«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 6 - 7 (31 Ottobre 1992)

 

Meridionali, «vil razza dannata»

 


Ero d'accordo con Antonio Carli di scrivere d'altro. Volevo toccare il tasto della crisi di Craxi e del suo partito. Lo ritengo un atto dovuto perché, ai tempi di Sigonella, Craxi mi ha fatto sperare. Ma, si sa, chi di speranza vive... Leggendo l'editoriale del direttore di "Tabula Rasa", sull'ultimo numero, ho mutato rotta.
Discutere del Sud e delle sue problematiche non si può sulle pagine di una rivista: lo spazio è tiranno. Si potrebbe dibattere in un convegno -e qui lancio una proposta- da svolgere in una città al di sotto di Roma. Antonio Carli rivolge, in quell'editoriale, un appello al Sud. Toccante, come sa essere la generosità di chi si sente italiano e si rivolge non a un pezzo separato ma alla carne e al sangue di un popolo che sente suo.
Io sono meridionale «da sette generazioni» anche se l'Istituto Araldico fa discendere la mia progenie da ceppi teutonici. Ci credo poco: la mia «razza» non è nibelungica; ci sono capelli biondi e occhi color mare ma la statura è saracena. Son figlio della mia terra che nel cammino dei secoli s'è vista attraversata da Illiri, Greci, Romani (che non sono «italiani»), Cartaginesi, Bizantini, Longobardi, Franchi, Turchi, Normanni, Angioini, Aragonesi eccetera.
Bastardo? Come tutti gli italiani. Quelli del Nord e quelli del Sud. È per questo che quando sento parlare di «razza italiana», quando leggo di leggi «a protezione della razza», quando odo supposte «supremazie biologiche» mi viene da ridere. Pur se c'è stata tragedia per queste cose, di cui dobbiamo, «noi», sentire tutto il peso della colpa. Ma questo è un altro discorso. Quello che è da fare è un «mea culpa» generale. Per ricominciare, se vogliamo. O prendiamo coscienza dei nostri errori o resteremo vittime del destino che noi ci siamo dati. La responsabilità di chi ci ha governato è immensa ma noi non siamo solo vittime. Siamo complici. Qui non serve scandalizzarsi né aggrapparsi alle guglie dei «campanili».
Dovremo ripercorrere tutta la nostra storia; imprecare contro il risorgimento, che, se instillò speranze in anime candide e in buona fede, fu una gigantesca e truffaldina operazione di conquista, architettata dalla massoneria, auspici i Garibaldi e i Mazzini, che sono venerati perché vincitori. Se avessero perso, sarebbero stati oggi come quelli che persero ieri. È la solita solfa: chi vince, scrive la storia.
Anche al fascismo va mosso qualche appunto. Basta leggere "Taccuini mussoliniani" di Yvon de Begnac, nel capitolo "I capitani del Sud". Gennaro Villelli, siciliano, Giuseppe Attilio Fanelli, pugliese, Aurelio Padovani, campano, i «capitani del Sud», chiedevano a Mussolini rivoluzione per risolvere l'annosa «questione meridionale». Annientamento dei «galantuomini», i tanti «Calogero Sedara» di gattopardesca memoria, borbonici e poi sabaudi, giolittiani e poi fascisti. Mussolini accantonò i «capitani» e disse (Roma, Teatro Reale dell'Opera, 10 marzo 1929): «Per il regime fascista, nord e sud non esistono: esiste l'Italia e il popolo italiano». Vero, verissimo ma qui, al Sud, continuò a comandare la borghesia latifondista, che aveva dismesso il panciotto di foggia giolittiana per indossare la camicia nera di seta.
Quel che scrive Ignazio Silone in «Fontamara», qui è successo davvero. Non prendiamoci in giro. Si obietterà: ma le bonifiche, «portar l'acqua sposa al sole» (Rauti - Sermonti, "Fascismo e Mezzogiorno"). Vero anche questo ma a comandare e ad ubbidire furono sempre i soliti. Conosco la storia: sono d'estrazione contadina, io.
E dopo la guerra perduta i soliti «Soliti» continuarono: chi a comandare e chi a ubbidire. Prima i democristiani, poi i socialisti, poi i due insieme. Con i comunisti. Bari, Teatro Petruzzelli, Anno di Grazia 1946. Verso la fine. Si esibisce la compagnia di Enrico Viarisio e Wanda Osiris. Attori che calcano le scene. «Quanti sono gli italiani -chiede uno all'altro- dopo la seconda guerra mondiale?» Risposta: «Sempre quarantacinque milioni». «Tu sei ignorante -rimbecca l'altro- sono novanta milioni». «Ma come è possibile?» riprende il primo. «Quarantacinque milioni di fascisti, prima -ribatte il secondo- e altrettanti antifascisti dopo fa novanta». La matematica non è un'opinione. E la morale della favola s'intuisce.
Oggi, in piena crisi economica che ci spezzerà la schiena, tutti urlano. Ma non tutti hanno diritto di protesta. Perché quest'accozzaglia di farabutti ce l'abbiamo mandata noi, al governo e in parlamento. Sì, noi, noi tutti. Perché anche noi, che abbiamo creduto di essere «alternativi al sistema», nel 90% dei casi abbiamo insediato degli autentici mascalzoni. Che hanno fatto affari come gli altri. Se meno degli altri, è stato perché le possibilità sono state minori. Ligresti era «di casa» a casa di qualcuno col quale siamo stati conviviali per anni. Se questo avveniva a Milano, a Bari (vero, Tatarella?), a Napoli (vero, Abbatangelo?), a Reggio Calabria (vero, Valensise?), a Palermo (vero, Tricoli?) avveniva di peggio.
La questione morale nazionale è la sommatoria delle questioni morali dei partiti. Tutti, e nessuno escluso.
E per quanto ci riguarda come meridionali, facciamola finita con un vittimismo vergognoso. E schifoso. I Signori delle Tessere hanno un torto solo: non aver fatto peggio di quello che hanno fatto. Tanto, son stati sempre più che gratificati. Perché non si può far finta che costoro siano calati su questa terra provenienti dalle profondità siderali extra-galattiche. Questo ciarpame è stato concepito, sgravato, allevato, svezzato, e portato all'ingrasso dalla maggior parte del popolo italiano.
Catalogare tutti i misfatti di questa classe politica è fatica sovrumana. Ma se non ci sforzeremo di capire, perderemo il senso del processo in atto. E per comprendere, dobbiamo porci delle domande. Chi ha usufruito delle pensioni d'invalidità fasulla, irrorate a pioggia su un Sud sempre più democristiano e socialista, se non coloro i quali ripagavano gli anfitrioni di «scudo e garofano» con messi di voti?
Chi ha incamerato le «provvidenze» della Legge 219, quella famosa del terremoto, che è costata all'Erario l'astronomica somma di sessantamila miliardi? Quali sono i collegi elettorali di Gava, De Mita, De Lorenzo, il «Bruto» Mastella, Pomicino e la «famiglia napoletana»?
Bisognerebbe essere meridionali, vivere e avere dimestichezza con le faccende del Sud per conoscere quale livello di degrado si è raggiunto nelle zone a mezzogiorno del Garigliano.
Noi, i meridionali, siamo colpevoli del nostro stato. Non chiedemmo ai «Padroni delle Ferriere» perché distruggevano una delle zone più floride dell'agricoltura meridionale, dove fiorisce il bergamotto, per impiantarci il 5° Centro Siderurgico di Gioia Tauro, uno dei più grandi aborti di regime.
Noi, i meridionali, non domandavamo perché veniva stravolta l'economia del Sud per costruire altre «cattedrali nel deserto» di Bagnoli e di Taranto.
Noi, i meridionali, non abbiamo mai mosso un dito contro le colate di cemento che deturpavano le nostre spiagge, spiantavano le nostre foreste, lordavano la nostra natura facendoci violenza. Non solo, ma abbiamo fatto di peggio. Abbiamo approfittato. Ci siamo ingrassati con le agevolazioni dei crediti agrari, che ci permettevano l'acquisizione di prestiti a tasso «politico», concessici con l'intermediazione dei sensali di regime, per poi investirli in BOT e CCT, lucrando denaro, che veniva così sottratto dalle tasche dei lavoratori a reddito fisso, i quali, a loro volta, con furbesco assenteismo, facevano finta di lavorare, stuprando i doveri e concupiscendo i diritti.
Si dovrà pur scrivere, un giorno, la storia dei fondi d'integrazione sull'olio, sul grano, sulle vigne e su tutti i prodotti che Madre Natura fa allignare dalle nostre parti. E dietro ognuno di essi si nasconde una storia poco pulita.
A noi manca un Di Pietro? Anche questo è un alibi di comodo che va finalmente smontato. A noi, i meridionali, manca il coraggio di andare a un «di pietro» qualsiasi a raccontare quello che ognuno sa, perché per il Sud vige l'antica legge del «una parola in meno e ritirati in casa».
Non abbiamo attenuanti: i Moro, che si circondavano di grandi contrabbandieri, gli Andreotti, amici di Salvo Lima, i Mannino «compari d'anello» ai matrimoni dei Caruana, i Signorile, che arruolarono i Rocco Trane, sono figli del nostro Meridione. Hanno commesso quel che hanno compiuto con il mandato di coorti di clientes, i quali contraccambiavano con caterve di voti, ciò che veniva loro permesso.
Nella solita folle rincorsa a stupidi luoghi comuni, si potrebbe controbattere che anche il Nord ha avuto i suoi Teardo, i suoi Mariuolo Chiesa, i suoi Mongini. Ma il Nord ha saputo reagire. Scomposta per quanto si voglia, le genti del Nord hanno trovato la reazione di inventare un Bossi. Reazione sconsiderata, ormai, alle soglie della secessione, pericolosissima. Ma pur sempre reazione anche se pessimo soggetto, Bossi. Sempre peggiore, ogni giorno di più. In combutta con quell'essere che è Miglio, che per un certo tempo è stato il riferimento «culturale» di Pinuccio Tatarella, innamoratosi della «Scuola di Milano», mentre faceva affari (a sentire il senatore Tommaso Mitrotti) con l'altrettanto senatore Putignano, gaudente delle Partecipazioni Statali, del PSI. Eccolo il secolare trasversalismo del Sud. Giolitti, «ministro di malavita», nacque al Nord ma prolificò al Sud. Copiosamente.
Leggo ("L'Indipendente", 1.10.1992) quel che scrive Tonino Kornas: «E allora in ogni comune d'Italia devono nascere dei movimenti antagonisti ai partiti di regime che abbiano come unico scopo lo sviluppo e il benessere delle proprie comunità». Nobili parole ma per il Sud è presto. Qui la gente continua a rimpinzarsi l'epa croia. Non si fa la rivoluzione a pancia piena. Qui la gente non si rende ancora conto di quel ch'è stato e quel che sarà. Protestano a voce forte, i servi, ma vanno ai cortei della Triplice Sindacale. Quella che ha illuso i contadini trasformandoli in operai ed ora non abbiamo più fabbriche mentre le campagne sono immiserite e deserte. Le popolazioni meridionali devono sbattere il grugno nella merda (scusate, ma i tempi son da lupi!), devono «bere nell'amaro calice fino alla feccia. Solo toccando il fondo si può risalire fino alle stelle».
Non siamo ancora al fondo, pur se riprendono attualità i versi di Ferdinando Russo, poeta di Napoli:
«Ccà stammo tuttuquante int' 'o spitale! Tenimmo tutte 'a stessa malatia! Simmo rummase tutte mmiezo 'e scale, fora 'a lucanna a" 'a Pezzentaria! Che me vuò di'? Ca simmo libberale? E addò l'appuoie, sta sbafantaria? Quannofìglieto chiagne e ve' magna, cerca int' 'a sacca... e dalle 'a libbertà!»
 

Vito Errico

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