«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 1 - 31 Gennaio 1993

 

"Pagine Libere" e le ombre incoraggianti di Di Vittorio e De Ambris


 

CISNaL (Confederazione Italiana Sindacati Nazionali Lavoratori), l'organizzazione che i giornali, quando si degnano citarla, definiscono «di destra», suscitando l'ilarità di chi -noi, per esempio- sa come stanno le cose. Come stanno? La risposta comporterebbe un lungo discorso che qui non è davvero il caso di fare, se non altro perché lo spazio è tiranno, per esprimerci come i pubblicisti di provincia dell'Ottocento. Basterà dire, per rendersi conto di ciò che è la centrale sindacale presieduta dal dott. Ivo Laghi, che la linea da essa elaborata e portata avanti -in verità con molta coerenza- spesso e soprattutto volentieri si evidenzia in chiave gemellare a quella della minoranza ingraiana-comunrifondazionista della CGIL, rappresentata certo con molta dignità culturale e forte pulsione contestativa da Fausto Bertinotti. Altro che destra!
Del resto, non potrebbe «destreggiare» un raggruppamento proletario e di piccola borghesia impiegatizia che senza mezzi termini dichiara di ispirarsi al sindacalismo rivoluzionario, ossia a quel comparto del movimento operaio che fu in grado di vantare la militanza nelle sue file di un Corridoni ma anche di un Di Vittorio, dell'ideologo del fiumanesimo dannunziano ed esiliato antifascista Alceste De Ambris ma pure del di lui fratello Amilcare, personaggio di tutto spicco e di tutto rispetto nei quartieri alti del sindacalismo fascista di stampo rossoniano e cianettiano. Ciò a tacer d'altri e d'altro.
Di più: della inossidabile, perfetta indipendenza goduta dalla CISNAL relativamente al partito da cui pur prese vita all'albeggiare degli Anni Cinquanta, -il MSI, allora non ancora DN- ha garantito il segretario generale dott. Mauro Nobilia. E non occasionalmente, ma in veste ufficiale: durante una conferenza stampa conclusiva di un convegno internazionale dedicato alle tematiche sociali europee. Rispondendo a precise domande di giornalisti italiani e stranieri questo alto dirigente ha affermato con forza che l'adesione al Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale di tanti iscritti alla CISNAL è fatto che riguarda esclusivamente loro e non impegna in alcun modo e sotto nessun aspetto la Confederazione in quanto tale, decisissima a tenere ferme le distanze da tutti i partiti e le correnti di partito possibili e immaginabili. Soggiungendo, quindi, che nella CISNAL convivono in assoluta parità di diritti e di doveri operai, contadini, impiegati, intellettuali non soltanto missini ma anche, per esempio, democristiani, cattolici, senza partito, socialisti e, perfino, membri di Rifondazione Comunista.
Fin qui il dott. Nobilia. Nostra chiosa: a giudicare dai contenuti delle piattaforme rivendicative apprestate e, soprattutto, dalle polemiche orali e a mezzo stampa che le accompagnano, si ha netta la sensazione che la maggiore influenza sulla politica confederale sia esercitata piuttosto dai rifondazionisti che da tutti gli altri. La qual cosa, sia chiaro, non ci sorprende più di tanto e nemmeno suscita in noi l'«indignazione» moderatista. Tutt'altro! Anche se non siamo marxisti-leninisti e neppure pensiamo che lo siano Laghi, Nobilia e tutto il gruppo dirigente della Confederazione.

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Nell'editoriale firmato Arturo Cavallini comparso su uno degli ultimi numeri de "La meta sociale", settimanale ufficiale della CISNAL, leggiamo: «Nel momento in cui crollano le ideologie e in Italia si elaborano riforme costituzionali finalizzate alla nascita di pochi blocchi contrapposti, quel cupio dissolvi getta sconforto nelle anime degli uomini della CISNaL, decisi, per domani, a ricucire scissioni piaghe e ferite risalenti al 1914 e al 1921, per inseguire il sogno della battaglia finale e decisiva del lavoro contro il capitale, dell'operosità contro lo sfruttamento, dell'opificio contro la finanza».
Senza pretendere il ruolo di portavoce unico e privilegiato di un sepolcro generalmente amato e illustre -operazione ovviamente scorrettissima, ove divisata; giacché mai avemmo la ventura di una qualche dimestichezza con il personaggio che ora citeremo, anche per la nostra estraneità all'area politica e sindacale nella quale agiva-, riteniamo che il concetto contenuto nella proposizione estrapolata non avrebbe lasciato indifferente un Giuseppe Di Vittorio, cioè un patito dell'unità dei lavoratori, di tutti i lavoratori, e quindi, da buon ex militante nella corrente del «sindacalismo rivoluzionario», pure di quelli che nel '14 scelsero, come lui del resto, l'interventismo. E magari, successivamente, di fronte al dilemma «fascismo sì - fascismo no, Mussolini sì - Mussolini no, fecero una opzione diversa alla sua. Di più: senza neppure escludere quanti, ancora oggi, ritengono di doversi richiamare a quella scelta, valorizzandone l'interpretazione sociale, socializzatrice, di sinistra, qualificata come «fascismo-movimento» nelle profonde, originali analisi di Renzo De Felice. «Movimentismo» che riuscì ad esprimersi anche a livello istituzionale mediante uomini del calibro di un Edmondo Rossoni, di un Tullio Cianetti, di un Luigi Razza, di un Luigi Fontanelli, di un Arnaldo Fioretti, di un Amilcare De Ambris.
A proposito di quest'ultimo -ultimo, va da sé, in una elencazione puramente mnemonica, improvvisata; estranea a qualsivoglia gerarchizzazione nel senso dei galloni o, addirittura, delle collocazioni storiche-, facciamo subito presente che giungemmo a pienamente renderci conto non solo della eccezionale vocazione unitaria di Di Vittorio ma anche del non comune spessore umanistico della sua personalità seguendo da giornalisti, alle prime armi ma niente affatto disattenti, l'attività deambrisiana sul declinare della stagione terrena dell'ex alto dignitario del sindacalismo littorio. Il riferimento è al convulso, confuso, effervescente ma a suo modo vitale attivismo degli ambienti «existi» -ivi compresi quelli del reducismo di Salò- nella Roma di quarant' anni e passa or sono, ancora immersa nel clima e nei problemi di ogni genere del dopoguerra.
Bene: in quel periodo a cavaliere fra la fine degli Anni Quaranta e l'avvio degli Anni Cinquanta esisteva nella parte di Via Cavour, propinqua ai Fori Imperiali, la sede del Movimento Sindacalista Italiano -solitamente chiamato MOSI, per distinguerlo, a livello di sigla, dal MSI, con il quale solo una parte di esso deciderà poi di avere rapporti organici-, raccoglieva quei quadri sindacali provenienti dalla esperienza fascista intenzionati a non dare soluzione di continuità a ciò che consideravano più una missione che una professione; e tuttavia decisi a non concedersi ad un pentitismo banale e non di rado immorale.
Leader indiscusso, chiamato anzi «Maestro», manco a dirlo, Amilcare De Ambris. Direttore di "Vita del Lavoro", periodico ufficiale, Luigi Contu, sottosegretario al ministero delle corporazioni con Tullio Cianetti ministro, dal febbraio al 25 luglio '43: un sardo proveniente dal nazionalismo, destinato a collaborare col democristiano Paolo Bonomi alla Coldiretti e a confluire in un effimero movimento monarchico e di estrema destra capeggiato da Achille Lauro. Gruppo giovanile di formazione sindacalista rivoluzionario, corridoniano, con dentro ragazzi «repubblichini» usciti dal MSI «a sinistra», alcuni dei quali vari lustri dopo verranno in risalto come veri e propri personaggi storici del movimento operaio. Per esempio Ruggero Ravenna, grande stratega dell'«autunno caldo» in veste di segretario generale della UIL insieme a Luciano Lama e a Bruno Storti.
Slogan di codesti contestatori avanti lettera: «Fra la cellula e la parrocchia il sindacato». Pubblicazione per l'orientamento ideologico: «Carattere del sindacalismo politico».
Nell'espletamento del lavoro di cronisti ci toccò in sorte di assistere ad una riunione del Comitato Centrale del MOSI convocato per ascoltare comunicazioni di De Ambris relative a un colloquio con Giuseppe Di Vittorio. Si trattò di allocuzione di incommensurabile valore e interesse. Quel patriarca del sindacalismo «con un cuore antico», per dirla con Carlo Levi, dopo essersi soffermato con soddisfazione sul clima di grande cordialità che aveva presieduto all'incontro, rivelò che il leader della CGIL aveva secolui esaminato in positivo un progetto di confluenza dei sindacalisti già militanti all'ombra del Littorio -dei quali riconosceva non solo la buona fede e l'onestà, ma anche l'efficacia con cui avevano operato nell'ambito del Regime in prò dei lavoratori- nella Confederazione «unitaria». E non alla spicciolata, per adesioni individuali, bensì come corrente autonoma e presente nei quartieri alti dell'organizzazione. Tramite chi? Tramite De Ambris, naturalmente. «Mi ha fatto dei complimenti», disse l'esponente mosino. Con quali parole? Ecco: «Certo, tu avresti tutti i titoli e le qualità per rappresentare questa tendenza che in te si riconosce».
Non se ne fece niente. Troppo stretti, allora, i rapporti fra la CGIL e il partito che teorizzava e praticava il principio della subordinazione allo Stato-Guida (URSS) al Partito-Guida (PCUS), al Capo-Guida (Stalin). Legami talmente rigidi da vincolare duramente gli stessi impulsi autogestionali di vittoriani.
Ma qui ciò che conta è dimostrare lo spirito di grande apertura del famoso sindacalista di Cerignola, anche, staremmo per dire soprattutto, verso coloro che per oltre un quarto di secolo erano stati dall'altra parte della barricata. Soggiungeremmo -al fine di mettere bene a fuoco la dimensione, la qualità del suo impegno distensivo, recuperatorio, unitario- che le rette, cordiali intenzioni non erano circoscritte, anche a livello di relazioni personali, al solo De Ambris. Tutt'altro! Tante volte lo vedemmo salutare confidenzialmente Luigi Fontanelli, direttore de "Il Lavoro Fascista" (quotidiano ufficiale del sindacalismo mussoliniano), membro della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, uno dei massimi teorici del corporativismo, pupillo del Duce, i cui articoli spesso spiritosi e brillanti mandavano in solluchero il Fondatore dell'Impero non meno che il Rifondatore della CGIL.

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Come avrebbe reagito Giuseppe Di Vittorio alla determinazione dei dirigenti della CISNaL di «ricucire scissioni piaghe e ferite risalenti al 1914 ed al 1921 etc. etc»? Senza commettere la scorrettezza di attribuire apoditticamente a una figura storica di quella levatura pensieri e intendimenti perché a noi graditi, riteniamo di non essere lontani dal vero -sulla base di quanto testé riferito e induttivamente svilupparle- manifestando la convinzione che Egli non sarebbe restato indifferente al divisamento espresso da Arturo Cavallini nel fondo di "La Meta Sociale". Tanto più che l'Autore, nel concluderlo, formula questo simpaticissimo e confortevole auspicio: «Sussiste la speranza che, all'interno dell'ex partito socialista (sic! N.d.R.), come dell'ex partito comunista, esistano ancora uomini e donne decisi, con nuovi compagni di viaggio, a lottare per una opposizione sociale. Gli uomini della CISNaL li attendono con impazienza».
Dove Cavallini avrebbe potuto risparmiarsi la troppo facile battuta sul PSI -noi gente di area socialista non possiamo non rilevare ciò criticamente-, unica nota nonostante tutto stonata in un brano stupendo per originalità, chiarezza, coraggio politico. E giacché siamo in discorso vorremmo esternare un'altra persuasione in ordine, stavolta, al dirigente socialista che con Di Vittorio prima e con Agostino Novella poi fu segretario aggiunto della CGIL: l'on. Fernando Santi. Anche quest'altra simbolica, eccezionale figura del movimento operaio venne in luce quale fautore appassionato dell'unità di tutti indistintamente i lavoratori. Lo ricordiamo uomo di grande bontà e generosità, alieno da faziosità e settarismi. Emiliano schietto, probo, estroverso, proclive alla battuta sempre arguta mordace, mai cattivo e volgare, fu grande amico del fascista più «dialogico», accattivante e umanistico che sia dato immaginare: Alberto Giovannini, che tanto gli somigliava per caratteristiche spirituali.
A questo punto vorremmo comunicare al Lettore una precisa impressione. Secondo noi Giuseppe Di Vittorio non aveva un solo partito, bensì due. Il primo era, per così esprimerci, onnicomprensivo. Abbracciava, cioè, tutti i lavoratori: dovunque fossero, comunque la pensassero, qualsiasi tessera avessero in tasca, qualsivoglia esperienza avessero vissuto con il fascismo, con l'antifascismo, o, magari, restando ad ambedue estranei, in qualunque fede religiosa o addirittura in nessuna si riconoscessero. Va da sé che un tale «partito» non aveva, non ha, tessere, organizzazioni, sedi, ideologie precostituite, etc, diversamente dal secondo, il PCI, cui aveva aderito dopo la militanza nel sindacalismo rivoluzionario, con il quale aveva combattuto in Spagna dalla parte dei «rossi» e aveva sempre intrattenuto un rapporto problematico, anzi non di rado difficile e perfino drammatico -specie durante l'insurrezione ungherese del '56-, proprio a cagione del costante prevalere in lui delle ragioni del primo «partito», ragioni sempre libertarie, popolari, sociali e, in larga misura, nazionali.

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A oltre quarantanni da quella sorta di Camp David sindacale sarebbe immaginabile qualcosa di simile, o di analogo, a ciò che ebbe a verificarsi nello studio di Di Vittorio mentre ancora sanguinavano le piaghe -quelle rosse non meno di quelle nere- della guerra civile mentre l'Italia era poco più di un ammasso di macerie e di una sterminata aggregazione di sepolcri? Difficile dare una risposta esauriente e chiara. Certo, nihìl impossibile volenti, secondo ammonivano i remotissimi avi latini. Però, come ipotizzare -oggi come oggi; e senza un sodo, costante, paziente intelligente lavoro di ricostruzione psicologica, di igiene spirituale, di preparazione politica- un incontro al summit fra Ivo Laghi e Bruno Trentin? È sensazione nostra che il primo non si tirerebbe indietro mentre, versiamo in piena aporia per quanto attiene al secondo.
Intendiamoci: nutriamo grande stima per il segretario della CGIL e tuttavia è nostra impressione che sia figlio del suo tempo, della sua cultura di origine, di un partito che ha ormai abbracciato la «discontinuità» occhettiana. Trentin viene da una famiglia azionista e da una militanza giovanile azionista. Dell'azionismo mantiene certo i caratteri positivi (moralità, volontarismo, dedizione alla democrazia, altezza di intelletto), ma anche quelli negativi (moralismo carico di aggressività, élitismo, concezione giacobina della libertà, antifascismo intenso e vissuto in una chiave intransigentistica e demonizzante). Insomma: «Con i fascisti abbiamo chiuso i discorsi e i conti il 25 aprile '45».
In più: Occhetto non è Di Vittorio. Non viene dal sindacalismo rivoluzionario -anche se come segretario della FGCI fu ingraiano e perfino trotzkysta- ma da una Torino ricca di ricordi e suggestioni gielliste, certamente preziosi, pieni di fascino, stimolanti per tutti. Anche, magari, per chi ha dimestichezza con sponde culturali, con temperie ideologiche lontane, talvolta lontanissime, da quelle di Piero Gobetti e di Giustizia e Libertà.
Ma nulla, tuttavia, ci autorizza ad escludere che, pur in presenza di tutti questi elementi di negatività, fomite di apprensioni e di perplessità, possa accadere il... miracolo. Antonio Gramsci non ci ha forse insegnato che il «pessimismo della ragione» può essere bilanciato dal1'«ottimismo della volontà»?

 

Enrico Landolfi

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