Il nuovo
È difficile fare sociologia, è
difficile fare filosofia. Forse è più facile fare «estetica». È più facile oggi
-nell'Anno del Signore del dopo muro di Berlino- fare «estetica» in riferimento
alla condizione del «nuovo». Cioè, interpretare il passaggio ulteriore della
modernità che si spiega nella «costruzione» dell'accadere contemporaneo. Secondo
una semplificazione da «pane quotidiano», lo schema del linearismo storicista,
l'Occidente ha concluso un ciclo epocale. Un tonfo, secondo alcuni. Un
accomodamento della comoda coltre giudaico-cristiana, secondo altri. Una
tragedia infine per chi considera il divenire come una cesura di «infinità»,
moduli di continua «infinità»; una «conditio» d'abbandono in «infinità» rispetto
alla purezza dell'antico. Mi sembra di ricordare fosse di Kracauer questa
provocazione: «destare il mondo dal suo sogno».
Ma in giro si vedono i ciucciotti. Cioè i ciucciotti di plastica che vengono
portati al collo accanto alle madonnine e ai crocefissi. Sono i feticci della
cultura trasversale fondata sull'accordo tra le bancarelle di strada e le
vetrine di Via della Spiga. «Feticci assoluti», si vedono anche in un'altra
versione: come orecchini, come addobbi per le automobili. Hanno sostituito
l'eterno vecchio cane pastore di pezza Italy's boom-style (quello che
occhieggiava dalle millecento, con la lingua penzoloni e la testa mobile). In un
certo senso i ciucciotti sono il «nuovo». Sono il compimento del saltello
triadico dell'ermeneutica nicciana-heideggeriana: volontà di potenza, volontà di
volontà, volontà di verità. Molto più di un simbolo: il nuovo in sé.
Voglio spiegare meglio questa formulazione per evitare equivoci: quando la
mattina del suo bel tempo che fu, Giulio Cesare si svegliava fra le lenzuola di
casa sua, non era «nuovo» rispetto alla sua giornata, non era più «nuovo»
rispetto a Sempronio o a Cracchius, era più semplicemente contemporaneo al suo
tempo, aveva altresì una completa adesione alla «materialità» del suo essere in
vita.
La condizione del «nuovo» invece, e quindi la cesura tragica, la disarmonia, con
la «materialità», è una caratteristica assolutamente post-moderna. Assolutamente
nostra. Molto più di un simbolo, quindi, ma per carità, sia ben chiaro: molto
più di un aggettivo. Una verità dispiegarsi sul suolo di una modernità
frantumata sull'esistenziale.
Dalle chiese d'Europa si avverte il suono gracchiante di campane aggiornate ai
transistors, si ascolta la preghiera sulla pallida luce delle false candele
accese di timida elettricità: il tutto per giustificare in ritardo l'ex novo
dell'Essere.
Il nuovo si spalma sulle fette del divenire, quindi accade un codice inedito per
la sociologia, la filosofia, l'estetica, ma ancor di più si offre sull'altare
della politica l'alfabeto per le ricognizioni di «confine». Il gioco della
dialettica -sempre che sia vero il motto hegeliano del «peregrinare della
coscienza borghese»- vuole oggi, nell'Anno del Signore del dopo Muro, la sua
conclusione.
Con i ciucciotti è finito l'«epoco» della democrazia. A maggior ragione in
Italia, terra della «molta storia», culla di tanta cristianità dispersa a
bizzeffe nel temporalismo clerico-sagrestale, laboratorio del peggiore
conformismo comunista, si ascolta il delirio di un sistema che rantola su
promesse patetiche di «risanamente», «rifondazione», «solidità», «solidarismo
popolare».
Svegliarsi la mattina, e sapere che tantissima gente è convinta del proprio
ruolo di «consigliere comunale», «consigliere USL», «segretario di sezione»,
«cattolico del dissenso», «marito», o «quant'altro», è preoccupante.
Perché fuori di casa piove il nuovo, piove di gran carriera, e piove in forza di
una distruzione sistematica di ogni piccola previsione, di ogni piccola analisi,
di ogni progetto. Perché se è vero che può cadere una tegola nel proprio
cammino, più vero è che un sistema politico (aggiornato alla condizione del
«nuovo») non conosce alcuna linearità. Ma quel che più mette in allarme i
commentatori e gli scienziati della politica è che in questo nostro morto
sistema partitico non conosce più le discriminazioni ideologiche e teoriche, le
visioni del mondo, le ricette di suor Marta, la lunazione di don Gaitanu.
Gino Agnese in un suo articolo "Destino di un sistema politico, II Killer dei
partiti", ha spiegato con estrema chiarezza il processo di trasformazione che la
democrazia italiana avverte in sé stessa: «adesso i partiti sono strutture
operanti in una condizione generale di marcata omologazione culturale; sono
soggetti che l'informatica rende molto simili tra loro». Agnese fonda la sua
analisi su uno scenario: «basta guardare ai cambiamenti intervenuti nel mondo,
basta considerare gli effetti delle tecnologie, basta osservare i portati della
cultura del consumismo». Non bisogna certamente svegliarsi al mattino, con la
coscienza di essere dei bravi consiglieri comunali, non è più sufficiente fare
ciò: bisogna percepire la grande forza del «nuovo» che turba l'equilibrio di una
borghesia e di tutta una storia rammollita da una secolare resa al bel caldo
mediterraneo, all'assenza di una produzione «costitutiva», all'assenza di una
politica «emergente». Per come il futurismo aveva insegnato. Amplificando i
sensi dell'antropos «multiplo». Oppure in parole più semplici farsi trovare là
dove mai nessuno pensa possa esserci un «nemico», «un altro», un «soggetto», un
«edificatore». Appunto come in un'immagine di laboratorio massonico: squadrare
il terreno per costruire la casa.
Farfarello
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