambi, di mischiamenti. E di conflitti. Conflitti che intervengono quando elementi esterni vanno a forzare, a modificare gli equilibri, i rapporti di convivenza.

L'identità nazionale
Multirazziale la storia stessa della nostra comunità nazionale. L'Italia è un esempio splendido di sovrapposizione e fusione di gruppi etnici e culture diverse. Italici, Etruschi, Ariani, Greci, Fenici, Longobardi, Normanni, Arabi, Spagnoli, Slavi, Francesi. Basterebbe pensare che per secoli l'intera Italia settentrionale e centrale è stata colonizzata dai Longobardi, amministrata secondo il diritto longobardo.
Tutte queste intersecazioni ed integrazioni successive hanno prodotto quella cosa che noi oggi chiamiamo identità nazionale, che non è un'astrazione, un archetipo, un modello fisso ed immutabile, è il risultato materiale di una storia di uomini. Una identità in perenne mutamento, una fisionomia dinamica con fasi di espansione od introversione, con comparsa e scomparsa di elementi culturali dominanti o, semplicemente, caratterizzanti.
Siamo ora in una fase in cui questi elementi risultano in grande fermento, in cui i cambiamenti avvengono in maniera accelerata e quindi più evidente. Ma sono sommovimenti naturali, forse addirittura ecologici, contro cui nessuna legge scritta può valere. Ed è su questi fenomeni su cui si proiettano le nostre paure, le nostre insicurezze. È un problema non risolto in noi, l'esaurirsi della forza espansiva dell'Europa progredita che ci fa vivere come un incubo l'idea di dover convivere con i nuovi arrivati, che genera le ossessioni per il meticciato che ci fa confondere la difesa della soglia di casa con la purezza della razza, comunque definita.
L'unico tentativo serio, responsabile che riesco ad immaginare per affrontare il problema e contenerne i rischi enormi è quello di tentare di attenuare i conflitti, attrezzarci strutturalmente e culturalmente ad organizzare la convivenza. Tutelando le differenze, quando sia possibile ed utile, smussandole, eliminandole, fondendole, quando questo risultasse possibile e fecondo di nuove soluzioni.
Ma operando una scelta netta, l'unica possibile, tra un atteggiamento di solidarietà e, quello opposto, di egoismo.

 

Umberto Croppi

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