Sei pensieri sull'anno
finito
Nazi-Skin
È la nuova parola entrata nel vocabolario della politica dell'anno che ci
lasciamo alle spalle. Fino a qualche mese fa esistevano soltanto gli «skin».
Poche decine di ragazzotti vestiti di nero che stazionavano fuori ad alcune
birrerie, tardiva ed effimera imitazione di un costume nato più di un decennio
prima in Inghilterra come fenomeno ribellistico, vagamente di sinistra, variante
del mosaico di dark e heavy metal. Poi qualcuno si è curato di fornirgli una
coscienza politica, dei capi, degli organi di stampa, di curarne, con suono di
grancassa, il proselitismo. E, in un'Italia che di certo non ne sentiva la
mancanza, è sorto un nuovo guaio, anche se ancora molto più marginale e
folkloristico di quanto si vorrebbe far credere. Bisogno di rincorrere la
notizia, ingenuità, ricerca di un nemico oggettivo, strumentalità, sono queste
le voci della grande orchestra dell'informazione che ha gonfiato in questi mesi
il problema. Basterebbe la nostra recente polemica sull'argomento razzismo per
documentare quanta antipatia nutriamo nei confronti di questi personaggi,
tuttavia non possiamo non sottolineare la gravita delle conseguenze di chi
involontariamente li esalta, contrapponendo alla insicurezza di quanti vedono
nel diverso il nemico da abbattere, una simmetrica insicurezza, quella che si
scarica su di un altro tipo diverso. Due culture che si scontrano a partire
dallo stesso bisogno esistenziale, dalle stesse paure, dagli stessi vuoti: in
crisi le grandi idee «positive» che hanno agitato il secolo, ci si aggrappa ai
loro sostitutivi, ai loro grotteschi surrogati. Cosicché qualche soggetto
interessato ed il mercato dell'informazione, hanno suggerito l'inserimento di
quel prefisso «nazi», e nel nostro paese è nato un nuovo mostro, un nuovo
diversivo, un nuovo soggetto. È poca cosa e tale è destinata a rimanere, ci
preoccupa solo il fatto che in un momento di grave incertezza e di crisi anche
le piccole cose possono contribuire a produrre grandi catastrofi.
Tangentopoli
Uno dei neologismi più brutti coniati negli ultimi anni che, insieme alla
formula catartica «mani pulite», è divenuta riferimento imprescindibile di
qualsiasi discorso politico. Brutta parola limitativa, incapace di rappresentare
per intero il meccanismo tra affari e politica che ha costituito l'intelaiatura
dell'intero sistema politico italiano. Le varie inchieste giudiziarie che si
vanno moltiplicando in tutto il territorio nazionale aprendo il sipario su di un
baratro in cui tutta la politica italiana era precipitata, non sono che un
sintomo della frana di equilibri di potere durati troppi anni. Inutile
distinguere tra arricchimenti personali, finanziamenti illeciti ai partiti,
corruzione, responsabilità degli imprenditori, traffici di natura strettamente
criminali. Non è importante andare a fare una graduatoria del tasso di
immoralità e di coinvolgimento personale. Si tratta di un sistema consolidato,
diffuso, noto ed accettato che era divenuto il modo stesso di essere della
politica, della politica che ci ha governato in questi anni, dalla maggioranza o
dalla opposizione. Due mondi connaturati e vicendevolmente indispensabili: non
si può dare una continuazione di quella politica, di quelle forze politiche, di
quegli uomini politici, senza la continuazione di quel sistema. Ma quel sistema
e quella politica sono ormai alla fine e tutti i Di Pietro d'Italia non sono che
gli indicatori di un livello di guardia ormai abbondantemente superato.
Elezioni
Non è elegante citarsi, ma non ci dispiace ricordare che alla vigilia delle
elezioni del 5 aprile, quando era ancora diffuso il clima del «tanto non cambia
niente», avevamo detto che quelle sarebbero state le ultime elezioni che
avrebbero visto in campo i partiti come noi li avevamo conosciuti. Il terremoto
politico e psicologico determinato dai risultati di quel voto e dagli eventi dei
mesi successivi ci hanno dato ampiamente ragione. La ridistribuzione dei pesi
elettorali ma soprattutto le vicende interne ai due più grandi partiti di
maggioranza stanno a dimostrare che i tempi ed i modi della crisi e della
trasformazione sono ormai rapidi e fragorosi. Quello che ancora resta
drammaticamente incerto sono le prospettive.
Mafia e politica
Se il nuovo anno inizia all'insegna dell'arresto di uno dei presunti capi di
«Cosa nostra», quello trascorso ci ha mostrato altri grandi segnali di rottura
di vecchi patti ed alleanze. Clamorose stragi e tanti pentiti che hanno
cominciato a dare contorni chiari a quanto, anche qui, tutti in cuor loro
sapevano: il legame profondo che esiste tra la mafia, la politica, i suoi
uomini, le sue strutture; fino ad interessare importanti organi dello Stato.
Anche chi preferiva non sapere, far finta di non sapere, chi non credeva ora è
davanti a fatti evidenti, a collegamenti resi espliciti: tutti i tabù sono
caduti o stanno cadendo. Anche in questo caso si tratta di poteri che non
lasceranno facilmente il campo e c'è da temere che prima che essi cedano ci
verrà di nuovo esibito tutto il campionario della provocazione e del terrore.
Ustica
Pezzetto su pezzetto, insieme ai relitti dell'aereo che sembrano non finire mai,
omicidio dopo omicidio (in questi giorni è stato ucciso l'undicesimo fra i
testimoni chiave morti in circostanze misteriose), brandelli di verità si sono
accumulati durante lo scorso anno. Molti sono gli scenari possibili tra quelli
proposti e forse non sapremo mai qual è quello vero. Ma alcune cose sono ormai
inoppugnabilmente certe: tutte le ipotesi conducono ad un quadro di scontro
militare ed a complicità internazionali i cui responsabili si trovavano e,
verosimilmente, si trovano ai vertici degli apparati politico-militari del
nostro Paese e di quelli dei suoi alleati. E che il segreto di Ustica racchiude
anche i segreti di molti altri misteri nazionali, quelli per cui molte vite sono
state distrutte e molti capri espiatori hanno ingiustamente pagato.
Colonizzazioni umanitarie
Mentre scriviamo la follia di Bush sta tentando di lasciare una traccia
indelebile del suo passaggio sfruttando le ultime ore di potere per riaccendere
una miccia nel Golfo. Non ci sono stati dati segni di altrettanta «sensibilità»
per le vicende di popoli afflitti da catastrofi belliche e politiche che pure
sono stati drammaticamente protagonisti nel '92. La guerra in corso in
Jugoslavia, che rischia sempre di più di estendersi a tutti i Balcani, si svolge
da mesi con una crudeltà inaudita sotto gli occhi inerti e complici della
comunità internazionale. L'ONU che è stata così pronta ad affidare agli USA il
comando della più grande mobilitazione militare della storia contro Saddam, si è
lasciata abbattere elicotteri, si è lasciata uccidere uomini, è arrivata al
punto di lasciar impunemente prelevare ed uccidere un'alta autorità della
repubblica di Bosnia che viaggiava su di un proprio automezzo; soprattutto
lascia che migliaia di civili vengano uccisi nelle quotidiane operazioni di
«pulizia etnica».
Eppure quella stessa comunità internazionale interviene, secondo il nuovo
principio della «ingerenza umanitaria» in Somalia. Tardivamente interviene nel
caos provocato dalle precedenti «ingerenze politiche» dell'Occidente, ed in
primo luogo dell'Italia, con grande spiegamento di mezzi, di armi e di
tecnologia. Viene da chiedersi: perché tanto altruismo, tanta voglia di
intervento nel Golfo e nel Corno d'Africa, contro tanta inerzia nei Balcani?
Forse perché nei nuovi equilibri del dopo Jalta l'area geopolitica che ruota
intorno all'Arabia rientra negli interessi americani, non così quella della
ex-Jugoslavia e che anzi una zona di tensione a ridosso della nuova Europa
garantisce gli USA nel proprio primato mondiale? O forse più semplicemente è
vero quanto alcune fonti hanno rivelato, che cioè tecnici americani avrebbero
riscontrato presenza di giacimenti petroliferi vicino a Mogadiscio?
Umberto
Croppi
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