«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 5 (31 Agosto 1992)

 

George Sorel: la grande sfida

 


Georges Sorel muore il 27 agosto del 1922.
In un momento in cui per i bolscevichi in Russia e per i fascisti in Italia -gli uni e gli altri figli dell'ardente messianismo soreliano- c'è una specie di diritto alla rivoluzione o alla conquista dello Stato, che la guerra ha reso esplicito: paradossalmente i governi, mobilitando le masse e gettandole nella fornace del conflitto, hanno offerto al cives/miles l'occasione storica per diventare parte attiva dello Stato e, insieme, arma politica per contestarlo.
Kurt Suckert -il futuro Curzio Malaparte- lo capiva bene: il fante-carne-da-cannone -che si ribella alle idee di patria e di eroismo, imposte dagli stati maggiori e dalle oleografie borghesi, e contro di esse fa Caporetto- è il santo maledetto che, confusamente, una sua patria e un suo modello di eroismo intuisce ed evoca. E che il suo mito si chiami Italia o classe operaia non fa grande differenza, purché nell'una o nell'altra egli, depositario e dispensatore di energie nuove, si senta cittadino o compagno. O magari l'una e l'altra cosa?
È questo che vede e vuole il Sorel che, sul limitare della vita, ripensa il proprio socialismo, traccia bilanci, guarda con simpatia Lenin che ha fatto la rivoluzione e a Mussolini che sta per fare la marcia su Roma? Che Sorel muoia lasciando eredità di affetti sia tra i fascisti che tra i bolscevichi è indubbio. E come poteva essere diversamente? Ci ricorda comunque Giuseppe Ludovico Goisis che «l'interpretazione del sindacalismo rivoluzionario che è finita per imporsi è quella stessa che del fenomeno ha dato il fascismo».
Nella voce "Fascismo" firmata da Benito Mussolini nell'Enciclopedia Italiana si legge: «Nel grande fiume del fascismo troverete i filoni che si dipartono dal Sorel, dal Peguy, dal Lagardelle del Mouvement socialiste e dalla coorte dei sindacalisti italiani che tra il 1904 e il 1914 portarono una nota di novità nell'ambiente socialistico italiano, già svirilizzato e cloroformizzato dalla fornicazione giolittiana, con le "Pagine libere" di Olivetti, la "Lupa" di Orano, il "Divenire sociale" di Enrico Leone».
Certamente Mussolini si sentiva discepolo anche di Sorel, letto e delibato, insieme a Nietzsche e Stirner negli anni in cui il futuro dittatore era un agitatore della sinistra socialista. In quel periodo, ed esattamente nel 1912, Sorel, parlando con il nazionalista Variot (con lui aveva dato vita alla rivista "L'Independance", centro di raccolta di estremisti di destra e di sinistra uniti dal comune odio per la Francia giacobina, parlamentare, plutocratica) aveva profetizzato: «Questo Mussolini non è un socialista ordinario. Credetemi: un giorno, forse, lo vedrete alla testa di un battaglione sacro, in atto di salutare con la spada la bandiera italiana. È un italiano del XV secolo, un condottiero! Ancora non lo sanno, ma è l'unico uomo energico in grado di raddrizzare le debolezze del governo».
Nel novembre del 1919, l'Ingegnere di ponti e di strade (così Sorel amava definirsi) scrive sul quotidiano "Il Resto del Carlino" (vi collaborerà regolarmente fino al '21): «Gli avvenimenti d'Italia fanno testimonianza una volta di più dell'alto valore storico della violenza».
Che cosa sta succedendo? Mussolini ha creato i suoi fasci il 23 marzo e in aprile c'è stata la prima impresa squadristica con l'incendio della sede de "l'Avanti!". Da che parte sta Sorel? Certamente non da quella del socialismo riformista: di questi ambienti ha sempre diffidato, e nell'agosto del '20, parlando dei socialisti francesi, scriverà a Croce: «il governo può comprarli come il sensale i bovi». D'altra parte, l'attenzione che il pensatore di Cherbourg (in questa città della Normandia è nato nel 1847) rivolge al fascismo è sempre più partecipe: e non certo per trasformismo o perché il nostro plauda all'attacco contro le organizzazioni operaie. Piuttosto, Sorel vede nel fascismo un movimento capace di esercitare profonde suggestioni politiche e sociali, e in grado di rovesciare o di condizionare fortemente le istituzioni borghesi che egli combatte perché corruttrici del costume tradizionale e disgregatrici delle naturali virtù del popolo a causa del veleno inoculato dall'intellighentsia giacobina e radicale.
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Mussolini gli appare come l'uomo nuovo: con l'istinto e con la vitalità, con la violenza e con la sapiente spregiudicatezza nell'utilizzare uomini e mezzi, certamente avrebbe fatto sentire il suo peso sullo scenario politico italiano. Nell'agosto del '21 scrive a Croce: «Le avventure del fascismo sono forse in questo momento il fenomeno sociale più originale d'Italia; mi sembra che vadano molto al di là delle combinazioni dei politicanti».
Secondo, lui, Mussolini ha inventato qualcosa di molto importante: l'unione dell'elemento nazionale con quello sociale. Sorel aggiunge che questo non c'era, nei suoi libri, che questo non è stato lui a suggerirglielo: la teoria della violenza, invece, sì quella il duce l'ha trovata in Sorel. Ancora nel settembre, leggiamo su "Il Resto del Carlino": «I fascisti hanno avuto l'idea di sostituirsi allo stesso Stato, sostenendo e difendendo l'indipendenza nazionale conquistata da Garibaldi.

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«Siamo all'inizio di un movimento che deve rovesciare tutto l'edificio parlamentare, ogni giorno più inutile». Si badi bene: siamo in un periodo di tempo in cui tutto è ancora da giocare, il fascismo è una forza magmatica, il movimento socialista fa fronte unico contro le camicie nere ma appare anche frantumato in mille realtà contrastanti, il comunismo si affaccia duro e puro sulla scena politica italiana, il sindacalismo rivoluzionario si sta spezzando tra chi sceglie di battagliare sotto le insegne di Mussolini (Bianchi, Lanzillo, Rossoni, lo stesso Malaparte che è soreliano e garibaldino) e chi ha già deciso o sta decidendo per l'opposizione (Labriola, De Ambris, Di Vittorio). Sorel continua a nutrire gli uni e gli altri: tra gli antifascisti, anche Nenni, Togliatti, Gramsci, Gobetti ne sono suggestionati.
Il Normanno di Cherbourg è attratto -e lo vedremo- dall'esperienza eroica dei Soviet, ma anche da quel che sta facendo Mussolini. Lo conforta il parere di amici come Croce e Pareto, decisamente filo-fascisti nel '22 (il disincanto e poi l'opposizione crociana arriveranno presto, quanto a quel che avrebbero detto e fatto di fronte al fascismo-regime, un Sorel, morto nel '22 e un Pareto, morto nel '23, è impossibile azzardare previsioni): altri, come Prezzolini e Missiroli, pur scettici e desiderosi di conservare la loro libertà di critica, vedono comunque nel fascismo un fenomeno di larga portata, capace di coinvolgere e travolgere, e con cui bisogna fare i conti anche intellettualmente: viene, infatti, da vicino e da lontano, nel senso che è, sì, un parto di guerra e dopoguerra, ma nondimeno non sarebbe spiegabile senza ripensare a tutte le furibonde polemiche culturali contro la democrazia, il socialismo parlamentare, la borghesia ecc. innescate, a partire dal '900, da riviste, movimenti di avanguardia ecc.
A questo punto, il Sorel leninista può apparire ancor più inquietante del Sorel mussoliniano solo a chi non tenga conto della bollente temperatura ideale del dopoguerra, dei suoi precedenti e di tutte le attese che messaggi rivoluzionari di opposto segno suscitavano negli intellettuali.
Sorel, agli inizi, ha un atteggiamento di attesa di fronte alla rivoluzione russa: ma ben presto celebra nel bolscevismo il sangue nuovo di cui avevano bisogno gli ideali socialisti; fa propria l'affermazione dei soviet secondo cui i diritti politici sono diritti dei produttori; saluta nel comunismo una morale dell'ordine non formalistica; scrive -nel settembre del 1919- "Pour Lenine", dicendosi fiero di aver contribuito alla formazione del rivoluzionario russo, se davvero, come alcuni sostengono, Lenin ha tratto ispirazione dai suoi libri; collabora alla "Revue communiste"; difende il bolscevismo dagli attacchi delle democrazie occidentali, contrapponendolo alla più odiosa delle plutocrazie, quella americana; esalta nella rivoluzione russa «l'alba di una nuova era»; parla di Mosca come della «Roma del proletariato» contro cui congiurano le «nuove Cartagini», «le orgogliose democrazie borghesi»; auspica che «il sentimento del sublime, che non muore mai nell'animo popolare popolare, commosso dal racconto dei sacrifici straordinari compiuti dai bolscevichi, consacri la certezza del socialismo, già accettato dagli intellettuali».

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Filo-fascista e filo-comunista, e, insieme, socialista, anzi, come è stato detto più volte, eretico del marxismo: è un velleitario, un trasformista, un opportunista, magari un intellettuale estetizzante Georges Sorel? E lo sarebbe diventato proprio alle soglie della morte? Ma poi perché? Trovando quali vantaggi nell'adesione a due movimenti che non avevano ancora in pugno alcuna certezza, alcuna garanzia di durare? Per quel che ci riguarda, crediamo in una fondamentale coerenza soreliana. La sua vita, le sue opere, in fondo, ce la insegnano. Del resto, Sorel è insieme un uomo coerente e un segno di contraddizione: destino comune a tanti battitori liberi, ai quali gli schemi vanno stretti, per i quali i limiti delle ideologie appaiono soffocanti. Guardiamo. Non ancora ventenne, allievo del Politecnico, il nostro è monarchico, legittimista, tradizionalista. Reca impressi, dunque, i tratti di una generazione che «deplorava nel regime esistente una corrente materialista, cara ad avventurieri noncuranti dell'opinione delle famiglie oneste, avidi di denaro, gonfi di orgoglio. Si odiava un governo che sembrava disonorare la Francia, a cagione della sua ignoranza del genio nazionale». Il lessico di Sorel si fonderà ben presto su alcune parole-chiave: entusiasmo, volontà, disciplina, eroismo, spirito di sacrificio, morale guerriera, virtù quirite, devozione, fedeltà e non cercherà egli nel socialismo, in ultima analisi, proprio «una metafisica dei costumi»?

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Non ama -non amerà mai- la Rivoluzione francese, il settarismo giacobino degli avvocati, dei notai, dei giornalisti e cioè dei gruppi sociali che ne furono il motore e l'anima; diffida dello Stato moderno che, fingendo di assicurare la libertà di coscienza, in realtà controlla le coscienze e, dopo aver distrutto i valori cristiani, formula dogmi ingannevoli e costrittivi.
Tra questi, c'è la democrazia, il sistema politico che rappresenta il trionfo dell'arrivismo e dell'utilitarismo, oltreché dell'indifferentismo morale e della mediocrità. L'uomo giusto di Sorel, l'eroe a cui guarda è «povero, temperante, circondato da una famiglia numerosa»: come libro gli va data la Bibbia; mentre i libri che gli mette in mano lo Stato con l'istruzione obbligatoria disgregano la sua moralità.
Sostenuto da questo intransigentismo, il Sorel che scopre il marxismo, il socialismo, il sindacalismo non può non trasportare la tensione originaria in paesaggi dello spirito pure tanto diversi. "Le Réflexions sur la violence", scritte nel 1906 e pubblicate in edizione italiana nel 1909 con prefazione di Benedetto Croce ne sono una conferma. Sorel, che nutre una profonda riverenza per la severità dei grandi cristiani francesi del secolo decimosettimo, che detesta la rilassatezza dei costumi e il melenso sentimentalismo romantico, che prova un moto di istintiva ostilità di fronte agli «abbracciamenti universali», capaci di soddisfare interessi materiali e transitori, ma anche tali da compromettere quelli profondi e duraturi, vuole un proletariato costituito in solido organismo che, sfuggendo al controllo dei politicanti, si dia istituzioni proprie. Deve insomma presentarsi come classe sociale contrassegnata da un profondo senso di responsabilità morale e da una intrepida vocazione alla ascesi, alla probità, al sacrificio.
E alla violenza, feconda di bene non solo per il proletariato, ma anche per la borghesia. Scrive Sorel: «...la violenza proletaria entra in scena nel medesimo tempo che la pace sociale pretende di addolcire i conflitti; riconduce gli imprenditori capitalisti alla loro funzione produttrice, e tende a restaurare la struttura delle classi, via via che sembrano mescolarsi in un pantano democratico. Essa non solo può assicurare la rivoluzione futura, ma appare anche come il solo mezzo di cui dispongano le nazioni europee, abbrutite dall'umanitarismo, per ritrovare la loro antica vigorìa. Questa violenza costringe il capitalismo a preoccuparsi unicamente della funzione produttrice, e tende a ridargli le qualità bellicose di un tempo». Insomma, tutti in trincea.
Benedetto Croce precisa: «Tutti i consigli che il Sorel rivolge agli operai, li compendia in tre capi, ossia: circa la democrazia, di non correre dietro all'acquisto di molti seggi legislativi, che si ottengono col far causa comune coi malcontenti di ogni sorta; di non presentarsi mai come il partito dei poveri, ma come quello dei lavoratori; di non mescolare il proletariato operaio con gli impiegati delle amministrazioni pubbliche, e di non mirare a estendere il demanio dello Stato; circa il capitalismo, di respingere ogni provvedimento, favorevole che sembri al momento agli operai, se porti a infiacchire l'attività sociale; circa il conciliatorismo e la filantropia, di ricusare qualsiasi istituzione, che tenda a ridurre la lotta di classe a rivalità di interessi materiali; ricusare la partecipazione di delegati operai alle istituzioni create dallo Stato e dalla borghesia; rinchiudersi nei sindacati, ossia nelle Camere di lavoro, e raccogliere intorno ad esse tutta la vita operaia».

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Violenza e sciopero generale debbono essere visti come miti suscitatori di entusiasmi morali e di energie liberatrici, momenti centrali della storia eroica del proletariato che deve dare sangue nuovo alla società, opponendosi alla decadenza borghese e riprendendo ciò che la borghesia più non coltiva: l'idealismo delle origini, il gusto della lotta, l'antico culto- compenetrato di spirito cristiano- del lavoro e del risparmio, del decoro e della solidarietà.
E Marx? A lui Sorel fa spesso riferimento; senza di lui, possiamo dirlo, Sorel non si spiega.
È altrettanto vero che, come nota Edouard Berth, un soreliano che nel primo dopoguerra sarà vicino ai comunisti, mentre «presso Marx il divenire sociale è concepito come un determinismo storico e diviene una specie di fatalismo, negazione, in fondo, del divenire reale, presso Sorel è concepito come la libera creazione, sotto l'influenza dei miti sociali, di un gruppo di uomini appassionati, portati alle più alte vette dell'entusiasmo poetico (nel senso originario della parola)».
Nessun automatismo, nessuna fatalità, nessun meccanicismo in Sorel. Il suo proletariato vive il dramma della lotta e della devozione alla causa; e il dramma si scioglie se la lotta è coerenza e se la devozione non si incrina; il proletariato è un eroe collettivo che incarna le stesse virtù dei solitari eroi della classicità e del Medio Evo e che deve redimersi in nome del suo lavoro, per virtù sua propria, forte di una continua ascensione spirituale, acquistando così il diritto di fondare la nuova città e di restaurare gli eterni valori morali. Questo è Sorel.

 

Mario Bernardi Guardi

estratto dal saggio apparso su "Ragionamenti - Storia",
luglio/agosto 1992, n° 17/18

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