«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 5 (31 Agosto 1992)

 

1853: tanto Mussolini e non poco Mazzini
in una lettera di Abramo Lincoln

 


Ecco un brano epistolare che, vergato quasi un secolo e mezzo fa da mano nobile e illustre, esprime con impressionante attualità una tesi la quale, almeno per ciò che attiene al giudizio su determinati popoli, conserva -purtroppo!- una dolorosa e sconcertante validità. Vediamo:
«La Dalmazia ha una sua storia unitaria nazionale di quasi ventidue secoli: quelle quantità etniche, le quali vi si sono violentemente sovrapposte a detrimento della nativa italianità, sono costituite (se si eccettuano i romeni, fulcro vitale di luminosa italianità) dai più barbari e selvaggi popoli della terra, bulgari, croati e serbi (dei turchi vi scrissi a lungo l'ultima volta), che non hanno, specialmente i serbi, al loro attivo quasi altra gloria che assassina o delitti e sterminii e vandalismi d'ogni specie in tutte le loro gradazioni sociali, disonore della società, che hanno bisogno di essere ben bene ripuliti dalle nazioni di civiltà superiore in nome del più umano dei principii civili dei popoli: quella gloriosa Dalmazia, così simpatica, che tradita a Campoformio, fu venduta all'Austria e poi passata a Napoleone... Quella Dalmazia, infine, che la Santa Alleanza ridonò all'Austria! ...»
Queste considerazioni -dal sapore, certo, eccessivamente «integralista» e troppo generalizzante- appartengono a un personaggio consegnato alla Storia per avere offerto il suo pensiero, le sue opere, la sua vita alla causa della redenzione umana, della libertà dei popoli, del riscatto di una razza oppressa. Facciamo riferimento al più grande e famoso dei presidenti statunitensi dopo Giorgio Washington, ossia ad Abramo Lincoln, il quale -in ciò un aspetto originale e sorprendente della sua personalità- amava profondamente l'Italia, ne aveva studiato con passione millenarie vicende e irrisolti problemi. Con tale amore da indurlo ad invitare Garibaldi, di cui era grande amico, ad assumere il comando dell'Esercito degli Stati Uniti.
Tuttavia, la lettera di cui testé ci occuperemo non è indirizzata all'Eroe dei due Mondi, bensì a un patriota italiano, Macedonio Melloni (1), altro suo amico, che nel valutarne l'importanza ritenne opportuno darla in visione a Giuseppe Mazzini. A sua volta il fondatore della "Giovine Italia" intuì, e da par suo, le caratteristiche di messaggio etico, ideale e politico della missiva lincolniana e si affrettò a tradurla e a darla alle stampe. Correva l'anno di grazia 1853.
Trattasi, a nostro giudizio, di documento dallo straordinario spessore storico; e ciò indipendentemente dalle non infondate asseverazioni sulla italianità della Dalmazia e sui vizi gravi delle citate genti balcaniche. Il Lettore potrà rendersene conto via via che presenteremo altre parti della lettera, corredandole, ovviamente, con osservazioni e deduzioni connettibili anche a situazioni molto più prossime all'epoca nostra di quelle ottocentesche e risorgimentali.
Sempre relativamente all'indissolubilità del vincolo italo-dalmata, il grande Emancipatore dei negri dal servaggio schiavista così si esprime:
«II lago di Venezia non deve essere più oltre defraudato. Non ammetterne l'annessione per intero, senza eccezione di sorta, all'Italia, è, pei cittadini di tutte le terre e pei conterranei di Franklin e di Washington, un vero e proprio matricidio, che getterebbe l'infamia sui fedifraghi ingiuriatori e griderebbe vendetta dinanzi alla nemesi stessa della storia ...»
Da rilevare che il discorso sulla Dalmazia, lungi dall'essere isolato rispetto alla più vasta tematica nazionale, è, nella prosa di Abramo Lincoln, ad essa strettamente collegato. Lo si evince dalle seguenti parole:
«Tutta la penisola italica dev'essere interamente unita in un'unica nazione con le sue tre maggiori isole del Mediterraneo (Corsica, Sardegna e Sicilia), col Lombardo Veneto e colle due Venezie (Tridentina e Giulia), per intero, senza sbalzi dannosi e salti incomposti, coll'assoluta padronanza dell'antico lago di Venezia, da Fiume alle Bocche del Cattaro, ininterrottamente, per tutta la Dalmazia, in aggiunta indistruttibile a tutta l'Albania (sic! N.d.R.). La sola unità italiana che si possa ammettere è questa: chi non l'ammette calpesta i principii della più sana delle oneste politiche, per preparare, nell'avvenire, la più cruenta e micidiale delle guerre, la più torbida ed insensata delle speculazioni innominabili».
Qui siamo davvero nell'area del sensazionale. Secondo un personaggio della statura di Abramo Lincoln -un liberale, un antirazzista, un fautore, come vedremo, degli Stati Uniti d'Europa; non lo si dimentichi- anche l'Albania sarebbe italiana in virtù della sua appartenenza all'«antico lago di Venezia». Anche per avere dato corpo a tale intuizione lincolniana -nel merito della quale non è, in questa sede, il caso di entrare- Benito Mussolini è finito a Piazzale Loreto. E se ci pungesse vaghezza di cinicamente ed orrendamente celiare su cose del genere, non potremmo non chiederci, e chiedere, come mai nell'aprile del '45 sul distributore di benzina più noto del mondo non c'era, accanto al capo del fascismo, uno dei più gloriosi presidenti USA. E sia pure in effigie.
Questo strano incontro sulle vie della storia fra due statisti così contestati e tragicamente finiti -tanto diversi per collocazione ideologica, continentale ed epocale-, non si riduce, peraltro, ad estesi disegni di completezza nazionale italiana. Nel prosieguo della lettera al «mio caro Melloni», infatti, il leader della repubblica stellata sfodera rapide ma drasticissime polemiche con due imperi destinati, in tempi diversi, al mirino della bruciante vertenzialità mussoliniana: l'austriaco e l'inglese. Dice:
«Due imperi sono indeprecabilmente destinati a scomparire dalla terra, per dar posto all'avvenire, libero e indipendente, delle nazionalità. Ho nominato l'impero britannico e l'impero austriaco, vere incongruenze storiche, o, se più vi piace, veri paradossali mosaici delle più svariate etnografie».
E, in altro luogo della missiva, soggiunge:
«E come non si può giustificare questa ingiustizia, così non si può giustificare quell'altra, pure atroce, che l'Inghilterra commette a danno della povera Irlanda. L'orgoglio della piccola Inghilterra deve essere ridotto alle sue legittime proporzioni, deve essere limitato e compreso nei suoi giusti confini, etnograficamente parlando. Per principio non deve ammettersi l'audace ingordigia di nessun popolo a detrimento degli altri. La vera libertà non esisterà mai se non riconosce a tutti i popoli la propria legittima indipendenza. Che diritto ha l'Inghilterra di appropriarsi Gibilterra e Malta? Non è, questa appropriazione indebita, una giustificazione al diritto del corsaro e del predone? Non si ammette implicitamente con questo fatto che ogni popolo ha diritto a non rispettare la proprietà degli altri? Non si sancisce con ciò che la proprietà è un furto a dispetto delle leggi vigenti dell'ordine?»
Come si vede, Mario Appelius, Virgilio Gayda, Roberto Forges Davanzati, Bruno Spampanato -le grandi firme del propagandismo radiofonico e giornalistico fascista- non avrebbero potuto esprimersi meglio sul conto della «perfida Albione».
Altro vantaggio per l'Asse -stavolta, però, in prò della componente germanica-, emerge dallo scritto del liberatore del popolo negro:
«Circa l'Alsazia Humboldt (? - N.d.R.) vi avrà scritto la mia opinione. In una futura confederazione di stati tedeschi, in una unione ai tedeschi dell'impero distrutto ineluttabilmente, l'Alsazia deve trovarsi necessariamente al proprio posto, perché nulla varrà mai, e poi mai, a giustificare la violenza di un atto quale fu quello di toglierla al paese d'origine per farne, qui pure, un'appropriazione indebita. Allo strazio di questo strappo illegale pianse le più amare lagrime Wolfango Goethe, voi lo ricorderete».
Ma il punto culminante di codesta sorta di mussolinismo avanti lettera il presidente Lincoln lo tocca allorché si lancia in un denso e appassionato panegirico dell'impero romano e della romanità. Attenzione!:
«Io sono convinto che i barbari venuti dalle lontane tundre, i quali, colle invasioni delle loro abominevoli orde, approfittando dello stato di sfacelo morale in cui dibattevasi l'Impero romano, lo hanno predato, manomesso, derubato, annientato, abbiano fatto retrocedere di secoli e secoli la marcia trionfale della vittoria umana sulle vie della coscienza universale dei popoli affratellati. Ci avvicinavamo tutti indistintamente ad essere un solo popolo, una sola famiglia, e, repentinamente, si addensarono sul mondo civile d'allora le tenebre più fitte della più incomposta delle barbarie sulla luce meridiana di Roma immortale ed eterna. Di quella gloriosissima Roma, o illustre amico, che ha dato la civiltà a tutto il globo terrestre, che ci ha persino scoperti, che ci ha creati, redenti, educati, nutriti, moralmente, con le sue leggi indistruttibili. Di quella Roma, ripeto, che dovrà essere, in un periodo di tempo più o meno prossimo, la capitale luminosa degli Stati Uniti d'Europa ...»
Ed ecco il «delenda Britannia» riapparire nell'analisi delle contraddizioni culturali e politiche planetarie degli anni a cavallo fra le due metà dell'Ottocento. Secondo l'estensore del messaggio al patriota Macedonio Melloni, alla predetta Roma «capitale luminosa» del Continente dovrebbe essere assegnato un ruolo di
«contrapposizione alla sistematica distruzione di ogni più fondamentale principio di libera indipendenza che sta facendo e ha fatto sin qui la presuntuosa piccola Inghilterra, la quale domina dispotica, con Malta e Gibilterra, indebitamente appropriate, in un mare nel quale essa avrebbe nulla a che fare e pel quale è sacra l'affermazione di Mare Nostrum della gran madre Roma, vaticinata caput mundi dai tempi antichissimi: Roma-Amor, la città affascinante del più bel sole contro le mene ipocondriache della nebbia ottenebrante. La stessa privilegiata geografica posizione della Città Eterna, in confronto d'ogni altra contrada, ne convalida agli occhi d'ognuno l'augurale vaticinio. Violentare, deviandolo, il corso normale della storia dei popoli, è criminoso!»
Qui, sia pure a sprazzi, fa il suo ingresso nel discorso lincolniano un ulteriore spunto dell'irredentismo italiano collocato a cavaliere fra la seconda metà degli Anni Trenta e la prima metà degli Anni Quaranta: quello attinente a Malta. E così siamo al completo, abbiamo fatto il pieno. Anzi, l'avremmo raggiunta, detta completezza; l'avremmo fatto, questo pieno, se non ci restasse da riferire sull'europeismo di cui si fregia lo scritto del preclaro statista statunitense. Un europeismo che, certo, con l'«Ordine Nuovo» di mussoliniana memoria sembra avere uno stretto rapporto di parentela. E non solo perché intuito, e svolto, in chiave antibritannica. Afferma, dunque, il Lincoln:
«E per addivenire alla costituzione dei futuri Stati Uniti d'Europa è indiscutibile innanzitutto la più assoluta indipendenza politica dell'Italia vostra, nazione indispensabile all'equilibrio stabile del mondo civile... La confederazione universale delle coscienze umane deve trionfare. "L'Europa sarà repubblicana o cosacca", disse Napoleone. Essa non può né deve essere cosacca. La Russia mira alla conquista di Costantinopoli e dell'India per avere l'egemonia del mondo. Ma nessun popolo deve sovrapporsi all'altro per dominarlo... Tutti dobbiamo essere fratelli e nulla più. Gli stretti dei Dardanelli e di Gibilterra devono essere liberi a tutti. E se un giorno si rendesse necessario il taglio dell'Istmo di Suez, per la vita dei popoli, quel passaggio non deve essere l'ingordo privilegio della ingiustizia d'un popolo a danno dell'altro, ma deve usufruire della sua naturale e logica indipendenza».
Sì, certo, c'è in questo pezzo parecchio di un certo Mussolini; quel Mussolini che vanamente, nel corso della guerra, insistette con Hitler perché l'Asse -o, più ampiamente, il Tripartito- contrapponesse alla Carta Atlantica della coalizione anglo-russa-americana una Carta Europea di taglio solidarista e garantista, sociale e paritario.
Ma c'è anche un poco Mazzini, perfino quel Mazzini che più assomiglia al figlio del fabbro di Predappio; ossia il Mazzini troppo poco omogeneo al secolo dei lumi, alla Grande Rivoluzione, destinato a suscitare le ire e ad attirarsi le rampogne del Salvemini. Lincoln ci certifica di ciò, e anche in maggior misura, allorché dichiara:
«La rivoluzione francese ha sancito il diritto dell'uomo, ma ha dimenticato di sancirne i doveri. Essa fu la fucina dei tirannelli più sanguinari e cinici del mondo. I più infami soggetti dell'umano consorzio, affrancati dalle galere, si annobilirono. Il male, da essa scaturito, è più grande del bene che apportò, quantunque quest'ultimo sia stato gonfiato, come un pallone, con tutti gli ossigeni immancabili ...»
Dove è evidente la esasperata, violenta esagerazione della denuncia; tanto è più sorprendente in quanto proveniente da un liberale. Si deve, indubbiamente, a una burla del destino il fatto che toccherà proprio a un successore dell'illustre statista assassinato dagli schiavisti distruggere con centinaia di migliaia di tonnellate di bombe le idee contenute nella testé esaminata lettera a Macedonio Melloni, documento che evidenzia lo spessore e la qualità di un eccezionale, straordinario -comunque lo si voglia giudicare- manifesto politico.
Peraltro, questi ultimi aggettivi da noi adoperati, così marcatamente definitorii, in nulla risultano limitati, compromessi, nella loro portata storica e ideologica, dall'innegabile modestia dello stile espositivo, con ogni probabilità dovuto al non eccelso livello della versione del Mazzini, assolutamente incolpevole visto e considerato che faceva l'apostolo e non il traduttore dall'inglese. Il Lettore si sarà sicuramente reso conto che la non comune importanza del testo su cui ci siamo venuti intrattenendo affonda le radici non solo nell'iniziativa del capo dello Stato nordamericano in quella remotissima era, ma anche, staremmo per dire soprattutto, nel fatto che Giuseppe Mazzini, traducendola e diffondendola, l'abbia fatta sua. E facendola sua abbia fatto in modo che entrasse nel patrimonio culturale e ideale del movimento risorgimentale; in primo luogo della sua ala più progressiva, più avanzata. Insomma, delle correnti democratiche d'avanguardia, di indirizzo popolare-nazionale.
Di ciò potranno meravigliarsi, forse, i repubblicani di oggi, indefettibili propugnatori dell'esatto opposto di quanto emerge dall'epistola-messaggio lincolniana sponsorizzato dall'Insigne Genovese. Meno sorpreso potrebbe rivelarsi chi, per avventura, avesse letto un antico saggio (del 1921) recante il titolo "La filosofia politica di Giuseppe Mazzini", dovuto alla penna di un autorevolissimo studioso, Alessandro Levi, israelita e professore dei fratelli Rosselli all'Università di Siena. In quelle ingiallite pagine, ormai incompulsabili se non nelle maxi-biblioteche statali, c'è il vero, inadulterabile, documentabilissimo Mazzini. Che, guarda caso, sembra, politicamente e dottrinariamente parlando, il fratello gemello -o, addirittura, siamese- di Abramo Lincoln.

 

Enrico Landolfi

 

(1) Fisico (Parma, 1798 - Portici, 1854) professore all'università di Parma dal 1824 al 1831, esulò per motivi politici in Francia, indi a Ginevra. Tornato in Italia, fu invitato a Napoli come professore onorario di fisica, con l'incarico governativo dì istituire l'osservatorio meteorologico del Vesuvio. Perfezionò il termoscopio di Nobili e con l'aiuto di esso pervenne a dimostrare che il calore, al pari della luce, si propaga per irradiazione e anzi, se il calore può esistere senza luce, la luce non lo può senza il calore. Inventò, inoltre, un elettroscopio di grande sensibilità.
È da sempre considerato, oltre che un punto di riferimento essenziale e ineludibile della scienza mondiale, anche un grande patriota molto caro a Giuseppe Mazzini.

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