Flores: un azionista
piccolo piccolo (talvolta)
Menchinelli: un azionista grande grande (sempre)
Siamo restati letteralmente ghiacciati, esterrefatti, bloccati, nel leggere -non
ricordiamo dove, forse sul quotidiano di Eugenio Scalfari- queste parole di
Paolo Flores d'Arcais: «Le nostre leggi e la nostra Costituzione sono
inequivoche nello stabilire che i fascisti sono tollerati solo a patto che
tengano le loro opinioni in interiore nomine, essendo vietata ogni forma di
apologia».
Difficile immaginare una più allucinante espressione di gelido odio misto ad
intolleranza, perfidia, torbido spirito ghettizzatore e, in certo senso,
razzismo. Un prodotto, peraltro, niente affatto nuovo: mercé diffusa da mezzo
secolo sul mercato politico italiano da un certo azionismo cosiddetto
liberaldemocratico, ossia dall'antifascismo borghese.
Quell'antifascismo, per intenderci, che levava al cielo alti lai quando
Togliatti promulgava l'amnistia, perché non gli bastavano le stragi del Nord del
'45-'46, voleva le galere ancor più stipate di «neri» o presunti tali, bramava
vendette per sé e per i suoi ispiratori e alti protettori dei quali si accingeva
a diventare il massimo rappresentante in versione «bulgara» con quel partito
americano inventato per fare dell'Italia un paese a sovranità limitata e
soggetto alla leadership statunitense, e -a dirla tutta e schietta- paventava
anche solo una ipotesi di saldatura fra l'ala nazionale-popolare, pacificatrice,
socializzatrice, estranea al nazismo e alle sue efferatezze, della Repubblica
Sociale Italiana e la componente di sinistra della Resistenza non
pregiudizialmente aliena dall'idea di tentare un discorso costruttivo con le
correnti creative dei «diversi» nella guerra civile.
L'orrendo linguaggio di Paolo Flores d'Arcais ci ha ferito proprio perché ci
sentiamo più che mai democratici di sinistra, di ispirazione libertaria e al
tempo stesso cristiano-popolare. Di più: ci ha procurato un grosso dispiacere
proprio in quanto lettori puntuali e, diremmo, fedeli dei libri, dei saggi,
degli articoli del Flores pubblicati sia su quella splendida rivista che è
"Micromega" sia su "La Repubblica". E ci siamo chiesti: possibile che un liberal
di tanta particolare autorevolezza culturale come, per l'appunto, l'ex dirigente
della gioventù comunista espulso per trotzkismo negli Anni Sessanta -dunque, con
un pedigree di militante di partito vulnerato nei diritti umani, civili e
politici-, abbia potuto e voluto umiliare sé stesso invocando, mediante una
discutibile e anzi arbitraria interpretazione della Costituzione, la formazione
di qualcosa di peggio di quella famigerata «riserva indiana» che tuttora viene
in evidenza come una vergogna che fa torto alla patria di Washington, Jefferson,
Lincoln?
In che senso qualcosa di peggio? Nel senso che nel ghetto pellirosse USA i
ghettizzati non sono sprezzantemente e monoliticamente «tollerati», ma possono
fare tutto ciò che più gli aggrada dentro e fuori la riserva, senza alcun
bisogno della «tolleranza» di chicchessia. E men che meno di quella dello Stato.
Inoltre, sono liberissimi non soltanto di esprimere le loro «opinioni» su
qualsiasi materia e argomento -ivi compresa l'emarginazione razziale di cui sono
fatti oggetto-, ma anche di portarle al fuoco del confronto e della polemica
oralmente o a mezzo stampa.
Altro che in interiore homine, elegante definizione latina farisaicamente
attivata per coprire una inqualificabile richiesta di misure oppressive prima
ancora che repressive! Chi si picca di incarnare magisteri di libertà deve stare
ben attento a non lasciarsi cogliere in flagranza di attentato al più ampio e
autonomo dispiegarsi degli altrui diritti di liberissima estrinsecazione del
pensiero e dell'azione politica purché non violenta, caro dottor Flores.
Soprattutto se il cittadino fruitore delle garanzie costituzionali è collocato
su di una sponda esattamente opposta a quella sua.
* * *
C'è però un altro azionista il quale, fortunatamente per noi, getta balsamo
sulle ferite procurateci dall'algida, violenta esternazione floresiana, che
preferiamo valutare come incidente inopinatamente capitato all'Autore sul suo
percorso democratico. Costui si chiama Alessandro Menchinelli, è un ex ufficiale
partigiano che comandò nel 1944 una divisione "Giustizia e libertà", può vantare
-tra Camera e Senato- tre mandati parlamentari ottenuti nelle liste del PSI e
del PSIUP (partiti in cui ha militato dopo avere vissuto la breve, bruciante,
fallimentare esperienza del Partito d'Azione), è pubblicista e scrittore
politico di polso. Anzitutto, però, viene in luce quale uomo limpido e integro
-è membro della magistratura interna del PSI-, incapace di odio e, più in
generale, di qualsiasi sentimento inferiore. Soprattutto se si tratta di coloro
contro i quali si è valorosamente battuto nel corso della malaugurata guerra
intestina. Incantevole, e incantata, addirittura, la qualità della sua saggezza,
del suo distaccato e chiaro giudizio, su immagini fatti e drammi della storia,
della sua grande obbiettività nell'analisi e nella valutazione del ruolo e dei
comportamenti degli «altri», dei «diversi», dei «nemici». Dei «neri», in una
parola. Senza che ciò possa significare, ben lo si intende, concessioni
spericolate e tali da provocare il franamento della sua figura non meno che
della sua posizione.
Il senatore Menchinelli, esponente della corrente di sinistra del PSI, ha
recentemente accettato di partecipare ad Ostia ad una Tavola Rotonda dedicata a
una nostra raccolta di saggi usciti dai torchi della Editrice Solfanelli di
Chieti, con il titolo "Rosso Imperiale" e l'introduzione di Mario Bernardi
Guardi.
Cosa di «strano» in ciò? Tutto di «strano», diremmo, nel senso di quella
«stranezza» di Dio che, manifestandosi, riconcilia con la vita e, talvolta,
perfino con la politica.
Gli è che:
I) "Rosso Imperiale" tratta prevalentemente di eventi e personaggi del fascismo
(ivi compreso quello targato RSI) in una chiave che diremmo «laica», ossia monda
di beatificazioni ma anche di demonizzazioni;
II) nel cast dei presentatori i veri o presunti «fascisti» erano rappresentati
da due intellettuali, autori di saggistica teorica: il rautiano Silvano Moffa,
uomo fortemente spostato a sinistra nell'accezione sociale del termine, e
Gennaro Malgieri, di tendenza più tradizionalista;
III) l'iniziativa del dibattito era stata presa dal circolo di cultura
socialista "L'Arco", meritoriamente fondato e brillantemente diretto dalla
dottoressa Alessandra Romano, funzionaria al ministero degli esteri e
collaboratrice del sottosegretario on. Valdo Spini;
IV) il secondo partecipante «rosso» era Antonio Bordieri, sindacalista,
pubblicista, dirigente nazionale del Movimento Unitario Riformista fondato dal
sindaco di Milano Borghini e dal leader milanese Luigi Corbani.
Insomma, e astrattamente parlando, ce ne era abbastanza per paventare
l'esplosione di una vera e propria polveriera psicologica. E invece tutto
sarebbe filato liscio se un tanghero che diceva di essere di Rifondazione
comunista ma in realtà puzzava di brigatismo in borghese lontano un miglio, non
avesse dato luogo ad una provocazione peraltro tempestivamente rintuzzata da
qualcuno che non intendeva assolutamente subirla.
Ma, incidente a parte, carosello oratorio e confronto ideologico sono andati
benissimo. Per merito, anzitutto, di una eccellente conduzione della dottoressa
Romani, ma anche perché tutti si sono comportati con grande rispetto reciproco,
senso della misura, prudenza nel linguaggio e nei concetti, e, soprattutto,
perché i relatori non hanno mancato -pur senza lasciarsi sedurre da non
credibili ipotesi di «superamenti» immediati e generalizzati- di cogliere e
adeguatamente sottolineare quelle coincidenze di momenti, aspetti, elementi
presenti nei rispettivi discorsi.
Come, ad esempio, il comune repellere per razzismi, antisemitismi, localismi
vari: di ieri, di oggi, di domani, di sempre. O, ancora, l'altrettanto solidale
rigetto delle svariate fìlie nei confronti del capitalismo, degli adoratori
della nuova divinità chiamata mercato, del rampantismo individualista. Filie,
sarà bene precisarlo, cui non sempre e non tutta si sottrae la stessa sinistra.
Ma ciò che più ha favorevolmente impressionato è stato il clima disteso,
colloquiale, costruttivo, amichevole che ha dominato la manifestazione,
conclusasi -cosa niente affatto rilevante- con un ricevimento. Segno che quando
ci si conosce, ci si parla, ci si incontra, magari si intrecciano rapporti
-certo senza equivoci, nella chiarezza-, tanti pregiudizi, e con essi tante
pregiudiziali, si dissolvono. E, così, danno luogo ad intuizioni, a persuasioni
più congrue, che potrebbero, ove convenientemente sviluppate, convertirsi anche
in finestre aperte su di un non lontano futuro.
Si dirà: una rondine non fa primavera. Ma, intanto, le rondini sono già tre:
infatti il senatore Menchinelli ha presenziato, da gradito e autorevole
ospite-uditore, ad altro dibattito «misto» sullo stesso libro e sugli stessi
argomenti; inoltre, ha acconsentito ad intervenire in qualità di interlocutore
-esattamente come ad Ostia, si capisce- ad un ulteriore convegno in data da
fissare fra dicembre e gennaio.
Ci chiediamo: ma davvero il dott. Paolo Flores d'Arcais ci sbatterebbe il
telefono in faccia se prendendo, come suoi dirsi, il coraggio a due mani gli
chiedessimo di partecipare -senza, ovviamente, fini provocatori o diversionisti-
a raduni del genere?
Chissà, forse, però, ci risparmierebbe le parolacce, visto e considerato che, a
torto o a ragione, siamo suoi affezionati lettori. Sia che scriva su
"Micromega", sia che esterni su "La Repubblica", sia che illustri idee e ideali
suoi in libri pubblicati, ci sembra, da Boringhieri Editore.
Enrico
Landolfi
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