Anno II - n° 1 - 31 Gennaio 1993
le poesie
EZ, Zero.
Guido superbo, che fai, chiedi limosine? Ti è cresciuta la barba sul pianto che si è seccato all'estate rovente ed olezzi di sudore e d'orina come un cristiano che la carne non risparmia dalle oscure vergogne di Adamo. Polvere e sangue ti bruttano la faccia che fu sì fiera un giorno, Guido altero! Se l'oleandro succhia via il malinconico oscillare della tua testa vecchia, rose di mosche ti fanno compagnia al folgorare del leone sole. Bevevi ieri l'oro che palpita tra gli alchimisti intorno a San Giovanni e azzardavi un Cristo un po' precoce per i figlioli del giglio, che a Manes non preparavano nodi scorsoi, quando la notte non imputridiva per le carcasse dei giusti mescolate ai vermi della terra troppo in ansia di ingozzare il latte dei suoi figli, il miele rosso e nero dell'origine. Guido di zolfo, che fai, mendichi pietas? Bada, a Firenze nidifica Gerolamo accoccolato sulla sua cenere, è là che cova le vendette di Jahvè, nella fucina deserta di filosofi lavora indefesso a tuoni e fulmini. Muore il Lorenzo della giovinezza nel livore piagnone ed il fuoco non ha caro il sorriso dell'ebbrezza. Sia lieto chi vuoi esser lieto, Guido! Ma quest'Arianna che avanza sfilacciata mite come una mucca che sa gli anni e il suo bavoso Bacco sciancato che sciaborda stornelli all'autunno non hanno fianchi forti, non ingravidano neppure il vento fiacco che srotola fiati malsani sopra la marina. Se le ore franano nell'orologio ed il negro ti getta noccioline, cavalca bene la tua scimmia, Guido! Impara, gioca con l'ombra della coda, sono sale della terra le smorfie del prigione che imita l'uomo, dell'imbestiato Dio galeotto. Polvere e sangue vi bruttano la faccia, prence Alighieri, prence Cavalcanti, di voi sbigottisce il Ghibellino che si regge sbruciacchiato sull'orlo dell'arca in città che ha nome Dite coi gravi cittadin, col grande stuolo. Guido sdrucito, carezzi le ginocchia di Sarzana, animale poco casto, non assomiglia al passero di Lesbia che deliziò la foia di Catullo, non effonde trilli francescani in laude Christi, in laude Mariae. Non vi è carne toscana a Sarzana e neppure vi guizza il pesce ligure, è terragno e roccioso questo impasto, spurga fuori da un ventre barbarico, come schiuma d'Europa zingaresca, pulviscolo celtico ed illirico per lupastre italiote in calore. Chiocciano aspre qui le litanie davvero Christus non vincit nec regnat, penzola il Veltro dall'arbusto di Piero di sé assassino, nutritor di Arpie, grufolano liete le scrofe pasquali con la lonza leggera e presta molto che è coverta di pel maculato. Nomi e Numi, Albi ed Alba Longa, per gli Indiani cacciati in riserva a ubriacarsi di nostalgia! Fuma l'incenso degli onori funebri, tossico lentamente illanguidisce lumi residui nelle chiese cave, strapazza il marmo la pietra rissosa, il vilucchio sperpera l'alloro, pesticcia il piede crani e papaveri, celesti Yang e Yin, dov'è l'appuntamento? L'armonia è deserta, l'armonium taglia stonato la siepe appiccicosa del trionfale chewing gum, dello sperma, andiamocene a puttane stasera, signore signora e signorina ci regalano cosce e pallore tra lavanda, menta e nepitella. Ed intanto sulla porta del casino raccoglie lilleri il Milite Ignoto, figlio di lacrime napulitane. Ingrigiano le tempie, il cielo è curvo, gli ultimi conti, gli estremi contadini chiedon udienza a Proserpina, nel fondo dove corre l'acqua bruna e il lamento, e il color pèrso tinge la fronte. Guido appassito, vecchiuzzo senza denti, che fai, vendi tremori e svenimenti? Ti si intreccia alle dita la limosina, l'usuriere non compra rosari. E la lingua si allappa e si aggroviglia, non sguardi, non dardi di Madonna ti cingono d'assedio a Primavera, e se anche il Borgia risparmiò l'Aurora Franklin Del ano ha troppa rabbia da smaltire. Pure l'oltraggio è omaggio reso al Vero, la scimmia pulciosa è una regina incontrastata in mezzo al fioccare del fuoco pregno sulla pianura. Buona compagna, la solitudine ha qui convocato le sue schiere, ma l'incalzano terre desolate dove il volgo profano ammaestra il goffo orso che a Carnevale ballerà per gli usurpatori. Mentre Cassandra dall'inviolato sacerdozio strillerà uteri e maledizioni e Odisseo porterà al pascolo qualche banchiere tra le mura di Troia, prima che sale e acqua lo schiantino nel folle volo alle Colonne d'Ercole. Perché non spera di tornar giammai, ballatetta, in Toscana. Guido col capo chino verso terra canta l'offensum foedus e il nigrum vulnus. Ma è carne e strame per i botoli rabbiosi l'orazione che naufraga in silenzio. Intanto come tafani funesti sciamano le donne che pietrificano e le ciane depongono le uova sui pavimenti delle chiese intasati dagli occhi avidi dei lustrascarpe. E tu sgomento cavalchi, Cavalcanti, la follia delle illusioni stremate, puntite gobbe di nuvole in tonsura di fieri fulmini rovineggianti, tumultuanti eserciti di eletti elettrificati di speranza, avventurose groppe di nebbia macinate dall'urlo che fotte, notti amorose se mai ve ne furono, bandiere, stemmi se mai ve ne furono. Se mai vi fu Ben, se c'è stato, con la Clara, povera carne agganciata. Guido, siamo in gabbia, c'è da ridere. Sbirri rubizzi, scolte avvinazzate sputano sull'olivo che si imbianca e fa di santità pallidi i clivi, pisciano sull'uva che ora abbevera gli schiavi del negriero e i suoi nipoti. Voi che per gli occhi mi passate il cuore e destate la mente che dormìa guardate all'angosciosa vita mia; che la strapazza Amore strapazzato, con le ali zuppe di risciacquatura, incrosta il fango le penne bianche, bianco di neve, di sponsali e lutti, piega il gabbiano sulla sabbia miseranda, perché in odio lo hanno cielo e mare. A Dio spiacente ed ai nemici sui, a lui non toccano neppure gli inferni, né una provvista di cristiane budella. Tommaso, Possum, perché non mi soccorri? Butta via gli occhialini d'accademia, vieni in gabbia cavalier Possum, io, tu, Guido non ci stremo stretti in fratellanza di giusta Follia, Donna che ha intelletto d'Amore, Donna del saluto e di salute. Possum, ormai stanco di lustrare le Madonne, le Regine, i Cristi Re troppo pudichi per la mia barbacela, vieni in gabbia libero uccello prigioniero, non avere a schifo i tiranni. Chi ti dice che il Signore non li ha unti? Ben non curava la scrofola, mi dici? Ben non guariva immonde malattie? Ben raspava la terra e in officina lavorava il metallo sinistro? Ben giocava coi riccioli di Clara impunito nel cuore adulterino? Morto è il Figlio del Fabbro con la Ganza? Non vedi tu la pietà del suo pianto? Su la fiumana dove il mar non ha vanto penzola la testa fracassata dal troppo amore di Milano d'Europa. Possum, ti rammenti Caterina, chiara Madonna di Fontebranda, la Benincasa di Siena, le sue stimmate? Il suo fu monito, ed urlo, ed invito della Dama al riottoso Cavaliere sdraiato sul bel prato dell'inerzia. «Se voi sarete quel che dovete essere il fuoco per l'Italia metterete». Te lo ricordi, Possum? Caterina fu Santa da galera, fu regina di conti contadini mendicanti furibonda briccona sanguinaria, mischiò il fato a bestemmie e ad agonie. Sai, Possum, Ben strozzabeghine, italiano maestoso puttaniere, toro del sacrificio, incenerito sull'ara di Piazzale Loreto non homo novus, figlio di poveri, adorato dal popolo e inchiodato a una croce, lui e la ganza sua. Ben imperiale dalla faccia cotta dai raggi d'Africa, e poi solo invasa dagli occhi che continuano a bruciare, lui, dux, e servus alla corte dei miracoli, fece all'amore con Santa Caterina.
Mario Bernardi Guardi
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