«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 1 - 31 Gennaio 1993

 

le poesie

 

EZ, Zero.
Omaggio a Ezra Pound


 

Guido superbo, che fai, chiedi limosine?

Ti è cresciuta la barba sul pianto

che si è seccato all'estate rovente

ed olezzi di sudore e d'orina

come un cristiano che la carne non risparmia

dalle oscure vergogne di Adamo.

Polvere e sangue ti bruttano la faccia

che fu sì fiera un giorno, Guido altero!

Se l'oleandro succhia via il malinconico

oscillare della tua testa vecchia,

rose di mosche ti fanno compagnia

al folgorare del leone sole.

Bevevi ieri l'oro che palpita

tra gli alchimisti intorno a San Giovanni

e azzardavi un Cristo un po' precoce

per i figlioli del giglio, che a Manes

non preparavano nodi scorsoi,

quando la notte non imputridiva

per le carcasse dei giusti mescolate

ai vermi della terra troppo in ansia

di ingozzare il latte dei suoi figli,

il miele rosso e nero dell'origine.

Guido di zolfo, che fai, mendichi pietas?

Bada, a Firenze nidifica Gerolamo

accoccolato sulla sua cenere,

è là che cova le vendette di Jahvè,

nella fucina deserta di filosofi

lavora indefesso a tuoni e fulmini.

Muore il Lorenzo della giovinezza

nel livore piagnone ed il fuoco

non ha caro il sorriso dell'ebbrezza.

Sia lieto chi vuoi esser lieto, Guido!

Ma quest'Arianna che avanza sfilacciata

mite come una mucca che sa gli anni

e il suo bavoso Bacco sciancato

che sciaborda stornelli all'autunno

non hanno fianchi forti, non ingravidano

neppure il vento fiacco che srotola

fiati malsani sopra la marina.

Se le ore franano nell'orologio

ed il negro ti getta noccioline,

cavalca bene la tua scimmia, Guido!

Impara, gioca con l'ombra della coda,

sono sale della terra le smorfie

del prigione che imita l'uomo,

dell'imbestiato Dio galeotto.

Polvere e sangue vi bruttano la faccia,

prence Alighieri, prence Cavalcanti,

di voi sbigottisce il Ghibellino

che si regge sbruciacchiato sull'orlo

dell'arca in città che ha nome Dite

coi gravi cittadin, col grande stuolo.

Guido sdrucito, carezzi le ginocchia

di Sarzana, animale poco casto,

non assomiglia al passero di Lesbia

che deliziò la foia di Catullo,

non effonde trilli francescani

in laude Christi, in laude Mariae.

Non vi è carne toscana a Sarzana

e neppure vi guizza il pesce ligure,

è terragno e roccioso questo impasto,

spurga fuori da un ventre barbarico,

come schiuma d'Europa zingaresca,

pulviscolo celtico ed illirico

per lupastre italiote in calore.

Chiocciano aspre qui le litanie

davvero Christus non vincit nec regnat,

penzola il Veltro dall'arbusto di Piero

di sé assassino, nutritor di Arpie,

grufolano liete le scrofe pasquali

con la lonza leggera e presta molto

che è coverta di pel maculato.

Nomi e Numi, Albi ed Alba Longa,

per gli Indiani cacciati in riserva

a ubriacarsi di nostalgia!

Fuma l'incenso degli onori funebri,

tossico lentamente illanguidisce

lumi residui nelle chiese cave,

strapazza il marmo la pietra rissosa,

il vilucchio sperpera l'alloro,

pesticcia il piede crani e papaveri,

celesti Yang e Yin, dov'è l'appuntamento?

L'armonia è deserta, l'armonium

taglia stonato la siepe appiccicosa

del trionfale chewing gum, dello sperma,

andiamocene a puttane stasera,

signore signora e signorina

ci regalano cosce e pallore

tra lavanda, menta e nepitella.

Ed intanto sulla porta del casino

raccoglie lilleri il Milite Ignoto,

figlio di lacrime napulitane.

Ingrigiano le tempie, il cielo è curvo,

gli ultimi conti, gli estremi contadini

chiedon udienza a Proserpina, nel fondo

dove corre l'acqua bruna e il lamento,

e il color pèrso tinge la fronte.

Guido appassito, vecchiuzzo senza denti,

che fai, vendi tremori e svenimenti?

Ti si intreccia alle dita la limosina,

l'usuriere non compra rosari.

E la lingua si allappa e si aggroviglia,

non sguardi, non dardi di Madonna

ti cingono d'assedio a Primavera,

e se anche il Borgia risparmiò l'Aurora

Franklin Del ano ha troppa rabbia da smaltire.

Pure l'oltraggio è omaggio reso al Vero,

la scimmia pulciosa è una regina

incontrastata in mezzo al fioccare

del fuoco pregno sulla pianura.

Buona compagna, la solitudine

ha qui convocato le sue schiere,

ma l'incalzano terre desolate

dove il volgo profano ammaestra

il goffo orso che a Carnevale

ballerà per gli usurpatori.

Mentre Cassandra dall'inviolato sacerdozio

strillerà uteri e maledizioni

e Odisseo porterà al pascolo

qualche banchiere tra le mura di Troia,

prima che sale e acqua lo schiantino

nel folle volo alle Colonne d'Ercole.

Perché non spera di tornar giammai,

ballatetta, in Toscana.

Guido col capo chino verso terra

canta l'offensum foedus e il nigrum vulnus.

Ma è carne e strame per i botoli rabbiosi

l'orazione che naufraga in silenzio.

Intanto come tafani funesti

sciamano le donne che pietrificano

e le ciane depongono le uova

sui pavimenti delle chiese intasati

dagli occhi avidi dei lustrascarpe.

E tu sgomento cavalchi, Cavalcanti,

la follia delle illusioni stremate,

puntite gobbe di nuvole in tonsura

di fieri fulmini rovineggianti,

tumultuanti eserciti di eletti

elettrificati di speranza,

avventurose groppe di nebbia

macinate dall'urlo che fotte,

notti amorose se mai ve ne furono,

bandiere, stemmi se mai ve ne furono.

Se mai vi fu Ben, se c'è stato,

con la Clara, povera carne agganciata.

Guido, siamo in gabbia, c'è da ridere.

Sbirri rubizzi, scolte avvinazzate

sputano sull'olivo che si imbianca

e fa di santità pallidi i clivi,

pisciano sull'uva che ora abbevera

gli schiavi del negriero e i suoi nipoti.

Voi che per gli occhi mi passate il cuore

e destate la mente che dormìa

guardate all'angosciosa vita mia;

che la strapazza Amore strapazzato,

con le ali zuppe di risciacquatura,

incrosta il fango le penne bianche,

bianco di neve, di sponsali e lutti,

piega il gabbiano sulla sabbia miseranda,

perché in odio lo hanno cielo e mare.

A Dio spiacente ed ai nemici sui,

a lui non toccano neppure gli inferni,

né una provvista di cristiane budella.

Tommaso, Possum, perché non mi soccorri?

Butta via gli occhialini d'accademia,

vieni in gabbia cavalier Possum,

io, tu, Guido non ci stremo stretti

in fratellanza di giusta Follia,

Donna che ha intelletto d'Amore,

Donna del saluto e di salute.

Possum, ormai stanco di lustrare

le Madonne, le Regine, i Cristi Re

troppo pudichi per la mia barbacela,

vieni in gabbia libero uccello prigioniero,

non avere a schifo i tiranni.

Chi ti dice che il Signore non li ha unti?

Ben non curava la scrofola, mi dici?

Ben non guariva immonde malattie?

Ben raspava la terra e in officina

lavorava il metallo sinistro?

Ben giocava coi riccioli di Clara

impunito nel cuore adulterino?

Morto è il Figlio del Fabbro con la Ganza?

Non vedi tu la pietà del suo pianto?

Su la fiumana dove il mar non ha vanto

penzola la testa fracassata

dal troppo amore di Milano d'Europa.

Possum, ti rammenti Caterina,

chiara Madonna di Fontebranda,

la Benincasa di Siena, le sue stimmate?

Il suo fu monito, ed urlo, ed invito

della Dama al riottoso Cavaliere

sdraiato sul bel prato dell'inerzia.

«Se voi sarete quel che dovete essere

il fuoco per l'Italia metterete».

Te lo ricordi, Possum? Caterina

fu Santa da galera, fu regina

di conti contadini mendicanti

furibonda briccona sanguinaria,

mischiò il fato a bestemmie e ad agonie.

Sai, Possum, Ben strozzabeghine,

italiano maestoso puttaniere,

toro del sacrificio, incenerito

sull'ara di Piazzale Loreto

non homo novus, figlio di poveri,

adorato dal popolo e inchiodato

a una croce, lui e la ganza sua.

Ben imperiale dalla faccia cotta

dai raggi d'Africa, e poi solo invasa

dagli occhi che continuano a bruciare,

lui, dux, e servus alla corte dei miracoli,

fece all'amore con Santa Caterina.

 

Mario Bernardi Guardi


da "Eira Pound 1972/1992"
Greco & Greco editore, Milano,
a cura di Luca Galles

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