«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno I - n° 8 - 9 (31 Dicembre 1992)

 

le recensioni

Ernst Jünger: istruzioni per l'uso

 


Dall'alto dei suoi novantotto anni Ernst Jünger continua a comunicarci metafore e profezie. Ne sono una conferma le sue più recenti opere narrative. Ora siamo in attesa del suo ultimo saggio "Die Schere" ("Le Cesoie"), in cui il grande vecchio della cultura tedesca, sulla scorta della sua lunga avventura intellettuale, sembra obbligarci ad un doveroso bilancio sulla nostra esperienza di uomini del Novecento. Dove stiamo andando dopo il crollo definitivo delle ideologie? Qual è il nostro destino tra il richiamo titanico della tecnica e la nostalgia degli dèi? Avendo sperimentato su di sé in prima persona le passioni, le ideologie e le tentazioni che hanno sconvolto il secolo, Jünger ha dalla sua il carisma del testimone: non offre certezze a buon mercato, non demonizza e non rimuove, aderisce senza esitazioni allo spirito dei tempi, anche se il suo proposito è quello di spingerci a guardare oltre. Con il distacco che contraddistingue il suo stile ci invita ad una sensibilità nuova, proponendo un atteggiamento disincantato ma lontano da ogni forma di rassegnazione, e allo stesso tempo aperto all'avvenire anche se scevro da qualsiasi ottimismo storicistico. Non è un caso che Jünger riesce ancora ad entusiasmarci per l'irruzione del nuovo, come quando in seguito agli avvenimenti dell'89 annota sul suo diario: «I nipoti hanno ballato sul Muro. Noi eravamo sorpresi e commossi».
Maestro di tutti coloro che non cercano maestri, il solitario di Wilflingen si impone, forse al di là delle sue intenzioni, come un riferimento obbligatorio per chiunque tenti di individuare serie coordinate di orientamento in questo scorcio di fine millennio. Reduce dal travagliato percorso del Novecento, Jünger non ha -o comunque non vuole avere- risposte definitive. La provvisorietà, l'abbandono di qualsiasi pensiero della totalità, la capacità maieutica di cogliere il senso dei frammenti sono le dimensioni in cui gli si configura lo stile del nostro tempo. «Oggi -si legge nel suo romanzo "Il problema di Aladino"- le soluzioni non rientrano nel quadro dell'epoca: la perfezione non è affar suo. L'avvicinamento può realizzarsi solo passo dopo passo».
Eppure a tutt'oggi su di uno scrittore così importante mancano in Italia sia un'analisi di ampio respiro che uno sforzo critico per restituire al dibattito delle idee tutta la portata delle sue intuizioni. Basti pensare alla decisiva influenza del pensiero jüngeriano sulle concezioni della tecnica espresse da Martin Heidegger. In questo contesto un coraggioso e stimolante contributo ermeneutico ci viene ora offerto da Mario Bernardi Guardi con il suo "La tigre della Modernità. Saggio su Ernst Jünger nelle tempeste d'acciaio", introdotto dalle osservazioni storiografiche di un acuto filosofo come Antimo Negri, e pubblicato con la consueta cura da un editore non-conformista come Antonio Pellicani, estremamente attento a tutto ciò che si muove oltre gli steccati della cultura ufficiale.
Inserendo un'altra importante casella nel suo mosaico sulle voci del Moderno, Bernardi Guardi propone un'analisi propedeutica, come lui stesso avverte, ad un «discorso su Jünger che avrà ben altra ampiezza e ben più meditato spessore». Si tratta dell'approfondimento di quel discorso sulla modernità ed il nichilismo intrapreso dall'intellettuale toscano con i suoi lavori su Borges ("L'io plurale", Edizioni II Falco, 1979), su Nietzsche ("Il caos e la stella", stessa casa editrice, 1983) e sulla letteratura mitteleuropea ("Austria infelix", Solfanelli, 1990). Nel saggio su Jünger l'argomento è inquadrato attraverso l'intervento di una testimonianza eccellente: lo scrittore tedesco viene interpretato come l'avventuriero della cultura che nelle tempeste d'acciaio della Grande Guerra sfida la Tigre della modernizzazione chiedendo che l'urto sia completo in modo da avere diritto a tutte le zone di legittimità prima sconosciute. Il nichilismo si rivela allora come il nucleo estremo e autentico della modernità: «Chi non ha sperimentato su di sé l'enorme potenza del niente e non ne ha subito la tentazione -scrive Jünger- conosce ben poco la nostra epoca».
Bernardi Guardi si imbatte consapevolmente nelle principali figure jüngeriane, il combattente, l'Operaio, l'avventuriero, l'abitatore del bosco, l'Anarca. E nel gelido incanto della prosa di Jünger individua i contorni della scommessa del nostro tempo: sarà più forte la Forma o la Tigre? In altre parole, riuscirà l'uomo a produrre un'estetica in grado di pensare a dominare i linguaggi del Moderno? Le poste della sfida appaiono ancora sul tavolo da gioco.
E così il saggio di Bernardi Guardi si rivela come un'interrogazione sul nuovo che avanza e il vecchio che indietreggia. Il tutto sulla base della convinzione che «l'estetica non è un rifugio per i dilettanti della sensazione ma un'etica senza altre risorse che quelle del volto e della parole.
 


Luciano Lanna

 

II libro di Mario Bernardi Guardi, "La tigre della Modernità" (Antonio Pellicani Editore, Roma, 1992, lire 13.000) può essere richiesto direttamente all'Editore scrivendo a: Antonio Pellicani, via dei Banchi Nuovi 24, 00186 Roma.

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