«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 6 - 7 (31 Ottobre 1992)

 

Il nuovo

 

È difficile fare sociologia, è difficile fare filosofia. Forse è più facile fare «estetica». È più facile oggi -nell'Anno del Signore del dopo muro di Berlino- fare «estetica» in riferimento alla condizione del «nuovo». Cioè, interpretare il passaggio ulteriore della modernità che si spiega nella «costruzione» dell'accadere contemporaneo. Secondo una semplificazione da «pane quotidiano», lo schema del linearismo storicista, l'Occidente ha concluso un ciclo epocale. Un tonfo, secondo alcuni. Un accomodamento della comoda coltre giudaico-cristiana, secondo altri. Una tragedia infine per chi considera il divenire come una cesura di «infinità», moduli di continua «infinità»; una «conditio» d'abbandono in «infinità» rispetto alla purezza dell'antico. Mi sembra di ricordare fosse di Kracauer questa provocazione: «destare il mondo dal suo sogno».
Ma in giro si vedono i ciucciotti. Cioè i ciucciotti di plastica che vengono portati al collo accanto alle madonnine e ai crocefissi. Sono i feticci della cultura trasversale fondata sull'accordo tra le bancarelle di strada e le vetrine di Via della Spiga. «Feticci assoluti», si vedono anche in un'altra versione: come orecchini, come addobbi per le automobili. Hanno sostituito l'eterno vecchio cane pastore di pezza Italy's boom-style (quello che occhieggiava dalle millecento, con la lingua penzoloni e la testa mobile). In un certo senso i ciucciotti sono il «nuovo». Sono il compimento del saltello triadico dell'ermeneutica nicciana-heideggeriana: volontà di potenza, volontà di volontà, volontà di verità. Molto più di un simbolo: il nuovo in sé.
Voglio spiegare meglio questa formulazione per evitare equivoci: quando la mattina del suo bel tempo che fu, Giulio Cesare si svegliava fra le lenzuola di casa sua, non era «nuovo» rispetto alla sua giornata, non era più «nuovo» rispetto a Sempronio o a Cracchius, era più semplicemente contemporaneo al suo tempo, aveva altresì una completa adesione alla «materialità» del suo essere in vita.
La condizione del «nuovo» invece, e quindi la cesura tragica, la disarmonia, con la «materialità», è una caratteristica assolutamente post-moderna. Assolutamente nostra. Molto più di un simbolo, quindi, ma per carità, sia ben chiaro: molto più di un aggettivo. Una verità dispiegarsi sul suolo di una modernità frantumata sull'esistenziale.
Dalle chiese d'Europa si avverte il suono gracchiante di campane aggiornate ai transistors, si ascolta la preghiera sulla pallida luce delle false candele accese di timida elettricità: il tutto per giustificare in ritardo l'ex novo dell'Essere.
Il nuovo si spalma sulle fette del divenire, quindi accade un codice inedito per la sociologia, la filosofia, l'estetica, ma ancor di più si offre sull'altare della politica l'alfabeto per le ricognizioni di «confine». Il gioco della dialettica -sempre che sia vero il motto hegeliano del «peregrinare della coscienza borghese»- vuole oggi, nell'Anno del Signore del dopo Muro, la sua conclusione.
Con i ciucciotti è finito l'«epoco» della democrazia. A maggior ragione in Italia, terra della «molta storia», culla di tanta cristianità dispersa a bizzeffe nel temporalismo clerico-sagrestale, laboratorio del peggiore conformismo comunista, si ascolta il delirio di un sistema che rantola su promesse patetiche di «risanamente», «rifondazione», «solidità», «solidarismo popolare».
Svegliarsi la mattina, e sapere che tantissima gente è convinta del proprio ruolo di «consigliere comunale», «consigliere USL», «segretario di sezione», «cattolico del dissenso», «marito», o «quant'altro», è preoccupante.
Perché fuori di casa piove il nuovo, piove di gran carriera, e piove in forza di una distruzione sistematica di ogni piccola previsione, di ogni piccola analisi, di ogni progetto. Perché se è vero che può cadere una tegola nel proprio cammino, più vero è che un sistema politico (aggiornato alla condizione del «nuovo») non conosce alcuna linearità. Ma quel che più mette in allarme i commentatori e gli scienziati della politica è che in questo nostro morto sistema partitico non conosce più le discriminazioni ideologiche e teoriche, le visioni del mondo, le ricette di suor Marta, la lunazione di don Gaitanu.
Gino Agnese in un suo articolo "Destino di un sistema politico, II Killer dei partiti", ha spiegato con estrema chiarezza il processo di trasformazione che la democrazia italiana avverte in sé stessa: «adesso i partiti sono strutture operanti in una condizione generale di marcata omologazione culturale; sono soggetti che l'informatica rende molto simili tra loro». Agnese fonda la sua analisi su uno scenario: «basta guardare ai cambiamenti intervenuti nel mondo, basta considerare gli effetti delle tecnologie, basta osservare i portati della cultura del consumismo». Non bisogna certamente svegliarsi al mattino, con la coscienza di essere dei bravi consiglieri comunali, non è più sufficiente fare ciò: bisogna percepire la grande forza del «nuovo» che turba l'equilibrio di una borghesia e di tutta una storia rammollita da una secolare resa al bel caldo mediterraneo, all'assenza di una produzione «costitutiva», all'assenza di una politica «emergente». Per come il futurismo aveva insegnato. Amplificando i sensi dell'antropos «multiplo». Oppure in parole più semplici farsi trovare là dove mai nessuno pensa possa esserci un «nemico», «un altro», un «soggetto», un «edificatore». Appunto come in un'immagine di laboratorio massonico: squadrare il terreno per costruire la casa.
 

Farfarello

Indice