Giudizi sulla RSI di due illustri antifascisti
Fra meno di un anno la
Repubblica Sociale Italiana -con la sua immagine proiettata in un tempo breve,
tragico, sanguinoso- avrà toccato il traguardo del mezzo secolo. Nel corso di
questi dieci lustri anche nel campo della cultura democratica e di sinistra sono
state operate parziali ma niente affatto irrilevanti revisioni di giudizio sui
seicento giorni gardesani di Mussolini.
Anzi, in taluni casi si sono registrati veri e propri salti di qualità nella
valutazione di quella remota, drammatica esperienza. Come, ad esempio,
nell'abbastanza recente, amplissimo saggio di Claudio Pavone, fra le cui pagine
è collocata la «scoperta» di una verità ormai incontrovertibile: il conflitto
che accompagnò il saloismo dalla culla alla tomba fu vera e propria guerra
civile, con tutti gli attributi di dignità e terribilità connessi a simile
evento.
Dignità perché la nozione stessa di guerra civile presuppone, in ambedue i
contendenti, un ideale, una bandiera; un interesse, cioè, non personale bensì
superiore e, pertanto, superatore di ogni pregiudizio e presunzione,
nell'avversario, di bassezza di istinti, di cinismo, di svincolo da passioni
civili, di totale assenza di tensione morale, di disamore per la propria
Nazione, di sordità agli stimoli della politica intesa nella più alta accezione.
Terribilità perché fra i vari tipi di guerra possibili certo quella fratricida è
la più deprecabile, odiosa, disumana. E destinata a lasciare solchi profondi,
segni ineliminabili, ferite irrimarginabili lungo il fluire delle generazioni,
dentro i confini dello stesso paese, nell'ambito di una medesima comunità
nazionale, nelle strutture di un unico Stato. Spesso, diremmo, a far piangere la
stessa madre.
Uno scrittore immeritatamente dimenticato, che ebbe parte attiva in senso
giornalistico-letterario nella RSI, il sardo Stanis Ruinas -vecchio fascista con
forte vocazione di sinistra, dalle complesse vicende esistenziali e politiche
postbelliche-, in un libro dedicato ai fatti tremendi dell'Italia '43-'45, edito
nella seconda metà degli Anni Quaranta con il titolo "Pioggia sulla Repubblica",
narra di una famiglia veneziana nell'ambito della quale due figli giovani, uno
fascista e uno legato alla Resistenza, contendono non certo ad armi cortesi. I
ragazzi nel tardo pomeriggio di ogni giorno lasciavano la casa paterna per
vivere pienamente il proprio impegno militante in modo violento e periglioso. Fu
così che una sera, a conclusione di scontri fra Neri e Rossi, uno dei due
divenne -senza saperlo e senza volerlo- l'assassino dell'altro. E così quella
madre pianse. Quei genitori piansero.
* * *
Per tanti anni lo Stato di Salò venne generalmente considerato poco più -o poco
meno- di un possedimento coloniale dei nazisti. Insomma: si scrive RSI, si legge
Terzo Reich; si scrive Mussolini, si legge Hitler. Di più: tutti i fascisti di
allora, coinvolti in quella avventura, furono considerati -imberbi, giovani,
anziani o vecchi che fossero- un pugno di traditori criminali al servizio
mercenario delle truppe tedesche. E quando proprio si intendeva dar prova di
benevolenza si declassavano le colpe di fellonia e venalità in più veniali
peccati di balordaggine, immaturità, leggerezza, inconsapevolezza. Specie se il
reprobo fu in grado di esibire un modico numero di compleanni, l'operazione
perdono risultò agevole, fattibile.
Vennero così gettate le basi del pentitismo dei lustri successivi, con tutti gli
annessi e connessi in termini di procacciantismo abbietto, conformismo estorto,
conversionismo sfacciato e ambiguo a tutti ben noti. Esattamente il contrario di
ciò che sarebbe stato giusto e intelligente e proficuo fare nell'interesse
dell'unità nazionale, della democrazia, di una svolta fortemente sociale e
popolare nel Paese.
Il trascorrere delle epoche e delle generazioni, il rasserenamento del clima
politico, la più pacata riflessione su uomini, fatti e cose dell'ultima fase del
mussolinismo, la necessità di trovare un modus vivendi a livello delle
istituzioni e della società civile fra uomini e donne delle fazioni che si erano
affrontate nella lotta intestina e loro... successori, contribuirono a placare,
ridimensionare, smorzare risentimenti e sentimenti. Anche perché, nel frattempo,
personaggi lungimiranti, illuminati, prestigiosi del mondo della democrazia e
della Sinistra si erano preoccupati di agire nel senso di una chiarificazione
pacificatrice e superatrice al di fuori del superficiale, pasticcione,
pasticciato pentitismo.
Qui il discorso tracimerebbe oltre lo spazio consentito, ma non mancherà
occasione per riprenderlo. Ci limitiamo pertanto a qualche nome della
complessiva area socialista del buon tempo andato, Ignazio Silone, Ugo Guido
Mondolfo, Carlo Andreoni, Ugo Zatterin, Tullio Vecchietti, Giuseppe Faravelli,
etc. Ma, sia detto ad onor del vero, anche Bettino Craxi e Lelio Lagorio, uno
scrittore e giornalista come Giancarlo Lenher, Arduino Agnelli ed altri hanno «cossighianamente»
picconato su tutta una serie di blindatissimi tabù. Vogliamo ricordarcelo il
lagoriano «Anno di Garibaldi» al Ministero della Difesa?
* * *
Un modesto apporto alla retta e corretta comprensione di ciò che effettivamente
fu la RSI vorrebbe darlo anche l'estensore di questo pezzo, uomo di sinistra,
della Sinistra, nella Sinistra. E darlo facendo a meno di schiamazzi polemici,
senza accentuazioni «originalistiche», prescindendo da retoriche
«difensivistiche» che non gli appartengono perché non gli possono appartenere.
Delle quali, peraltro, non c'è bisogno alcuno, giacché i fatti, ormai, sono ben
più eloquenti della eloquenza stessa.
Un contributo, questo nostro, tipico di chi non da oggi si diletta di
scorribande dentro polverosissimi scaffali di biblioteche disertati da tempo
immemorabile, di scoop «storici» inseguiti in incunaboli tanto venerandi quanto
obliati.
Vediamo. Ivanoe Bonomi veniva in evidenza, in quei frangenti tempestosi e
fatali, come leader, diremmo istituzionale, dell'antifascismo. Era, infatti, il
presidente del Comitato di Liberazione Nazionale, che raggruppava i sei partiti
fondamentali della opposizione al regime fascista. In tale veste nel giugno '44,
subito dopo l'ingresso degli Alleati in Roma, era succeduto a Badoglio come capo
del governo di coalizione esarchica, incarico che tenne fino alla cessazione
delle ostilità per quindi passare il testimone a Ferruccio Parri, catapultato al
Viminale, dal famoso, impetuosissimo «Vento del nord». Il Bonomi -vecchio
riformista bissolatiano di Mantova, già ministro della guerra e Presidente del
Consiglio prima dell'avvento del fascismo, deceduto negli Anni Cinquanta mentre
era Presidente del Senato- così annota nel suo "Diario", relativamente alla
genesi della Repubblica Sociale: «È indubbio che questa proclamazione (della
RSI, ovviamente - N.d.R.) non lascerà indifferenti gli italiani. I fascisti
applaudiranno, gli antifascisti fischieranno non la Repubblica, sibbene il nuovo
apostolo, ma gli uni e gli altri constateranno che una Monarchia è caduta e una
Repubblica è sorta, e che un problema nuovo s'impone alla loro meditazione e
alle loro successive determinazioni. Quale sarà la situazione italiana tra poche
settimane? Nella zona settentrionale e centrale d'Italia (cioè nei due terzi
dell'antico Stato) sarà instaurata la Repubblica che funzionerà con un Capo, un
suo Governo, e una sua Forza Armata. Nel Mezzogiorno e nella Sicilia invece gli
angloamericani daranno man forte alla Monarchia ...»
Come ognun vede, il capo istituzionalmente riconosciuto dell'antifascismo si
guarda bene dallo snobbare, dal disprezzare, dal sottovalutare la RSI. Per lui,
le formazioni cielleniste si trovano a dover fronteggiare non un raggruppamento
di rinnegati al soldo dello straniero invasore, ma una vera Repubblica, con veri
organi costituzionali, con vere Forze Armate. Dei tedeschi -che pure, vivaddio,
nel Centro e nel Nord ci sono, eccome se ci sono!, e costituiscono un
grossissimo problema anche per Mussolini- non fa menzione alcuna. Mentre, per
ciò che attiene al Regno del Sud, afferma solo che gli Alleati altro non faranno
che rincalzare nella massima misura possibile il vacillante e ridottissimo reame
sabaudo. Ciò perché -ci permettiamo di maliziosamente chiosare noi- essi si
troveranno assolutamente a proprio agio con un re carico di complessi di colpa,
contestato da tutti in tutto e per tutto, totalmente delegittimato,
politicamente debilitatissimo e, pertanto, strumento pressocché inanimato nella
mani dei vincitori. Insomma, un vero e proprio re travicello.
Il Bonomi, fondamentalmente uomo mite e patriota propugnatore di un socialismo
nazionale -non certo un debole, un pupazzo nelle mani dei partiti e degli
angloamericani, tanto vero che nell'estate del '44 protesterà con forza per
l'annuncio da parte alleata della sottrazione all'Italia di tutte le colonie-
nel dopoguerra sarà favorevole alla pacificazione nazionale proprio mentre
imperversavano discriminazioni e vendette. Rispondendo alle sollecitazioni di
Carlo Silvestri -che lo invitava a gettare tutto il peso della sua autorevolezza
nel dibattito culturale e politico relativo al rapporto della Italia democratica
con il recente passato littorio e con coloro che lo hanno incarnato, onde farvi
prevalere le tesi distensive e conciliazioniste- così epistolarmente si esprime:
«Caro Silvestri, ho ricevuto i giornali che documentano la tua tenace assidua
intelligente opera per la pacificazione del Paese. Mi rallegro con te per
l'attività spesa ad un fine così nobile ed alto. Io pure -nella mia faticosa
campagna elettorale- ho perorato la medesima causa. È tempo che l'Italia esca
dalle fazioni per entrare nel regime vero della democrazia, che vuol dire
libertà e tolleranza. Io oggi posso fare assai poco. Sono ormai un solitario
nell'epoca dei partiti di massa. Oggi il protagonista è la folla e non più
l'uomo. E le folle si tengono con le tessere di partito. Se il socialismo
tornasse sulle orme di Turati e di Bissolati il mio riformismo rifiorirebbe. C'è
qui dietro di me il ritratto della Signora Anna (Anna Kuliscioff, compagna di
Filippo Turati - N.d.R.) che mi ricorda tempi lontani e inobliabili. Purtroppo è
il difetto dei vecchi di guardare indietro e di sentire la nostalgia del
passato. Cordiali saluti dall'aff.mo Ivanoe Bonomi».
Ecco un Bonomi in edizione più che mai tricolore -nel primo dopoguerra si
contrappose all'amico carissimo Bissolati nel rivendicare per l'Italia tutta la
Dalmazia- e anche un po' antipartitocratico.
* * *
E veniamo ad un altro personaggio di grosso spessore storico, prestigiosissimo:
il Maresciallo d'Italia Enrico Caviglia. Costui -eminente condottiero nel corso
del primo conflitto mondiale, ministro della guerra, senatore, Collare
dell'Annunziata e, pertanto, cugino del re- non appena ha notizia dell'ingresso
del collega Rodolfo Graziani nel governo della RSI come ministro delle FF.AA.,
gli scrive una lettera affettuosissima nella quale, tra l'altro, si legge: «Sono
con te. Ti seguo. Sta attento. Cerca di comportarti con equilibrio. Hai assunto
una parte tremenda, ma certamente sarà, speriamo che sia, utile per la patria.
Tu nel tuo discorso hai detto: il vecchio Maresciallo Caviglia, ma guarda che ho
82 anni solamente».
Il Graziani sarà rimasto certamente sorpresissimo, giacché il Caviglia era in
fama di antifascista fierissimo. Al suo processo dirà: «Caviglia mi scrisse una
lettera di piena adesione al Governo repubblicano, pur senza prendervi parte
attiva». E ancora: «II Maresciallo Caviglia aveva scritto anche un'altra
lettera, che era indirizzata al generale Cavagnari e nella quale approvava
calorosamente la creazione del nuovo Esercito repubblicano, ed auspicava che
diventasse il nucleo del futuro Esercito italiano».
Intendiamoci, l'ottuagenario altissimo dignitario castrense aveva in uggia e in
dispetto il Badoglio. Anzi, tanto per essere chiarissimi, fra i due non era mai
corso buon sangue. Del capo del governo trasferitosi a Brindisi con la famiglia
reale soleva dire: «e come un cane di pagliaio, corre dove c'è il boccone più
grosso». E scusate tanto se è poco! Va da sé che l'avversione per il vincitore
della guerra etiopica non poteva che indurlo all'amicizia col Graziani. Non si è
sempre detto «il nemico del mio nemico è mio amico»?
Ma non esiste solo la testimonianza di Rodolfo Graziani, bensì anche quella del
principe Junio Valerio Borghese, comandante della X MAS, medaglia d'oro per aver
violato la fortezza di Gibilterra. Costui racconterà al giornalista Bruno
Spampanato della visita fatta dal Caviglia al primo nucleo della «Decima» in La
Spezia. E delle parole di incoraggiamento pronunciate per le nuove Forze Armate
della RSI da questo irriducibile antifascista.
Enrico
Landolfi
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