«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 5 (31 Agosto 1992)

 

Moderiamo i termini

 


Giuro che faccio fatica a capire quello che scrive Pietrangelo Buttafuoco: ma è una difficoltà tutta mia. Sarà la mia modestissima cultura, sarà la mia, mediocre intelligenza, sarà che preferisco la prosa alla poesia, sarà l'astrusità della filosofia, ma tant'è.
Devo dire, però -per quella sincerità che non mi manca e di questo mi si dia atto, anche perché Antonio Carli ne fu da me informato- che quell'articolo di Pietrangelo Buttafuoco, "I minchioni a Samarcanda", fece senso anche a me. Mi fece storcere la bocca. Siccome sono estremamente tollerante (o no?) lo presi per come andava fatto: una cavalcata poetica, che comunque aveva alzato un polverone che mi dava da tossire. Cioè mi provocava fastidio.
Se ne discorro ora, è per due motivi: primo perché penso che la polemica faccia bene e poi perché Pino Tosca è un mio amico. E siccome ognuno difende i propri amici -e si fa bene a farlo, quando è necessario- io faccio la mia parte. Rispetto a Pietrangelo Buttafuoco, io ho un vantaggio: quello di conoscere (penso) bene Pino Tosca e di sapere abbastanza della di lui vita. Non conosco Buttafuoco e pertanto non userò nei suoi riguardi quelle categorie di classificazione che il Dio dei Siciliani «buttafuochiano» adopera per elencare i soggetti che lo ripugnano.
Posso dire, io che lo conosco, che Pino Tosca non è «un coglione», una «testa di minchia», un «bavuso», uno «scassapagghiari», un «quaqquaraqua». Lo posso dire perché il significato di questa terminologia, sconosciuta ai più, è stato da me ricercato in un "Dizionario del linguaggio mafioso" di Santi Correnti, edito da Arnoldo Mondadori nel 1987. La pubblicazione mi aiuta a tradurre, quando mi serve, il siciliano. Solo per questo l'ho citato: che non si facciano equivoci, dacché conosco la suscettibilità dei siciliani.
Taglio corto perché non voglio apparire avvocato difensore di alcuno e torno all'oggetto del contendere. Dicevo che quell'articolo di Buttafuoco non mi era piaciuto. E ne spiego i motivi. Primo fra tutti perché fra i «minchioni» di "Samarcanda" c'ero -da casa mia- anch'io. Minchione, io? Forse sarà così ma se la tesi di Buttafuoco può essere rispettabile seppur discutibile, non potrà pretendere che sia diversamente per me. Altrimenti... saremmo al peggior «fascismo». Quello de «il duce ha sempre ragione».
Con l'articolo successivo Buttafuoco chiarisce di non essere dalla parte «della buon'anima di Lima». Prima ciò non si arguiva. Se ne comprendeva il contrario. Si scriveva: «[...] siccome tutti i moralisti bavosi minacciano fulmini affinchè nessuno accosti la morte di Lima a quella di tutte le vittime della mafia, io invece voglio accostarlo alla catena dei delitti per un mio principio di disobbedienza che è liberatorio nei confronti di qualsiasi pregiudizio».
No, caro Buttafuoco, Lima è diverso da Grassi e da tutti gli altri. Altrimenti non si capisce più nulla. Si va in confusione. E la confusione è amica delle tenebre. Vuoi raccogliere «il profumo della pietà anche per un uomo come Salvo Lima». Liberissimo di farlo ma la pietà attiene, come il perdono, alla sfera della coscienza personale e quella sera, a "Samarcanda", si discuteva d'altro. Quando Venditti, il cantante comunista, propose quell'interrogativo, girato da Michele Santoro ai ragazzi palermitani: «Siete contenti della morte di Lima?», io -a casa mia- risposi affermativamente. L'ignavia (sarà stata quella, poi?) di quei ragazzi si manifestò nel momento in cui, pur avendolo pensato, e si vide, — non ebbero i «cugghiùni»(si dice così?) di rispondere com'io avevo fatto.
Bada, Buttafuoco, io non mi batto, come il segretario del partito al quale appartieni (e se scrivi anche sul "Secolo d'Italia" appartieni!) per la pena di morte. Ma esserci liberati d'un tal figuro mi ha prodotto liberazione, sentimento diverso, diversissimo, dalla «simpatia» che tu hai avuto per quel «povero morto chiuso nella sua bara, povero morto siciliano, figlio di questa terra pirandelliana». Quel morto «siciliano» dovrebbe suonare offesa per i Siciliani. A te, invece, e lo hai scritto, suscitava «commozione e simpatia, ora che tutti i cani (ed io sarei uno di questi) gli saltano addosso».
È chiaro che io e Buttafuoco siamo diversi: ma il limite negativo, torno a dire, è tutto mio. Sarà colpa del mio voler sempre tagliare il mondo in due, o di qua o di là, e il non saper conciliare le cose. Era un'imputazione di cui mi faceva carico un capogruppo parlamentare del partito di Buttafuoco. Ma io non sono un «politico» né saprò reggere il gioco delle figure retoriche. È per questo che non ho mai compreso, né parlato, il «politichese».
Io, «uccellino bimbo buono», non so se Michele Greco è il capo della mafia. Leggo libri e giornali come fanno tanti e non è detto che capisca sempre quello che leggo. Ma Giovanni Falcone -si deve ammetterlo (o no?)- sapeva di mafia. Ecco quello che scriveva in "Cose di Cosa Nostra": «Cosa Nostra ha la forza di una Chiesa e le sue azioni sono frutto di una ideologia e di una subcultura. Non per niente uno dei suoi capi, Michele Greco, è stato soprannominato "il Papa"».
Da che mondo è mondo il Papa è il Capo della Chiesa. Che «morto» un papa, se ne faccia un altro... beh! questo è un altro fatto, tutto da verificare. Fanno mille volte bene quelli che «vogliono fare le cose dei grandi, che vogliono parlare, vogliono dire la loro, vogliono avanzare proposte, vogliono fare fiaccolate, testimonianza, partecipazione, "rompimenti di minchia"».
Carlo Alberto Dalla Chiesa diede una definizione della mafia: «È un modo di pensare». Può darsi che il Piemontese ci acchiappasse poco con la mentalità insulare ma per me aveva ragione. Quelle saranno manifestazioni «senza sostanza» ma sempre meglio della «carnevalata» dei paracadutisti a via Maqueda e degli alpini in Corso dei Mille. Io non so cosa pensi Buttafuoco a riguardo: il segretario del suo partito ne è entusiasta. Forse perché credeva, sé tapino, essere giunta finalmente l'ora dei Colonnelli.
Né so dire quando la mafia sarà debellata. Io non ho certezze (e dicono, ma io non ci credo, che questa sia la pietra su cui fonda l'intelligenza) ma, essendo cosa di questo mondo, così com'è nata, essa morirà. Lo vedremo? Non è importante. L'essere umano vive troppo poco rispetto al cammino della storia.
Chi l'avrebbe immaginato che il comunismo sarebbe caduto? Eppure s'è avverato. Noi l'abbiam visto. L'aiuto più nutrito che si può dare alla Piovra è quel di credere ch'essa sia invincibile. Ed eterna. Era una tesi di Paolo Borsellino, il magistrato che un paio d'anni fa qualcuno addentro alle cose siciliane non volle candidare -così si disse e le «voci» in Sicilia contano- al Consiglio Regionale perché «faceva ombra»: forse gli avrebbero salvato la vita. Ora invece lo piangono tutti: chi può e chi dovrebbe vergognarsi d'essere tanto versipelle fino ad indossare la lorica del coccodrillo.
Conosco un po' di storia di mafia per aver letto qualche autorevole relazione, stilata alla bisogna: so quanto vi siano stati impelagati i comunisti, o pidiessini che dir si voglia. Ma non solo loro. E conosco -perché conosco la Sicilia e i siciliani- la verità del «più si è ladri, bastardi, arroganti, disonesti più si va avanti».
Ma di chi è la colpa? I colpevoli ci sono. Si dirà: il popolo che vota. Già, come se l'eroismo fosse normalità. Laggiù, e non solo lì, altro è la normalità. L'eroismo è eccezione. Però se si scende in piazza, si è «coglioni, bavosi, scassapagliai, quaqquaraqua». Se non lo si fa, si è conniventi. Allora, dov'è la verità?
La giustizia è «taliana», la mafia è «siciliana». Per me Miglio ha torto marcio. Né la verità può essere nel «busillis» e tantomeno nelle iperuranie «conversazioni sotto il pergolato con Michele Greco» o nelle cene fantastiche «con l'onorevole Lima [a parlare] di tante cose, delle bellezze, della famiglia, del sole e del mare».
Mille volte meglio Nando Dalla Chiesa, che alla mafia ha sacrificato il padre, Claudio Fava, che alla mafia ha sacrificato il padre, Carmine Mancuso, che alla mafia ha sacrificato il padre, e tutti i figli che hanno avuto i padri uccisi dalla mafia. Per motivi diversi da Salvo Lima. Questi ragazzi non colluderanno mai. A meno che il sangue non sia acqua. E in Sicilia è forte il richiamo del sangue.
Sto facendo l'apoteosi della "Rete"?
No, non m'interessa. Io, fascista sono (e ognuno di noi lo è a modo suo) e tale rimango. Lontano da ogni organizzazione partitica, anche da quelle che, seppure si dicano alternative, costituiscono questo sistema in cui a Milano il figlio di Craxi prende le pietre mentre «a Carrapipi sarebbe portato sul palmo della mano».
 

Vito Errico

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