Meridionali, «vil razza
dannata»
Ero d'accordo con Antonio Carli di scrivere d'altro. Volevo toccare il tasto
della crisi di Craxi e del suo partito. Lo ritengo un atto dovuto perché, ai
tempi di Sigonella, Craxi mi ha fatto sperare. Ma, si sa, chi di speranza
vive... Leggendo l'editoriale del direttore di "Tabula Rasa", sull'ultimo
numero, ho mutato rotta.
Discutere del Sud e delle sue problematiche non si può sulle pagine di una
rivista: lo spazio è tiranno. Si potrebbe dibattere in un convegno -e qui lancio
una proposta- da svolgere in una città al di sotto di Roma. Antonio Carli
rivolge, in quell'editoriale, un appello al Sud. Toccante, come sa essere la
generosità di chi si sente italiano e si rivolge non a un pezzo separato ma alla
carne e al sangue di un popolo che sente suo.
Io sono meridionale «da sette generazioni» anche se l'Istituto Araldico fa
discendere la mia progenie da ceppi teutonici. Ci credo poco: la mia «razza» non
è nibelungica; ci sono capelli biondi e occhi color mare ma la statura è
saracena. Son figlio della mia terra che nel cammino dei secoli s'è vista
attraversata da Illiri, Greci, Romani (che non sono «italiani»), Cartaginesi,
Bizantini, Longobardi, Franchi, Turchi, Normanni, Angioini, Aragonesi eccetera.
Bastardo? Come tutti gli italiani. Quelli del Nord e quelli del Sud. È per
questo che quando sento parlare di «razza italiana», quando leggo di leggi «a
protezione della razza», quando odo supposte «supremazie biologiche» mi viene da
ridere. Pur se c'è stata tragedia per queste cose, di cui dobbiamo, «noi»,
sentire tutto il peso della colpa. Ma questo è un altro discorso. Quello che è
da fare è un «mea culpa» generale. Per ricominciare, se vogliamo. O prendiamo
coscienza dei nostri errori o resteremo vittime del destino che noi ci siamo
dati. La responsabilità di chi ci ha governato è immensa ma noi non siamo solo
vittime. Siamo complici. Qui non serve scandalizzarsi né aggrapparsi alle guglie
dei «campanili».
Dovremo ripercorrere tutta la nostra storia; imprecare contro il risorgimento,
che, se instillò speranze in anime candide e in buona fede, fu una gigantesca e
truffaldina operazione di conquista, architettata dalla massoneria, auspici i
Garibaldi e i Mazzini, che sono venerati perché vincitori. Se avessero perso,
sarebbero stati oggi come quelli che persero ieri. È la solita solfa: chi vince,
scrive la storia.
Anche al fascismo va mosso qualche appunto. Basta leggere "Taccuini
mussoliniani" di Yvon de Begnac, nel capitolo "I capitani del Sud". Gennaro
Villelli, siciliano, Giuseppe Attilio Fanelli, pugliese, Aurelio Padovani,
campano, i «capitani del Sud», chiedevano a Mussolini rivoluzione per risolvere
l'annosa «questione meridionale». Annientamento dei «galantuomini», i tanti
«Calogero Sedara» di gattopardesca memoria, borbonici e poi sabaudi, giolittiani
e poi fascisti. Mussolini accantonò i «capitani» e disse (Roma, Teatro Reale
dell'Opera, 10 marzo 1929): «Per il regime fascista, nord e sud non esistono:
esiste l'Italia e il popolo italiano». Vero, verissimo ma qui, al Sud, continuò
a comandare la borghesia latifondista, che aveva dismesso il panciotto di foggia
giolittiana per indossare la camicia nera di seta.
Quel che scrive Ignazio Silone in «Fontamara», qui è successo davvero. Non
prendiamoci in giro. Si obietterà: ma le bonifiche, «portar l'acqua sposa al
sole» (Rauti - Sermonti, "Fascismo e Mezzogiorno"). Vero anche questo ma a
comandare e ad ubbidire furono sempre i soliti. Conosco la storia: sono
d'estrazione contadina, io.
E dopo la guerra perduta i soliti «Soliti» continuarono: chi a comandare e chi a
ubbidire. Prima i democristiani, poi i socialisti, poi i due insieme. Con i
comunisti. Bari, Teatro Petruzzelli, Anno di Grazia 1946. Verso la fine. Si
esibisce la compagnia di Enrico Viarisio e Wanda Osiris. Attori che calcano le
scene. «Quanti sono gli italiani -chiede uno all'altro- dopo la seconda guerra
mondiale?» Risposta: «Sempre quarantacinque milioni». «Tu sei ignorante
-rimbecca l'altro- sono novanta milioni». «Ma come è possibile?» riprende il
primo. «Quarantacinque milioni di fascisti, prima -ribatte il secondo- e
altrettanti antifascisti dopo fa novanta». La matematica non è un'opinione. E la
morale della favola s'intuisce.
Oggi, in piena crisi economica che ci spezzerà la schiena, tutti urlano. Ma non
tutti hanno diritto di protesta. Perché quest'accozzaglia di farabutti ce
l'abbiamo mandata noi, al governo e in parlamento. Sì, noi, noi tutti. Perché
anche noi, che abbiamo creduto di essere «alternativi al sistema», nel 90% dei
casi abbiamo insediato degli autentici mascalzoni. Che hanno fatto affari come
gli altri. Se meno degli altri, è stato perché le possibilità sono state minori.
Ligresti era «di casa» a casa di qualcuno col quale siamo stati conviviali per
anni. Se questo avveniva a Milano, a Bari (vero, Tatarella?), a Napoli (vero,
Abbatangelo?), a Reggio Calabria (vero, Valensise?), a Palermo (vero, Tricoli?)
avveniva di peggio.
La questione morale nazionale è la sommatoria delle questioni morali dei
partiti. Tutti, e nessuno escluso.
E per quanto ci riguarda come meridionali, facciamola finita con un vittimismo
vergognoso. E schifoso. I Signori delle Tessere hanno un torto solo: non aver
fatto peggio di quello che hanno fatto. Tanto, son stati sempre più che
gratificati. Perché non si può far finta che costoro siano calati su questa
terra provenienti dalle profondità siderali extra-galattiche. Questo ciarpame è
stato concepito, sgravato, allevato, svezzato, e portato all'ingrasso dalla
maggior parte del popolo italiano.
Catalogare tutti i misfatti di questa classe politica è fatica sovrumana. Ma se
non ci sforzeremo di capire, perderemo il senso del processo in atto. E per
comprendere, dobbiamo porci delle domande. Chi ha usufruito delle pensioni
d'invalidità fasulla, irrorate a pioggia su un Sud sempre più democristiano e
socialista, se non coloro i quali ripagavano gli anfitrioni di «scudo e
garofano» con messi di voti?
Chi ha incamerato le «provvidenze» della Legge 219, quella famosa del terremoto,
che è costata all'Erario l'astronomica somma di sessantamila miliardi? Quali
sono i collegi elettorali di Gava, De Mita, De Lorenzo, il «Bruto» Mastella,
Pomicino e la «famiglia napoletana»?
Bisognerebbe essere meridionali, vivere e avere dimestichezza con le faccende
del Sud per conoscere quale livello di degrado si è raggiunto nelle zone a
mezzogiorno del Garigliano.
Noi, i meridionali, siamo colpevoli del nostro stato. Non chiedemmo ai «Padroni
delle Ferriere» perché distruggevano una delle zone più floride dell'agricoltura
meridionale, dove fiorisce il bergamotto, per impiantarci il 5° Centro
Siderurgico di Gioia Tauro, uno dei più grandi aborti di regime.
Noi, i meridionali, non domandavamo perché veniva stravolta l'economia del Sud
per costruire altre «cattedrali nel deserto» di Bagnoli e di Taranto.
Noi, i meridionali, non abbiamo mai mosso un dito contro le colate di cemento
che deturpavano le nostre spiagge, spiantavano le nostre foreste, lordavano la
nostra natura facendoci violenza. Non solo, ma abbiamo fatto di peggio. Abbiamo
approfittato. Ci siamo ingrassati con le agevolazioni dei crediti agrari, che ci
permettevano l'acquisizione di prestiti a tasso «politico», concessici con
l'intermediazione dei sensali di regime, per poi investirli in BOT e CCT,
lucrando denaro, che veniva così sottratto dalle tasche dei lavoratori a reddito
fisso, i quali, a loro volta, con furbesco assenteismo, facevano finta di
lavorare, stuprando i doveri e concupiscendo i diritti.
Si dovrà pur scrivere, un giorno, la storia dei fondi d'integrazione sull'olio,
sul grano, sulle vigne e su tutti i prodotti che Madre Natura fa allignare dalle
nostre parti. E dietro ognuno di essi si nasconde una storia poco pulita.
A noi manca un Di Pietro? Anche questo è un alibi di comodo che va finalmente
smontato. A noi, i meridionali, manca il coraggio di andare a un «di pietro»
qualsiasi a raccontare quello che ognuno sa, perché per il Sud vige l'antica
legge del «una parola in meno e ritirati in casa».
Non abbiamo attenuanti: i Moro, che si circondavano di grandi contrabbandieri,
gli Andreotti, amici di Salvo Lima, i Mannino «compari d'anello» ai matrimoni
dei Caruana, i Signorile, che arruolarono i Rocco Trane, sono figli del nostro
Meridione. Hanno commesso quel che hanno compiuto con il mandato di coorti di
clientes, i quali contraccambiavano con caterve di voti, ciò che veniva loro
permesso.
Nella solita folle rincorsa a stupidi luoghi comuni, si potrebbe controbattere
che anche il Nord ha avuto i suoi Teardo, i suoi Mariuolo Chiesa, i suoi
Mongini. Ma il Nord ha saputo reagire. Scomposta per quanto si voglia, le genti
del Nord hanno trovato la reazione di inventare un Bossi. Reazione sconsiderata,
ormai, alle soglie della secessione, pericolosissima. Ma pur sempre reazione
anche se pessimo soggetto, Bossi. Sempre peggiore, ogni giorno di più. In
combutta con quell'essere che è Miglio, che per un certo tempo è stato il
riferimento «culturale» di Pinuccio Tatarella, innamoratosi della «Scuola di
Milano», mentre faceva affari (a sentire il senatore Tommaso Mitrotti) con
l'altrettanto senatore Putignano, gaudente delle Partecipazioni Statali, del
PSI. Eccolo il secolare trasversalismo del Sud. Giolitti, «ministro di
malavita», nacque al Nord ma prolificò al Sud. Copiosamente.
Leggo ("L'Indipendente", 1.10.1992) quel che scrive Tonino Kornas: «E allora in
ogni comune d'Italia devono nascere dei movimenti antagonisti ai partiti di
regime che abbiano come unico scopo lo sviluppo e il benessere delle proprie
comunità». Nobili parole ma per il Sud è presto. Qui la gente continua a
rimpinzarsi l'epa croia. Non si fa la rivoluzione a pancia piena. Qui la gente
non si rende ancora conto di quel ch'è stato e quel che sarà. Protestano a voce
forte, i servi, ma vanno ai cortei della Triplice Sindacale. Quella che ha
illuso i contadini trasformandoli in operai ed ora non abbiamo più fabbriche
mentre le campagne sono immiserite e deserte. Le popolazioni meridionali devono
sbattere il grugno nella merda (scusate, ma i tempi son da lupi!), devono «bere
nell'amaro calice fino alla feccia. Solo toccando il fondo si può risalire fino
alle stelle».
Non siamo ancora al fondo, pur se riprendono attualità i versi di Ferdinando
Russo, poeta di Napoli:
«Ccà stammo tuttuquante int' 'o spitale! Tenimmo tutte 'a stessa malatia! Simmo
rummase tutte mmiezo 'e scale, fora 'a lucanna a" 'a Pezzentaria! Che me vuò
di'? Ca simmo libberale? E addò l'appuoie, sta sbafantaria? Quannofìglieto
chiagne e ve' magna, cerca int' 'a sacca... e dalle 'a libbertà!»
Vito
Errico
|