Ricami all'uncino
Ricami all'uncino, occhielli tintinnanti vive gocce di sangue, eleganti ferite
disegnate là dove batte e là dove non batte il sole. Ci divertiremo nella nostra
sartoria a tagliar panni addosso, a cucire e a scucire, ad usare l'ago,
l'uncinetto e l'uncino. Quello del Capitano, minaccioso e trinciante. Fa finta
di graffiare solo l'aria ma poi si porta dietro lembi di pelle. Una sartoria
piratesca, la nostra. Un porto franco dove sono graditi avventurieri e corsari.
Meno, molto meno, quelli che si imbarcano con provviste di salvagenti e di
pillole per il mal di mare. Il mare fa male, sibila il topastro terragno. E
invece a noi piace sciacquarci la bocca anche con l'acqua salata, oltre che con
la grappa. Quando, da bravi sarti, tramavamo articoli da far indossare agli
amanti della libertà, non ci siamo punti le dita. Quando, da bravi marinai,
abbiamo attraversato qualche cupa tempestosa nuvolaglia, qualche onda col or
d'inchiostro, senza troppe precauzioni, non abbiamo lanciato alti lai al cielo
perché evitasse che le nostre tremule alucce si inzuppassero d'acqua: ci siam
bagnati, eccome!, ma poi il sole ci ha fatto visita, ed eccoci asciutti ed anche
abbronzati. Siamo qui, adesso, a divertirci. Se il lettore non si diverte,
chieda lui l'uncino e provi ad usarlo. Glielo presteremo volentieri.
I naziskin sono brutti, sporchi, cattivi, si disegnano la svastika sui crani
rasati, urlano, aggrediscono, bruciano, hanno la testa e la bocca piena di
slogan barbarici e la pancia gonfia di birra. La Signoria Vostra
post-radical-chic ha ragione: fanno proprio schifo. La spocchia di Capalbio si
rivolta fremente di democratico sdegno di fronte a tanta mancanza di garbo.
Eppure questi naziskin sono in genere poveracci, sottoproletari, ciondolano da
mattina a sera senza un lavoro, si scatenano ebbri d'odio contro gli stranieri
di tutte le razze e di tutti i colori perché, in una desolata guerra tra poveri,
li vedono come privilegiati, imbottiti di sussidi governativi, mentre intasano i
sobborghi, pisciano sui prati, si dilettano sovente nello stupro e nello spaccio
di droga. Perché la Signoria Vostra post-radical-chic che mostrava tanta
benevola comprensione per il disagio politico-social-ideologico-generazionale
delle masse studentesche con la patacca di Mao all'occhiello negli anni
formidabili evocati dal Katanghese Mario, non mostra benevola attesa circa le
democratiche capacità di recupero dei pelati-strapelati teutonici e borgatari, e
non si ingegna con rosari di dotte esegèsi e di ammicchi progressisti e di
qualche sotterranea complicità a trasformarli in baronetti universitari o
dirigenti d'azienda? Infatti -se non andiamo errati- molti dei più sbraitanti
sacerdoti del tutto e subito!, magari dopo essere stati concupiti da damazze in
fregola di scopate rivoluzionarie, si son trovati baciati dalla fortuna e la
loro lotta continua è finita in qualche lussuosa redazione progressista o in una
delle tante corporazioni politiche, mediche, sindacali, finanziarie che
allietano l'itala gente.
Torniamo al nostro interrogativo: perché? perché? perché? Non sarà -ma questa è
una ipotesi maligna e quasi ci vergogniamo di formularla- che alla Signoria
Vostra post-radical-chic le bandierone con le falci, i martelli, i baffoni di
Stalin, il giallo mandorlato di Mao, anche se eccessive, anche se troppo
svolazzanti, facessero battere cuore e viscere di occulte frenesie con
condimenti simpatizzanti mentre aquilotti gotici, simboli runici, svastike
arrotondate o appuntite suscitano tale e tanta ripulsa che no, per i picchiatori
naziskin non può esserci comprensione? Non è che, per caso, la Signoria Vostra
post-radical-chic li giudichi razzialmente inferiori?
* * *
Dunque, si annuncia un nuovo anno di televisione-spazzatura con arroganze
sgarbiane, ghigni minoliani, cosce pariettali, adipi ferraresi, sanfedismi
funariani, prosopopee baudesche, purghe frizzanti, bonomie corradiane, notturni
bongiorni, maurizieschi vocalizzi popolari tradotti in voci divine grazie al
gargarismo di un palazzinaro pentito. Chi ci salverà? È fare orrido qualunquismo
il suggerire di tener la televisione spenta? Ma l'avversario va affrontato,
suggeriscono gli alfieri dell'incontro-scontro creativo-trasgressivo. Dovete
vedere e criticare, sol così si cresce: ecco il prof. di liceo che sbandiera il
suo concettino dinnanzi alla platea studentesca drogata da poppe, glutei e cosce
al servizio del Verbo del ninfettaro Boncompagni. Critichiamo, cresciamo,
moltiplichiamoci con esponenziale ardimento. Ma se tra un valzer
dell'obnubilamento per vecchietti dal cuore ancora fiorito e un rap
dell'ottundimento per giovani videogiocati ma non domi, c'è rimasto un posticino
libero, uno spicchio d'intelligenza disposta a tutto, ecco un consiglio
eversivo: munitevi di duecentottantamila lire, andate in libreria e compratevi
il "Tutto Nietzsche" in cofanetto Adelphi. Vi servirà ad accendere lampadine
dappertutto nel vostro corpo e nella vostra mente; imparerete a pensare
attraverso folgorazioni, a smascherare attraverso intuizioni illuminanti, ad
accogliere la sovrabbondanza emotiva e spirituale di Frater Fridericus, chierico
vagante dionisiaco, distruttore vaticinante, uccel di bosco canoro ed ubriaco,
maestro di quella elettissima schiera di discepoli che i maestri li ha in uggia.
E se già state preparando le strenne di Natale e vi avanza uno Zarathustra,
regalatelo a uno dei summentovati telesignori. Sarà per loro veleno o farmaco?
Non esiste alcun terribile dilemma: se lo popperanno come benefico latte, buon
per loro; se per eccesso di luce si cercheranno una stabile nicchia tra i
cavernicoli del post-moderno, reimparando cos'è un gesto e cos'è una parola,
buon per noi. Riaccenderemo la televisione (sì, sarebbe più corretto dire il
televisore, ma dicendo «televisione» è come se ci attaccassimo a desiate
ghiandole mammarie da cui eravamo stati estromessi dopo che avevamo cominciato a
parlare).
«Quant'era grande Totò! Che maschera! Quanta genialità! Ma perché non glielo
abbiamo mai detto? Ma perché non gli abbiamo mai dato un premio?». E giù con
pianti, lagne, capi cosparsi di cenere, vesti stracciate, dichiarazioni ex
cathedra, convegni, saggi di alta filologia, ecc,
che dovrebbero servire da tardiva remunerazione. C'è anche chi, uggiolante e
mieloso, ha scritto che Totò ci guarda compiaciuto dal cielo. E magari,
aggiungiamo noi, rotea e strabuzza gli occhi. No, signori, troppo comodo. Totò
gonfia le guance e sbotta in una bella serie di ohibò!, ve lo garantisco. O
magari piega la mano, serra le dita verso il basso, se la picchia contro la
fronte e scandisce: «'cca nisciuno è fesso!». E questo non è propriamente un
gesto principesco, anzi è sguaiato e popolaresco, ma rivela appieno quel che
Antonio De Curtis, nobiluomo e attore, sta pensando, ammesso che veda, pensi e
senta, e soprattutto che abbia voglia di interessarsi delle umane miserie, là
dalla sua celestiale nicchia (e così abbiamo portato anche noi la nostra
pietruzza di contributo alla melensaggine dei pentiti). Il fatto è che Totò
avrebbe tutta la ragione di arrabbiarsi e di fare la faccia schifata. Mi si
consenta qualche ricordino personale. Quand'ero studente liceale e Totò riempiva
le sale dei cinema perché allora si andava al cinema (più o meno nel
Pleistocène, come potrete capire. A proposito, avete letto il libro di Roy Lewis
"Il più grande uomo scimmia del Pleistocène", Adelphi? Con ventiduemila lire ve
lo comprate, insieme a qualche non degradante e non spazzaturesca risata), fui
contagiato per qualche anno da una malattia allora abbastanza diffusa tra quelli
che avevano la fissazione della cultura: la compunta, ascetica, silente
frequentazione settimanale di locali fatiscenti, spettrali e gravanti tetraggine
in cui si organizzavano cineforum. Horresco referens (se non sapete il latino,
andatevelo a studiare: è una bella occasione per imparare una lingua come si
deve, dunque per disimparare il cattivo angloitaliano in cui siete abituati a
esprimervi), compravo anche paludatissime riviste di critica che, come piatto
meno indigesto, servivano una cosa che si chiamava lo specifico filmico. Bene,
credete che in quei club zeppi di tipetti saccenti, occhialuti, foruncolosi,
lettori del giovane Marx, di Teilhard de Chardin, di Lukàcs e di tutto Brecht
minuto per minuto, ci fosse posto per Totò? No, lì imperava sovrano quel gran
puttaniere del piagnisteo coatto che rispondeva al nome di Charlie Chaplin, in
arte Charlot. Lui sì che faceva un cinema "intelligente, ricco di sottili
problematiche, percorso da fremiti di genialità, aperto a una visione del mondo
laica e progressiva ecc. ecc.! Dinnanzi a questo gigante con bombetta,
bastoncino e occhio di pesce al rimmel, Totò diventava una piccola marionetta
partenopea, di cui ridere in segreto, magari con un po' di vergogna.
Quegli stessi professori che ci sconsigliavano di leggere Nietzsche perché,
dicevano, «corrompeva lo spirito» (da parte mia, vi consiglio di lasciarvelo
corrompere...), ci invitavano a inchinarci reverenti di fronte all'arte sublime
di Charlot e qualcuno già sbandierava una parola che sarebbe diventata di moda:
messaggio, che è poi il massaggio per coscienze inquiete. Charlot aveva un
messaggio e, bontà sua, ce lo proponeva; Totò, biecamente ridanciano e per di
più italiano napoletano, principe e di fede monarchica dichiarata, ci chiamava a
nozze con l'inerzia intellettuale, avviliva la mente -adusa magari a essere
sollecitata dalle corroboranti proposizioni lukàcsiane- con giochetti di parole,
era tremendamente volgare con quelle sue continue allusioni al chiodo fisso dei
maschi italioti: la donna, anzi la femmina.
Ne son dovuti passare di anni perché Totò diventasse di moda e la cultura
radical-chic lo celebrasse come una delle più grandi, mobili, intense maschere
del Novecento, relegando Charlie Chaplin nel dimenticatoio con puttanesca
volubilità. Ma come mai, prima, tanti crucifige in un senso e tanti osanna
nell'altro? Il fatto è che Charlot con il suo omettino che vuole uscire dal
ghetto, ma è schiacciato dalla congiunta violenza persecutoria di tutte le
istituzioni, era un mito della sinistra, si proponeva come il modello degli
emarginati che un giorno, benedetti dall'imprimatur rosso, rosseggiante o rosa
shocking, avrebbero alzato al cielo le testoline piegate-piagate, urlando: «II
re è nudo!». Ovvero: il capitalismo è nudo! L'Occidente è nudo! Il che è vero e
da sempre, per lo meno dalla fine del Sacro Romano Impero: ma pronunciato in
nome di quale controparte? Che c'entra tutto questo con Totò?
C'entra perché, in anni che ora sembrano lontanissimi, il principe De Curtis
osava presentarsi in pubblico non come l'intellettualistico burattino di una
classe o di un'ideologia ma, da una parte, come l'erede di una tradizione
particolare -napoletana, italica e popolare-, dall'altra come il rappresentante
dell'umanità nella sua eterna essenza, nel suo impasto di bene e di male, nella
sua spontaneità bene incardinata nel diritto naturale o anarchicamente decisa a
scardinarlo riconoscendolo, dunque portata a farsi un baffo delle utopie. Se
riscoperta o cotta di Totò deve esserci, che sia dunque piena. Che non contenga
pentimenti generici ma entri bene nel merito delle colpe, dica con chiarezza
perché ci furono. E i maddaleni pentiti il loro coraggio lo portino fino in
fondo: rivisitino -se questo vocabolo a loro è ancor caro- il cinema del secondo
dopoguerra e si rinserrino in neonati cineclub per guardare, ad esempio, tutta
la collezione dei film neorealisti e tutta la collezione dei film di Totò.
Chissà. Forse scopriranno che "Guardie e Ladri" col nostro principe in veste di
ladruncolo e Aldo Fabrizi in quella di poliziotto, vale quanto "Roma, città
aperta" o "Ladri di Biciclette". Anzi, diciamola tutta: vale di più: e non c'era
bisogno di aspettare "Uccellacci e uccellini" per dare a Totò quel che era suo
né di questi anni per innalzargli monumenti.
Sartor
Resartus
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