George Sorel: la grande
sfida
Georges Sorel muore il 27 agosto del 1922.
In un momento in cui per i bolscevichi in Russia e per i fascisti in Italia -gli
uni e gli altri figli dell'ardente messianismo soreliano- c'è una specie di
diritto alla rivoluzione o alla conquista dello Stato, che la guerra ha reso
esplicito: paradossalmente i governi, mobilitando le masse e gettandole nella
fornace del conflitto, hanno offerto al cives/miles l'occasione storica per
diventare parte attiva dello Stato e, insieme, arma politica per contestarlo.
Kurt Suckert -il futuro Curzio Malaparte- lo capiva bene: il
fante-carne-da-cannone -che si ribella alle idee di patria e di eroismo, imposte
dagli stati maggiori e dalle oleografie borghesi, e contro di esse fa Caporetto-
è il santo maledetto che, confusamente, una sua patria e un suo modello di
eroismo intuisce ed evoca. E che il suo mito si chiami Italia o classe operaia
non fa grande differenza, purché nell'una o nell'altra egli, depositario e
dispensatore di energie nuove, si senta cittadino o compagno. O magari l'una e
l'altra cosa?
È questo che vede e vuole il Sorel che, sul limitare della vita, ripensa il
proprio socialismo, traccia bilanci, guarda con simpatia Lenin che ha fatto la
rivoluzione e a Mussolini che sta per fare la marcia su Roma? Che Sorel muoia
lasciando eredità di affetti sia tra i fascisti che tra i bolscevichi è
indubbio. E come poteva essere diversamente? Ci ricorda comunque Giuseppe
Ludovico Goisis che «l'interpretazione del sindacalismo rivoluzionario che è
finita per imporsi è quella stessa che del fenomeno ha dato il fascismo».
Nella voce "Fascismo" firmata da Benito Mussolini nell'Enciclopedia Italiana si
legge: «Nel grande fiume del fascismo troverete i filoni che si dipartono dal
Sorel, dal Peguy, dal Lagardelle del Mouvement socialiste e dalla coorte dei
sindacalisti italiani che tra il 1904 e il 1914 portarono una nota di novità
nell'ambiente socialistico italiano, già svirilizzato e cloroformizzato dalla
fornicazione giolittiana, con le "Pagine libere" di Olivetti, la "Lupa" di
Orano, il "Divenire sociale" di Enrico Leone».
Certamente Mussolini si sentiva discepolo anche di Sorel, letto e delibato,
insieme a Nietzsche e Stirner negli anni in cui il futuro dittatore era un
agitatore della sinistra socialista. In quel periodo, ed esattamente nel 1912,
Sorel, parlando con il nazionalista Variot (con lui aveva dato vita alla rivista
"L'Independance", centro di raccolta di estremisti di destra e di sinistra uniti
dal comune odio per la Francia giacobina, parlamentare, plutocratica) aveva
profetizzato: «Questo Mussolini non è un socialista ordinario. Credetemi: un
giorno, forse, lo vedrete alla testa di un battaglione sacro, in atto di
salutare con la spada la bandiera italiana. È un italiano del XV secolo, un
condottiero! Ancora non lo sanno, ma è l'unico uomo energico in grado di
raddrizzare le debolezze del governo».
Nel novembre del 1919, l'Ingegnere di ponti e di strade (così Sorel amava
definirsi) scrive sul quotidiano "Il Resto del Carlino" (vi collaborerà
regolarmente fino al '21): «Gli avvenimenti d'Italia fanno testimonianza una
volta di più dell'alto valore storico della violenza».
Che cosa sta succedendo? Mussolini ha creato i suoi fasci il 23 marzo e in
aprile c'è stata la prima impresa squadristica con l'incendio della sede de
"l'Avanti!". Da che parte sta Sorel? Certamente non da quella del socialismo
riformista: di questi ambienti ha sempre diffidato, e nell'agosto del '20,
parlando dei socialisti francesi, scriverà a Croce: «il governo può comprarli
come il sensale i bovi». D'altra parte, l'attenzione che il pensatore di
Cherbourg (in questa città della Normandia è nato nel 1847) rivolge al fascismo
è sempre più partecipe: e non certo per trasformismo o perché il nostro plauda
all'attacco contro le organizzazioni operaie. Piuttosto, Sorel vede nel fascismo
un movimento capace di esercitare profonde suggestioni politiche e sociali, e in
grado di rovesciare o di condizionare fortemente le istituzioni borghesi che
egli combatte perché corruttrici del costume tradizionale e disgregatrici delle
naturali virtù del popolo a causa del veleno inoculato dall'intellighentsia
giacobina e radicale.
* * *
Mussolini gli appare come l'uomo nuovo: con l'istinto e con la vitalità, con la
violenza e con la sapiente spregiudicatezza nell'utilizzare uomini e mezzi,
certamente avrebbe fatto sentire il suo peso sullo scenario politico italiano.
Nell'agosto del '21 scrive a Croce: «Le avventure del fascismo sono forse in
questo momento il fenomeno sociale più originale d'Italia; mi sembra che vadano
molto al di là delle combinazioni dei politicanti».
Secondo, lui, Mussolini ha inventato qualcosa di molto importante: l'unione
dell'elemento nazionale con quello sociale. Sorel aggiunge che questo non c'era,
nei suoi libri, che questo non è stato lui a suggerirglielo: la teoria della
violenza, invece, sì quella il duce l'ha trovata in Sorel. Ancora nel settembre,
leggiamo su "Il Resto del Carlino": «I fascisti hanno avuto l'idea di
sostituirsi allo stesso Stato, sostenendo e difendendo l'indipendenza nazionale
conquistata da Garibaldi.
* * *
«Siamo all'inizio di un movimento che deve rovesciare tutto l'edificio
parlamentare, ogni giorno più inutile». Si badi bene: siamo in un periodo di
tempo in cui tutto è ancora da giocare, il fascismo è una forza magmatica, il
movimento socialista fa fronte unico contro le camicie nere ma appare anche
frantumato in mille realtà contrastanti, il comunismo si affaccia duro e puro
sulla scena politica italiana, il sindacalismo rivoluzionario si sta spezzando
tra chi sceglie di battagliare sotto le insegne di Mussolini (Bianchi, Lanzillo,
Rossoni, lo stesso Malaparte che è soreliano e garibaldino) e chi ha già deciso
o sta decidendo per l'opposizione (Labriola, De Ambris, Di Vittorio). Sorel
continua a nutrire gli uni e gli altri: tra gli antifascisti, anche Nenni,
Togliatti, Gramsci, Gobetti ne sono suggestionati.
Il Normanno di Cherbourg è attratto -e lo vedremo- dall'esperienza eroica dei
Soviet, ma anche da quel che sta facendo Mussolini. Lo conforta il parere di
amici come Croce e Pareto, decisamente filo-fascisti nel '22 (il disincanto e
poi l'opposizione crociana arriveranno presto, quanto a quel che avrebbero detto
e fatto di fronte al fascismo-regime, un Sorel, morto nel '22 e un Pareto, morto
nel '23, è impossibile azzardare previsioni): altri, come Prezzolini e
Missiroli, pur scettici e desiderosi di conservare la loro libertà di critica,
vedono comunque nel fascismo un fenomeno di larga portata, capace di coinvolgere
e travolgere, e con cui bisogna fare i conti anche intellettualmente: viene,
infatti, da vicino e da lontano, nel senso che è, sì, un parto di guerra e
dopoguerra, ma nondimeno non sarebbe spiegabile senza ripensare a tutte le
furibonde polemiche culturali contro la democrazia, il socialismo parlamentare,
la borghesia ecc. innescate, a partire dal '900, da riviste, movimenti di
avanguardia ecc.
A questo punto, il Sorel leninista può apparire ancor più inquietante del Sorel
mussoliniano solo a chi non tenga conto della bollente temperatura ideale del
dopoguerra, dei suoi precedenti e di tutte le attese che messaggi rivoluzionari
di opposto segno suscitavano negli intellettuali.
Sorel, agli inizi, ha un atteggiamento di attesa di fronte alla rivoluzione
russa: ma ben presto celebra nel bolscevismo il sangue nuovo di cui avevano
bisogno gli ideali socialisti; fa propria l'affermazione dei soviet secondo cui
i diritti politici sono diritti dei produttori; saluta nel comunismo una morale
dell'ordine non formalistica; scrive -nel settembre del 1919- "Pour Lenine",
dicendosi fiero di aver contribuito alla formazione del rivoluzionario russo, se
davvero, come alcuni sostengono, Lenin ha tratto ispirazione dai suoi libri;
collabora alla "Revue communiste"; difende il bolscevismo dagli attacchi delle
democrazie occidentali, contrapponendolo alla più odiosa delle plutocrazie,
quella americana; esalta nella rivoluzione russa «l'alba di una nuova era»;
parla di Mosca come della «Roma del proletariato» contro cui congiurano le
«nuove Cartagini», «le orgogliose democrazie borghesi»; auspica che «il
sentimento del sublime, che non muore mai nell'animo popolare popolare, commosso
dal racconto dei sacrifici straordinari compiuti dai bolscevichi, consacri la
certezza del socialismo, già accettato dagli intellettuali».
* * *
Filo-fascista e filo-comunista, e, insieme, socialista, anzi, come è stato detto
più volte, eretico del marxismo: è un velleitario, un trasformista, un
opportunista, magari un intellettuale estetizzante Georges Sorel? E lo sarebbe
diventato proprio alle soglie della morte? Ma poi perché? Trovando quali
vantaggi nell'adesione a due movimenti che non avevano ancora in pugno alcuna
certezza, alcuna garanzia di durare? Per quel che ci riguarda, crediamo in una
fondamentale coerenza soreliana. La sua vita, le sue opere, in fondo, ce la
insegnano. Del resto, Sorel è insieme un uomo coerente e un segno di
contraddizione: destino comune a tanti battitori liberi, ai quali gli schemi
vanno stretti, per i quali i limiti delle ideologie appaiono soffocanti.
Guardiamo. Non ancora ventenne, allievo del Politecnico, il nostro è monarchico,
legittimista, tradizionalista. Reca impressi, dunque, i tratti di una
generazione che «deplorava nel regime esistente una corrente materialista, cara
ad avventurieri noncuranti dell'opinione delle famiglie oneste, avidi di denaro,
gonfi di orgoglio. Si odiava un governo che sembrava disonorare la Francia, a
cagione della sua ignoranza del genio nazionale». Il lessico di Sorel si fonderà
ben presto su alcune parole-chiave: entusiasmo, volontà, disciplina, eroismo,
spirito di sacrificio, morale guerriera, virtù quirite, devozione, fedeltà e non
cercherà egli nel socialismo, in ultima analisi, proprio «una metafisica dei
costumi»?
* * *
Non ama -non amerà mai- la Rivoluzione francese, il settarismo giacobino degli
avvocati, dei notai, dei giornalisti e cioè dei gruppi sociali che ne furono il
motore e l'anima; diffida dello Stato moderno che, fingendo di assicurare la
libertà di coscienza, in realtà controlla le coscienze e, dopo aver distrutto i
valori cristiani, formula dogmi ingannevoli e costrittivi.
Tra questi, c'è la democrazia, il sistema politico che rappresenta il trionfo
dell'arrivismo e dell'utilitarismo, oltreché dell'indifferentismo morale e della
mediocrità. L'uomo giusto di Sorel, l'eroe a cui guarda è «povero, temperante,
circondato da una famiglia numerosa»: come libro gli va data la Bibbia; mentre i
libri che gli mette in mano lo Stato con l'istruzione obbligatoria disgregano la
sua moralità.
Sostenuto da questo intransigentismo, il Sorel che scopre il marxismo, il
socialismo, il sindacalismo non può non trasportare la tensione originaria in
paesaggi dello spirito pure tanto diversi. "Le Réflexions sur la violence",
scritte nel 1906 e pubblicate in edizione italiana nel 1909 con prefazione di
Benedetto Croce ne sono una conferma. Sorel, che nutre una profonda riverenza
per la severità dei grandi cristiani francesi del secolo decimosettimo, che
detesta la rilassatezza dei costumi e il melenso sentimentalismo romantico, che
prova un moto di istintiva ostilità di fronte agli «abbracciamenti universali»,
capaci di soddisfare interessi materiali e transitori, ma anche tali da
compromettere quelli profondi e duraturi, vuole un proletariato costituito in
solido organismo che, sfuggendo al controllo dei politicanti, si dia istituzioni
proprie. Deve insomma presentarsi come classe sociale contrassegnata da un
profondo senso di responsabilità morale e da una intrepida vocazione alla
ascesi, alla probità, al sacrificio.
E alla violenza, feconda di bene non solo per il proletariato, ma anche per la
borghesia. Scrive Sorel: «...la violenza proletaria entra in scena nel medesimo
tempo che la pace sociale pretende di addolcire i conflitti; riconduce gli
imprenditori capitalisti alla loro funzione produttrice, e tende a restaurare la
struttura delle classi, via via che sembrano mescolarsi in un pantano
democratico. Essa non solo può assicurare la rivoluzione futura, ma appare anche
come il solo mezzo di cui dispongano le nazioni europee, abbrutite
dall'umanitarismo, per ritrovare la loro antica vigorìa. Questa violenza
costringe il capitalismo a preoccuparsi unicamente della funzione produttrice, e
tende a ridargli le qualità bellicose di un tempo». Insomma, tutti in trincea.
Benedetto Croce precisa: «Tutti i consigli che il Sorel rivolge agli operai, li
compendia in tre capi, ossia: circa la democrazia, di non correre dietro
all'acquisto di molti seggi legislativi, che si ottengono col far causa comune
coi malcontenti di ogni sorta; di non presentarsi mai come il partito dei
poveri, ma come quello dei lavoratori; di non mescolare il proletariato operaio
con gli impiegati delle amministrazioni pubbliche, e di non mirare a estendere
il demanio dello Stato; circa il capitalismo, di respingere ogni provvedimento,
favorevole che sembri al momento agli operai, se porti a infiacchire l'attività
sociale; circa il conciliatorismo e la filantropia, di ricusare qualsiasi
istituzione, che tenda a ridurre la lotta di classe a rivalità di interessi
materiali; ricusare la partecipazione di delegati operai alle istituzioni create
dallo Stato e dalla borghesia; rinchiudersi nei sindacati, ossia nelle Camere di
lavoro, e raccogliere intorno ad esse tutta la vita operaia».
* * *
Violenza e sciopero generale debbono essere visti come miti suscitatori di
entusiasmi morali e di energie liberatrici, momenti centrali della storia eroica
del proletariato che deve dare sangue nuovo alla società, opponendosi alla
decadenza borghese e riprendendo ciò che la borghesia più non coltiva:
l'idealismo delle origini, il gusto della lotta, l'antico culto- compenetrato di
spirito cristiano- del lavoro e del risparmio, del decoro e della solidarietà.
E Marx? A lui Sorel fa spesso riferimento; senza di lui, possiamo dirlo, Sorel
non si spiega.
È altrettanto vero che, come nota Edouard Berth, un soreliano che nel primo
dopoguerra sarà vicino ai comunisti, mentre «presso Marx il divenire sociale è
concepito come un determinismo storico e diviene una specie di fatalismo,
negazione, in fondo, del divenire reale, presso Sorel è concepito come la libera
creazione, sotto l'influenza dei miti sociali, di un gruppo di uomini
appassionati, portati alle più alte vette dell'entusiasmo poetico (nel senso
originario della parola)».
Nessun automatismo, nessuna fatalità, nessun meccanicismo in Sorel. Il suo
proletariato vive il dramma della lotta e della devozione alla causa; e il
dramma si scioglie se la lotta è coerenza e se la devozione non si incrina; il
proletariato è un eroe collettivo che incarna le stesse virtù dei solitari eroi
della classicità e del Medio Evo e che deve redimersi in nome del suo lavoro,
per virtù sua propria, forte di una continua ascensione spirituale, acquistando
così il diritto di fondare la nuova città e di restaurare gli eterni valori
morali. Questo è Sorel.
Mario
Bernardi Guardi
estratto dal saggio apparso su "Ragionamenti -
Storia",
luglio/agosto 1992, n° 17/18
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