«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 1 - 31 Gennaio 1993

 

i documenti-memoria

Dichiarazione di morte per il diktat


 

Rifondare l'Italia. È l'imperativo a cui deve ispirare ogni azione politica dopo la lunga, sordida e laida stagione dei partiti. Rifare la nostra Patria dopo il buio periodo in cui le fazioni cieche, il manicheismo partigiano, il maramaldismo dei vincitori, il nostalgismo dei vinti hanno messo in ginocchio, peggio che nella guerra perduta, la dignità di un popolo ormai agonizzante, debilitato dalle flogosi tribali seppure ipervitaminizzato da un processo consumistico che ne ha ingrassato la carne ma denutrito l'anima.
Siamo all'Anno Zero. Per i partiti, cosche immonde di pustole suppurate, s'alza il deprofundis.
Ma da dove si ricomincia? Un principio ci deve essere per non scadere nell'iconoclastia sterile. E l'inizio deve aversi laddove incominciò la nostra fine di popolo e principiò lo scorazzamento delle bande che, mentre la Patria era in guerra, si misero al servizio del nemico.
Strappiamo finalmente quel Trattato di Pace che in un mesto giorno, il 10 febbraio 1947 e nella Città dei Lumi, sancì la nostra fuoriuscita dalla storia. Era l'epilogo d'una terrificante storia di morte culminata nel disastro dell' 8 settembre per esplodere nel terrore e nella ferocia della guerra civile.
Perché ci si ostina ancora in trattazioni dal sapore falsamente stantio? Perché si è convinti che poca della nostra gente sa cosa ci sia scritto in quei 90 articoli del Protocollo. E tanti di quei disposti contengono la spiegazione di molte situazioni attuali, che sembrano inspiegabili. Si farà perciò in questa sede una carrellata di argomentazioni, sperando di dare un contributo, seppure modesto, infinitesimo, alla causa della rinascita della nostra Patria. E viva la convinzione che si è europei perché italiani. Il contrario non fa per noi.
Stracciare il Trattato di Parigi non significa però darsi in pasto al più becero revanchismo. Noi non militiamo nel partito dei dannunziani da scrivania. D'Annunzio resta un esempio di soldato. Smargiasso per quanto si vuole ma alle parole faceva seguire i fatti e pagava di persona. Noi non rivendichiamo Briga e Tenda, Tien-Tsin e Chaberton. Nemmeno l'Istria.
Noi prendiamo atto della storia e delle miserie dei suoi uomini. Le patrie si conquistano con il sangue, non con le sfilate e nemmeno con la logorrea. Ai primi sintomi dell'attuale crisi jugoslava occorreva approfittare. Ai dannunziani da scrivania occorre ricordare che D'Annunzio prese Fiume con un colpo di mano. Mano armata. Non con le interrogazioni parlamentari.
Ciò detto, riprendiamo il filo del discorso affermando che ben altre sono le nostre rivendicazioni e si sostanziano nel perseguimento dell'autodeterminazione del nostro popolo, nella sovrana capacità di decidere, liberi dai ceppi che hanno fatto dell'Italia una colonia dell'Impero del Male.
Noi non abbiamo più conti in sospeso. I nostri debiti sono stati tutti onorati. Materialmente e spiritualmente. Il Trattato di Parigi c'impose il pagamento in sette anni di 360 milioni di dollari (valuta 1947) in conto di riparazione per danni di guerra alle nazioni vincitrici, a cui va aggiunta la perdita di proprietà delle installazioni e attrezzature industriali situate in territori ceduti, relative sia alla distribuzione dell'acqua, sia alla produzione e alla distribuzione del gas e dell'elettricità, più i beni delle società italiane in quei territori. Cedemmo armamenti e impianti, frutto del lavoro italiano di generazioni. Non ci fu riconosciuta alcuna dignità di popolo. Il famigerato e mai abbastanza deplorato articolo 16 («L'Italia non perseguirà né inquisirà i cittadini italiani, particolarmente i membri delle forze armate, per il solo fatto di avere, nel periodo compreso fra il 10 giugno 1940 e la data di entrata in vigore del presente Trattato, espresso la loro simpatia verso la causa delle Potenze Alleate e Associate o di avere svolto un 'azione in favore di questa causa») consacrò la «nobiltà» del traditore in genere e di quello militare in particolare.
Ma fece di più. Permise l'assurgere ai piani alti dello Stato di esseri abietti i quali, mentre un popolo moriva nelle sabbie dell'Africa, sugli altipiani della Grecia, nelle steppe della Russia, nei cieli infuocati, sopra e sotto i mari ribollenti, dietro i reticolati della terra, trescavano con il nemico. Valevano il costo di una pallottola nella schiena; li riconobbero come dignitari di Stato.
Noi ci siamo pagate (art. 71) a prezzi da strozzo, completamente in balia del volere dei «liberatori» «tutte le spese sostenute per il trasferimento dei prigionieri di guerra italiani, comprese le spese di mantenimento, da ogni rispettivo centro di rimpatrio, scelto dal Governo delle Potenze Alleate e Associate interessate, fino al luogo d'ingresso sul territorio italiano».
Pensarono a tutto, le Potenze Alleate e Associate. Con l'art. 76 lavarono i dubbi scrupoli di coscienza della divisione "Buffalo", la famigerata unità che legherà il suo nome alla vergogna della Pineta di Tombolo, dove la carne e l'anima d'un popolo divennero mercé di postribolo per placare i bassi istinti delle orde di occupazione. Legalizzarono il turpe operato del "X Tabor" marocchino, agli ordini del maggiore francese Poulet-De-sbarens, che in Ciociaria e all'isola d'Elba si rese responsabile delle tristemente famose «marocchinate». Lavarono l'onta di averci riportato la mafia in Sicilia e la camorra nel Napoletano. Ci costrinsero ad accettare che «...l'Italia rinuncia, a nome del Governo e dei cittadini italiani a far valere contro le Potenze Alleate e Associate [...] le rivendicazioni risultanti dalla presenza, dalle operazioni o dall'azione delle forze armate o delle autorità di Potenza Alleata e Associata sul territorio italiano».
Il generale Juin, comandante del Corpo di Spedizione francese in Italia, è meno colpevole del maggiore Kappler? L'economia italiana fu ulteriormente devastata dall'immissione delle «am-lire» del valore di carta straccia. Ci obbligarono (art. 76 - capo 4) ad assumere «la piena responsabilità di tutta la valuta militare alleata emessa in Italia dalle Autorità Militari Alleate, ivi compresa tutta la valuta di questa natura in circolazione alla data dell'entrata in vigore del presente Trattato». C'impiegheremo anni a riprenderci.
Lo meritavamo? Quando si perde, bisogna chinare il capo. Ma non «ci liberarono». Sostituirono soltanto le catene e le loro sono state più grevi. Perché le portiamo ancora ai polsi. E son passati cinquant'anni.
L'ingiustizia di quel Trattato, lo scempio del principio di diritto lo permearono totalmente. Quel che a noi vinti veniva vietato con l'art. 16, veniva ordinato con l'art. 45: «L'Italia prenderà tutte le misure necessarie per assicurare l'arresto e la consegna a scopo di giudizio [...] dei cittadini di tutte le Potenze Alleate e Associate accusati di avere infranto le leggi dei loro paesi commettendo atti di tradimento o collaborando con il nemico durante la guerra». È la canonizzazione legislativa del calvario di Ezra Pound. È la condanna definitiva a marcire in terra sconsacrata delle povere ossa di Carmelo Borg Pisani, l'eroe martire del cappio di Sua Maestà Britannica. Non possiamo reclamare nemmeno le spoglie miseramente abbandonate sotto un cumulo di terra anonima da un fratello prete nel carcere di La Valletta. Borg Pisani, che amò l'Italia come null'altro.

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In queste settimane il Tricolore è tornato a garrire nel cielo di Mogadiscio e si sa degli «screzi» fra italiani e americani, gli stupidi veti all'invio del contingente militare nostro, i pretesti accampati dai padroni a stelle e strisce per frenare l'intervento in una zona di naturale influenza italiana. La causa risiede nel disposto dell'art. 34 - 2° capoverso del Trattato: «L'Italia rinuncia ugualmente a rivendicare ogni interesse speciale ed ogni influenza particolare in Etiopia». Non ingannino i termini nomogeografici: l'Etiopia, nel 1947, comprendeva anche Eritrea e Somalia. È da ritenere apprezzabile la determinazione del ministro Andò: i soldati italiani sono di nuovo sul suolo africano, a dispetto dell'America e in nome di un vincolo storico che lega il nostro popolo al destino di quelle popolazioni.
Il Trattato di Pace limita fortemente l'esercizio della sovranità nazionale allorquando affronta gli aspetti militari dell'Italia. Qui è d'obbligo una premessa: non si auspica alcuna «politica delle cannoniere» né revanchismo antistorico. Tantomeno però si può condividere il pensiero di Cossiga che vuole «un Paese che non sarà una grande potenza politica, che non sarà una grande potenza militare e, forse, questa è una benedizione di Dio». E meglio tener fuori da queste miserie umane l'Onnipotente e la potenza delle Nazioni la determinano gli uomini. Solo la rassegnazione è dei mediocri. Noi non vagheggiamo «volontà di potenza» ma è ora di mettere fine al nostro servaggio. Anche perché l'art. 46 {«Ciascuna delle clausole militari, navali e aeree del presente Trattato resterà in vigore fino a quando non sarà stata modificata, in tutto o in parte, per accordo fra le Potenze Alleate e Associate e l'Italia, o dopo che l'Italia sarà divenuto membro dell'ONU, mediante accordo fra il Consiglio di Sicurezza e l'Italia») prevede la possibilità di revisione di queste clausole iugulatorie.
Naturalmente deve essere l'Italia a riaprire il discorso perché non si può pensare che ci venga elargito quello che per mezzo secolo ci è stato negato. A S. Vito dei Normanni, in provincia di Brindisi, c'è una grande base militare USA che da qualche mese ha chiuso i battenti. L'esistenza di questo presidio di occupazione vietava all'Italia, a norma dell'art. 48 - capo 6 del Trattato, di costruire installazioni militari permanenti «nella penisola della Puglia, a est del meridiano 17° 45'». Questa base è terra italiana. La rivogliamo. Come rivogliamo la potestà a stabilire se in Sicilia e in Sardegna dobbiamo o meno avere installazioni militari.
C'è una sottigliezza appena percettibile ma tanto penalizzante nell'art. 50 («In Sicilia e in Sardegna tutte le installazioni permanenti così come il materiale destinati alla manutenzione e all'immagazzinamento di siluri, di mine marine e di bombe saranno, sia demoliti, sia trasferiti nell'Italia continentale nell'arco di tempo di un anno a partire dall'entrata in vigore del presente Trattato»). L'applicazione di queste norme determina la mancata creazione di autosufficienza delle due maggiori isole italiane. L'aspetto geografico di esse, i larghi bracci di mare che le separano dal continente le condannano ad una caducità estrema. Mentre a La Maddalena possono tranquillamente albergare i sottomarini nucleari di zio Sam, fatto questo che dovrebbe contrastare con i disposti testé firmati nell'ambito dell'accordo italo-francese, che ha trasformato le Bocche di Bonifacio in un grande parco marino. Il Ministro dell'Ambiente Ripa di Meana dovrebbe fare mente locale su certi argomenti: se in quello Stretto è vietata la navigazione alle petroliere (fatto encomiabile) non vi possono scorrazzare ordigni alimentati ad energia nucleare.

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Ci sono quattro articoli che pretendono di regolare i nostri affari con la Germania e il Giappone.
L'art. 52 c'impone il divieto d'acquisto «all'interno o all'estero di materiale bellico d'origine tedesca o giapponese, così come la costruzione su piani tedeschi o giapponesi, così come la fabbricazione di questo materiale».
L'art. 68 ci vincola a collaborare con le Potenze Alleate e Associate «allo scopo di mettere la Germania e il Giappone nell'impossibilità di adottare, fuori dai territori tedesco e giapponese, misure tendenti al loro riarmo».
L'art. 69 impegna l'Italia «a non autorizzare, sul territorio italiano né l'impiego né la preparazione di tecnici, compreso il personale dell'aeronautica militare e civile che sono o sono stati cittadini tedeschi e giapponesi».
L'art. 70 ci intima «a non acquistare o fabbricare alcun aereo civile di modello tedesco o giapponese, o dotato di importanti elementi di fabbricazione o di progettazione tedesca o giapponese».
Siamo completamente asserviti all'industria americana. I proventi del nostro lavoro devono per forza finire fra le grinfie della McDouglas, della Lockheed e della Rockwell. Sono i sacerdoti dell'economia di mercato e poi agiscono in regime di monopolio. Bolscevizzazione del capitalismo. Chi può ancora sostenere che non siamo un popolo di servi? E se dovesse capitare che la Germania e il Giappone dovessero rivedere alcuni loro comportamenti; com'è sicuro che avverrà, dovremo rischiare in proprio, aggiungere al danno la beffa? Le limitazioni imposteci cinquant'anni fa non hanno più forza di esistere. Noi abbiamo già dato.
La flotta italiana non ha più navi d'altura; l'ultima è andata in disarmo qualche mese fa. Non ci sono rimpiazzi. Perché? Non è l'art. 59 comma 1 che vuole «... l'Italia non costruirà, acquisterà o rimpiazzerà alcuna nave da battaglia»! La Marina Italiana ha varato l'incrociatore «tutto ponte» G. Garibaldi. È l'ammiraglia della flotta italiana. In realtà è una piccola portaerei, che doveva appaiarsi al gemello G. Mazzini ancora a livello di progetto. Una portaerei abbisogna di aerei. Dovevano essere acquistati i «Sea Harrier» a decollo verticale. Non s'è fatto più nulla «per mancanza di fondi». Non è entrato in vigore il disposto dell'art. 59 comma 2 che recita: «L'Italia non costruirà, acquisterà, utilizzerà o sperimenterà alcuna portaerei [...]»?
L'aviazione non se la passa meglio. L'art. 64 vuole che sia limitata «a 200 apparecchi da caccia e da ricognizione e da 150 apparecchi da trasporto, da salvataggio in mare, da istruzione e da collegamento. In queste cifre totali saranno compresi gli apparecchi di riserva. [...] L'Italia non possiederà o acquisterà alcun apparecchio progettato essenzialmente come bombardiere [...]».
Quando in Iugoslavia cadde un CI30 Hercules italiano carico di coperte, e l'equipaggio perì, la stampa gridò allo scandalo perché l'aereo era disarmato, contrariamente agli stessi modelli di altre nazionalità. E si gridò alla solita inefficienza italiana. Non si tratta di tanto. È ben altro. Infatti il già citato art. 64 impone: «Eccezion fatta per gli aerei da caccia e da ricognizione, nessun apparecchio sarà munito di armamento». Il CI30 è un aereo da trasporto. Ecco cosa siamo: bersagli mobili e carne da cannone. Ma c'è di più. La nostra aviazione, oltre ad essere inservibile in quanto a vetustà dei velivoli, non potrà mai essere efficiente. Il comma 2 dell'art. 65 prevede che «nessuna forma di istruzione militare o aeronautica sarà data a persone non facenti parte dell'A.M.L». Che significa?
Innanzitutto che non ci è consentito il mantenimento di una riserva. La maggior parte dei piloti è composta di complementi che dopo cinque anni di ferma lasciano il servizio militare, allettati dalle cospicue somme che l'aviazione civile elargisce loro. Quando un pilota dismette «le stellette» non può più essere richiamato per corsi di aggiornamento in quanto «non facente parte dell'A.M.L». Si arguisce che succede in un campo in cui l'evoluzione tecnologica è quasi quotidiana.
Dell'esercito è meglio tacere. Non possiamo avere cannoni di gittata superiore a 30 km (art. 51 ) e più di 200 carri armati e medi (art. 54). L'art. 61 fissa l'organico dell'Esercito in 250mila uomini, compresi i Carabinieri e la Guardia di Finanza. Non possono esistere riserve gesuiticamente vietate dall'art. 63 («Non sarà data alcuna forma di istruzione militare, a personale non facente parte dell'esercito italiano e dei Carabinieri»).
La disamina, sia pure non approfondita, si conclude qui. Le considerazioni ulteriori le lasciamo al lettore. E ci piacerebbe che si aprisse un dibattito al riguardo. Quel che si vuole rimarcare è un dato, sul quale si vuole insistere seppure ripetitivo. Noi non auspichiamo alcun riarmo. Possiamo decidere anche di sciogliere le Forze Armate Italiane. Ma rivendichiamo il diritto di farlo da noi. Come popolo sovrano. Senza che alcuno c'imponga più quel che dobbiamo o non dobbiamo fare.
Quando le chiavi dell'uscio sono in mani altrui, non si può invocare la violazione di domicilio. In casa propria non si può vivere da famigli. Questo accade quando «chi non sa comandare, va a servire».

 

Vito Errico

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