«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 5 (31 Agosto 1992)

 

La questione meridionale

 


Nessuno si pone oggi il problema se, date le circostanze, la questione meridionale debba essere affrontata nel quadro dello Stato cosiddetto unitario, così come è scaturito dal parto partitocratico: un parto che viene da lontano: dal partito della Corona. Meno sociologia e più storia di come lo Stato unitario ha portato a termine nel Mezzogiorno la questione nazionale. Il Mezzogiorno, secondo me, è legittimato a portare sul tavolo della questione meridionale il problema della legittimità della sovranità nazionale. Il Mezzogiorno: la sua funzione subalterna, il suo stato coloniale all'altra Italia, l'Italia «bene», pone il Mezzogiorno nella condizione di prospettare i suoi problemi in termini di sovranità nazionale, in mancanza della quale anche la democrazia come sovranità popolare si vanifica.
«Cancellando la mia identità, in termini di sovranità mi autorizzi a cancellare la tua sovranità».
Dalla storiografia italiana questo problema è sparito. La storiografia in Italia si occupa dei partiti, dei movimenti, quello cattolico, quello operaio; ma la storia concreto soggetto «stato unitario italiano» è assente dal dibattito culturale, è lontana dall'attenzione della pubblica opinione. La questione nazionale, il consenso unitario allo Stato, sembrano, in Italia, dati acquisiti definitivamente, naturali, irrevocabili. Non è così.

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È vero: in Italia non c'è l'estraneità che divide, ad esempio, in Spagna, baschi e catalani. Non abbiamo qui da noi le rivendicazioni occitane, corse, bretoni. Non esiste fra noi una frattura simile a quella che divide fiamminghi e valloni. Perché? E fino a quando? Una cosa è certa, è un fatto: le due Italie, una subalterna all'altra, esistono, vivono; sono sempre esistite nello Stato unitario italiano: dall'Italia monarco-liberale allo Stato repubblicano partitocratico odierno. Tutte le forme di egemonia politica, che si sono manifestate all'interno dello Stato italiano dall'unità ad oggi come «regime», portano con sé il nesso Stato-partito. Ora, il carattere di partito dello Stato, l'uso partitico dello Stato, e la condizione statale di un partito (il partito della corona, la DC partito delle istituzioni), è proprio la questione meridionale che lo consente, ne è la condizione essenziale. Il diverso status politico del Sud rispetto al Nord, il colonialismo interno, che è alla base dei rapporti tra le due parti d'Italia, fa sì che, in Italia, non si superi la figura dello Stato-partito.

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Fateci caso: il Mezzogiorno ha sempre consentito il riprodursi del partito del potere centrale, appunto per il suo carattere subalterno e subordinalo rispetto alla zona egemone del Paese.
«Ti tengo sotto, in modo che tu sia costretto a bussare all'uscio del potente, alla porta del Palazzo. Io ti do l'elemosina, e tu mi dai la tua coscienza, il tuo consenso, il tuo voto... Questo: il patto. Consentendo il tuo sviluppo autonomo, ciò non sarebbe più possibile. Devi restare servo».
È il discorso, in termini brutali, che la zona egemone del Paese fa alla zona subalterna, colonizzata.

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II Mezzogiorno non è mai stato all'opposizione. Quando c'è opposizione è per lo spazio di un mattino. Avviene solo perché il Mezzogiorno non ha ancora afferrato bene chi è il nuovo «padrone» modellato a Roma e al Nord. Però, con lo scarto di una elezione, il Mezzogiorno rimette le cose a posto, e si adegua al padrone. E così che il «padrone modellato al Nord», il partito-Stato, è sicuro di riprodursi. Può perdere i voti al Nord? Nessuna paura, il colpo può essere tranquillamente incassato perché si recupera nel Mezzogiorno, c'è il concorso coloniale che ristabilisce l'equilibrio.
Ciò non sarebbe possibile se il Mezzogiorno, anziché colonia, fosse coscienza libera, riscatto, libertà.

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Ed è in quest'ottica che anche i fenomeni della mafia e della camorra debbono essere esaminati. Lasciarli nell'area esclusiva della criminalità, è un errore, prima che politico, culturale.
Vi sono milioni di Italiani nel Mezzogiorno che si sentono estranei a messaggi che questo Stato-partito invia loro. È uno Stato, perché partito, nemico. Per gente come questa, Pupetta Maresca è Anita Garibaldi, Raffaele Cutolo è Napoleone. Chi ha permesso alla mafia e alla camorra di costruirsi, presso la gente, un volto presentabile, di avere nella società civile un'egemonia, tale da presentarsi pubblicamente in competizioni elettorali, e vincerle? (Comune di Quindici).
Lo Stato-partito, le due Italie, il regno feudale del Sud che vive ancora in mezzo a noi, ha potenza moderna nell'età post-industriale... Mafia e camorra che diventano un vero e proprio volano di crescita economica...

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L'idea, dunque, di uno sviluppo autonomo del Mezzogiorno non è pensabile, non è credibile nell'attuale contesto dello stato italiano, perché un Mezzogiorno autonomo contraddice la figura politica dello Stato-partito che fonda proprio la sua unità sulla mancanza di alternativa per il Mezzogiorno. È la forza della DC. Il Mezzogiorno deve restare così: altrimenti dove prenderli i voti?
Il problema del Mezzogiorno è il problema dei rapporti dell'Italia con il mondo mediterraneo, di cui il Mezzogiorno è solo frontiera senza significato. Ma come è possibile un intervento nel Mezzogiorno, nel bacino mediterraneo e in Africa, quando la classe dirigente romana e americanizzata estende anche a quest'area l'atlantismo cieco di cui è portatrice, senza intelligenza, fra l'altro, e senza fantasia?

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La scelta è l'attuale «andazzo». «Siamo il partito di larga maggioranza relativa al Sud e intendiamo restarlo», dice De Mita ai quadri meridionali. «I soldi ai meridionali, siano essi assistenza o investimenti, sono voti», dice il DC Carollo, Vice Presidente del Gruppo parlamentare al Senato. «Il Mezzogiorno era e resta il crocevia del nostro successo o del nostro fallimento storico», dice Emilio Colombo.
È la scelta colonizzatrice, il mio potere sul Mezzogiorno consente la riproduzione del partito-Stato. Una scelta è questa: restare in questa melma. A gestire le briciole del banchetto.
O uscirne, contestando, dal Mezzogiorno, la legittimità di questo Stato. In termini di sovranità nazionale. Non ci può essere sovranità nazionale dove esistono due Italie, una delle quali colonizzata. Per una nuova Italia, Mezzogiorno protagonista.

 

Giuseppe Niccolai


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Le note di Niccolai ci furono inviate nel novembre 1989 (pubblicate su «L'Eco della Versilia» del 30.11.1989, n. 7-8-9), dal dott. prof. Gaetano Catalano con questa lettera:


Caro Carli,
la scomparsa di un amico fraterno e di un commilitone tanto esemplare, quale Beppe Niccolai, lascia nel mio animo un vuoto incolmabile e voglio cullarmi nell'illusione, che per me è certezza, che il Suo spirito sarà sempre presente a proteggere le insegne della nostra causa.
Con Niccolai avevo la consuetudine di proseguire le nostre conversazioni per iscritto. Amavamo, infatti, riprendere quel costume, ormai smarrito, degli incontri epistolari. E tu ben lo sai, perché molte mie lettere sono finite per iniziativa di Niccolai proprio sulle colonne de "L'Eco della Versilia". Restano però ignorate, perché da me gelosamente custodite, le Sue risposte, nelle quali rifulgono le doti del Suo grande ingegno e della Sua non meno apprezzabile modestia.
Desidero farti conoscere la penultima che mi ha scritto. Mi diceva: «... ho ripensato alla tua lettera. Ti allego una nota sul problema del Mezzogiorno. Ascoltami: un tuo giudizio -se è negativo cestina il tutto-; se c'è qualcosa, una preghiera: forniscimi una possibile bibliografia sull'argomento. Ripeto: se c'è qualcosa di valido io penso che si possa costruire una politica. Nessuno meglio di te può aiutare alla bisogna. Tante cose care e grazie,
Giuseppe Niccolai»

È una traccia preziosa quella disegnata con tanta lucidità da Niccolai sulla quale è necessario meditare anche in senso critico. Il mio giudizio fu dettagliato e largamente positivo.
Sarebbe forse opportuno che il battagliero periodico che tu dirigi gli desse spazio anche per onorarne il ricordo. Un cordiale saluto.
Tuo,

Gaetano Catalano
 

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Oggi, come ieri, la «questione meridionale» è sempre più attuale. Perché, Amici del Sud, non apriamo un dibattito sull'Unità d'Italia, sul Risorgimento, sulla colonizzazione del Meridione che dura ormai da 130 anni? La traccia ce la fornisce Beppe...

 

Le nostre leggi, quelle odierne, le italiane, così stravaganti nel dettato, così stolide del concetto, tanto povere d'umanità, son le medesime leggi che governavano il Piemonte, e che i «vincitori» imposero con le buone o con le cattive a tutto il resto d'Italia, anche dove vigeva un'ottima amministrazione e un giure assennato ed equo, come, per fare un esempio, in Toscana e nel Lombardo-Veneto.
Ebbene, allorché una ruota del carro italiano oggi stride, se s'impunta, se le leggi appaiono meschine, pignole, per così dire, tormentatrici, leggi tutte tramandate dai piemontesi, che le rifecero rozzamente, caporalescamente anzi, dai codici francesi, ecco che chi scrive di politica o di storia, su riviste magari o quotidiani, se n'esce fuori con le «leggi borboniche». Ma quali leggi borboniche? Le leggi napoletane erano ottime, tanto che nel 1852 Napoleone III mandò a Napoli una speciale commissione di alti funzionari perché studiassero la bontà delle nostre leggi.
Ma la gente, il popolo, i signori e i poveri diavoli del resto d'Italia, che pensavano dell'unità e dell'occupazione? I lombardi, liberi dall'Austria, gli emiliani e i romagnoli, liberi dal papa e dall'austriaco insieme, non se la presero troppo calda. Quanto ai toscani... Be', i piemontesi restavan per loro quello che sempre eran stati: razza barbara, ma discreta... Un po' pignoli, un po' militaristi, ma non si può aver tutto. Li sopportarono, come avevano sopportato i Lorena. Sentiamo quel che ci dice l'Alessandro Foresi, dieci anni dopo, quando, strappata Roma alla tirannide clericale, la capitale viene trasportata da Firenze all'eterna Città: «Ah! Finalmente a Firenze si respira! E respirerebbe con tutti i lobi dei suoi polmoni, se certi messeri d'oltre Appennino, pieni pinzi di presunzione e di ciucaggine, mali appiccicaticci come la peste, se ne fossero iti tutti a farsi benedire. E se ne andranno, e presto, col cartellaccio sul groppone: "A rotta di collo!". E andati che se ne siano, vedremo la città dell'Alighieri e del Burchiello riprendere la sua rallegratura vivace... Allora mi darò pace e mi adatterò a tutto, purché non s'odan più le voci dure e i modi di dire spropositati di tanti dottori Balanzoni d'oltre Appennino, né il ciao, né il cerea dei novelli Lacedemoni d'Italia. Fuori dunque i cannelloni e le pappardelle, giù la busecca. Ciao, signori miei, ciao per l'ultima volta e vento in poppa.

«Ite sul colle, o Druidi»

e scendetelo presto; ma badate dove mettete i piedi per non fiaccarvi il collo».
L'augurio, anzi il malaugurio non poteva essere più esplicito.


C. Alianello, "La Conquista del Sud", Rusconi Editore, Milano, 1972

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