"Pagine Libere" e le ombre
incoraggianti di
Di Vittorio e De Ambris
CISNaL (Confederazione Italiana
Sindacati Nazionali Lavoratori), l'organizzazione che i giornali, quando si
degnano citarla, definiscono «di destra», suscitando l'ilarità di chi -noi, per
esempio- sa come stanno le cose. Come stanno? La risposta comporterebbe un lungo
discorso che qui non è davvero il caso di fare, se non altro perché lo spazio è
tiranno, per esprimerci come i pubblicisti di provincia dell'Ottocento. Basterà
dire, per rendersi conto di ciò che è la centrale sindacale presieduta dal dott.
Ivo Laghi, che la linea da essa elaborata e portata avanti -in verità con molta
coerenza- spesso e soprattutto volentieri si evidenzia in chiave gemellare a
quella della minoranza ingraiana-comunrifondazionista della CGIL, rappresentata
certo con molta dignità culturale e forte pulsione contestativa da Fausto
Bertinotti. Altro che destra!
Del resto, non potrebbe «destreggiare» un raggruppamento proletario e di piccola
borghesia impiegatizia che senza mezzi termini dichiara di ispirarsi al
sindacalismo rivoluzionario, ossia a quel comparto del movimento operaio che fu
in grado di vantare la militanza nelle sue file di un Corridoni ma anche di un
Di Vittorio, dell'ideologo del fiumanesimo dannunziano ed esiliato antifascista
Alceste De Ambris ma pure del di lui fratello Amilcare, personaggio di tutto
spicco e di tutto rispetto nei quartieri alti del sindacalismo fascista di
stampo rossoniano e cianettiano. Ciò a tacer d'altri e d'altro.
Di più: della inossidabile, perfetta indipendenza goduta dalla CISNAL
relativamente al partito da cui pur prese vita all'albeggiare degli Anni
Cinquanta, -il MSI, allora non ancora DN- ha garantito il segretario generale
dott. Mauro Nobilia. E non occasionalmente, ma in veste ufficiale: durante una
conferenza stampa conclusiva di un convegno internazionale dedicato alle
tematiche sociali europee. Rispondendo a precise domande di giornalisti italiani
e stranieri questo alto dirigente ha affermato con forza che l'adesione al
Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale di tanti iscritti alla CISNAL è
fatto che riguarda esclusivamente loro e non impegna in alcun modo e sotto
nessun aspetto la Confederazione in quanto tale, decisissima a tenere ferme le
distanze da tutti i partiti e le correnti di partito possibili e immaginabili.
Soggiungendo, quindi, che nella CISNAL convivono in assoluta parità di diritti e
di doveri operai, contadini, impiegati, intellettuali non soltanto missini ma
anche, per esempio, democristiani, cattolici, senza partito, socialisti e,
perfino, membri di Rifondazione Comunista.
Fin qui il dott. Nobilia. Nostra chiosa: a giudicare dai contenuti delle
piattaforme rivendicative apprestate e, soprattutto, dalle polemiche orali e a
mezzo stampa che le accompagnano, si ha netta la sensazione che la maggiore
influenza sulla politica confederale sia esercitata piuttosto dai
rifondazionisti che da tutti gli altri. La qual cosa, sia chiaro, non ci
sorprende più di tanto e nemmeno suscita in noi l'«indignazione» moderatista.
Tutt'altro! Anche se non siamo marxisti-leninisti e neppure pensiamo che lo
siano Laghi, Nobilia e tutto il gruppo dirigente della Confederazione.
* * *
Nell'editoriale firmato Arturo Cavallini comparso su uno degli ultimi numeri de
"La meta sociale", settimanale ufficiale della CISNAL, leggiamo: «Nel momento in
cui crollano le ideologie e in Italia si elaborano riforme costituzionali
finalizzate alla nascita di pochi blocchi contrapposti, quel cupio dissolvi
getta sconforto nelle anime degli uomini della CISNaL, decisi, per domani, a
ricucire scissioni piaghe e ferite risalenti al 1914 e al 1921, per inseguire il
sogno della battaglia finale e decisiva del lavoro contro il capitale,
dell'operosità contro lo sfruttamento, dell'opificio contro la finanza».
Senza pretendere il ruolo di portavoce unico e privilegiato di un sepolcro
generalmente amato e illustre -operazione ovviamente scorrettissima, ove
divisata; giacché mai avemmo la ventura di una qualche dimestichezza con il
personaggio che ora citeremo, anche per la nostra estraneità all'area politica e
sindacale nella quale agiva-, riteniamo che il concetto contenuto nella
proposizione estrapolata non avrebbe lasciato indifferente un Giuseppe Di
Vittorio, cioè un patito dell'unità dei lavoratori, di tutti i lavoratori, e
quindi, da buon ex militante nella corrente del «sindacalismo rivoluzionario»,
pure di quelli che nel '14 scelsero, come lui del resto, l'interventismo. E
magari, successivamente, di fronte al dilemma «fascismo sì - fascismo no,
Mussolini sì - Mussolini no, fecero una opzione diversa alla sua. Di più: senza
neppure escludere quanti, ancora oggi, ritengono di doversi richiamare a quella
scelta, valorizzandone l'interpretazione sociale, socializzatrice, di sinistra,
qualificata come «fascismo-movimento» nelle profonde, originali analisi di Renzo
De Felice. «Movimentismo» che riuscì ad esprimersi anche a livello istituzionale
mediante uomini del calibro di un Edmondo Rossoni, di un Tullio Cianetti, di un
Luigi Razza, di un Luigi Fontanelli, di un Arnaldo Fioretti, di un Amilcare De
Ambris.
A proposito di quest'ultimo -ultimo, va da sé, in una elencazione puramente
mnemonica, improvvisata; estranea a qualsivoglia gerarchizzazione nel senso dei
galloni o, addirittura, delle collocazioni storiche-, facciamo subito presente
che giungemmo a pienamente renderci conto non solo della eccezionale vocazione
unitaria di Di Vittorio ma anche del non comune spessore umanistico della sua
personalità seguendo da giornalisti, alle prime armi ma niente affatto
disattenti, l'attività deambrisiana sul declinare della stagione terrena dell'ex
alto dignitario del sindacalismo littorio. Il riferimento è al convulso,
confuso, effervescente ma a suo modo vitale attivismo degli ambienti «existi»
-ivi compresi quelli del reducismo di Salò- nella Roma di quarant' anni e passa
or sono, ancora immersa nel clima e nei problemi di ogni genere del dopoguerra.
Bene: in quel periodo a cavaliere fra la fine degli Anni Quaranta e l'avvio
degli Anni Cinquanta esisteva nella parte di Via Cavour, propinqua ai Fori
Imperiali, la sede del Movimento Sindacalista Italiano -solitamente chiamato
MOSI, per distinguerlo, a livello di sigla, dal MSI, con il quale solo una parte
di esso deciderà poi di avere rapporti organici-, raccoglieva quei quadri
sindacali provenienti dalla esperienza fascista intenzionati a non dare
soluzione di continuità a ciò che consideravano più una missione che una
professione; e tuttavia decisi a non concedersi ad un pentitismo banale e non di
rado immorale.
Leader indiscusso, chiamato anzi «Maestro», manco a dirlo, Amilcare De Ambris.
Direttore di "Vita del Lavoro", periodico ufficiale, Luigi Contu,
sottosegretario al ministero delle corporazioni con Tullio Cianetti ministro,
dal febbraio al 25 luglio '43: un sardo proveniente dal nazionalismo, destinato
a collaborare col democristiano Paolo Bonomi alla Coldiretti e a confluire in un
effimero movimento monarchico e di estrema destra capeggiato da Achille Lauro.
Gruppo giovanile di formazione sindacalista rivoluzionario, corridoniano, con
dentro ragazzi «repubblichini» usciti dal MSI «a sinistra», alcuni dei quali
vari lustri dopo verranno in risalto come veri e propri personaggi storici del
movimento operaio. Per esempio Ruggero Ravenna, grande stratega dell'«autunno
caldo» in veste di segretario generale della UIL insieme a Luciano Lama e a
Bruno Storti.
Slogan di codesti contestatori avanti lettera: «Fra la cellula e la parrocchia
il sindacato». Pubblicazione per l'orientamento ideologico: «Carattere del
sindacalismo politico».
Nell'espletamento del lavoro di cronisti ci toccò in sorte di assistere ad una
riunione del Comitato Centrale del MOSI convocato per ascoltare comunicazioni di
De Ambris relative a un colloquio con Giuseppe Di Vittorio. Si trattò di
allocuzione di incommensurabile valore e interesse. Quel patriarca del
sindacalismo «con un cuore antico», per dirla con Carlo Levi, dopo essersi
soffermato con soddisfazione sul clima di grande cordialità che aveva presieduto
all'incontro, rivelò che il leader della CGIL aveva secolui esaminato in
positivo un progetto di confluenza dei sindacalisti già militanti all'ombra del
Littorio -dei quali riconosceva non solo la buona fede e l'onestà, ma anche
l'efficacia con cui avevano operato nell'ambito del Regime in prò dei
lavoratori- nella Confederazione «unitaria». E non alla spicciolata, per
adesioni individuali, bensì come corrente autonoma e presente nei quartieri alti
dell'organizzazione. Tramite chi? Tramite De Ambris, naturalmente. «Mi ha fatto
dei complimenti», disse l'esponente mosino. Con quali parole? Ecco: «Certo, tu
avresti tutti i titoli e le qualità per rappresentare questa tendenza che in te
si riconosce».
Non se ne fece niente. Troppo stretti, allora, i rapporti fra la CGIL e il
partito che teorizzava e praticava il principio della subordinazione allo
Stato-Guida (URSS) al Partito-Guida (PCUS), al Capo-Guida (Stalin). Legami
talmente rigidi da vincolare duramente gli stessi impulsi autogestionali di
vittoriani.
Ma qui ciò che conta è dimostrare lo spirito di grande apertura del famoso
sindacalista di Cerignola, anche, staremmo per dire soprattutto, verso coloro
che per oltre un quarto di secolo erano stati dall'altra parte della barricata.
Soggiungeremmo -al fine di mettere bene a fuoco la dimensione, la qualità del
suo impegno distensivo, recuperatorio, unitario- che le rette, cordiali
intenzioni non erano circoscritte, anche a livello di relazioni personali, al
solo De Ambris. Tutt'altro! Tante volte lo vedemmo salutare confidenzialmente
Luigi Fontanelli, direttore de "Il Lavoro Fascista" (quotidiano ufficiale del
sindacalismo mussoliniano), membro della Camera dei Fasci e delle Corporazioni,
uno dei massimi teorici del corporativismo, pupillo del Duce, i cui articoli
spesso spiritosi e brillanti mandavano in solluchero il Fondatore dell'Impero
non meno che il Rifondatore della CGIL.
* * *
Come avrebbe reagito Giuseppe Di Vittorio alla determinazione dei dirigenti
della CISNaL di «ricucire scissioni piaghe e ferite risalenti al 1914 ed al 1921
etc. etc»? Senza commettere la scorrettezza di attribuire apoditticamente a una
figura storica di quella levatura pensieri e intendimenti perché a noi graditi,
riteniamo di non essere lontani dal vero -sulla base di quanto testé riferito e
induttivamente svilupparle- manifestando la convinzione che Egli non sarebbe
restato indifferente al divisamento espresso da Arturo Cavallini nel fondo di
"La Meta Sociale". Tanto più che l'Autore, nel concluderlo, formula questo
simpaticissimo e confortevole auspicio: «Sussiste la speranza che, all'interno
dell'ex partito socialista (sic! N.d.R.), come dell'ex partito comunista,
esistano ancora uomini e donne decisi, con nuovi compagni di viaggio, a lottare
per una opposizione sociale. Gli uomini della CISNaL li attendono con
impazienza».
Dove Cavallini avrebbe potuto risparmiarsi la troppo facile battuta sul PSI -noi
gente di area socialista non possiamo non rilevare ciò criticamente-, unica nota
nonostante tutto stonata in un brano stupendo per originalità, chiarezza,
coraggio politico. E giacché siamo in discorso vorremmo esternare un'altra
persuasione in ordine, stavolta, al dirigente socialista che con Di Vittorio
prima e con Agostino Novella poi fu segretario aggiunto della CGIL: l'on.
Fernando Santi. Anche quest'altra simbolica, eccezionale figura del movimento
operaio venne in luce quale fautore appassionato dell'unità di tutti
indistintamente i lavoratori. Lo ricordiamo uomo di grande bontà e generosità,
alieno da faziosità e settarismi. Emiliano schietto, probo, estroverso, proclive
alla battuta sempre arguta mordace, mai cattivo e volgare, fu grande amico del
fascista più «dialogico», accattivante e umanistico che sia dato immaginare:
Alberto Giovannini, che tanto gli somigliava per caratteristiche spirituali.
A questo punto vorremmo comunicare al Lettore una precisa impressione. Secondo
noi Giuseppe Di Vittorio non aveva un solo partito, bensì due. Il primo era, per
così esprimerci, onnicomprensivo. Abbracciava, cioè, tutti i lavoratori:
dovunque fossero, comunque la pensassero, qualsiasi tessera avessero in tasca,
qualsivoglia esperienza avessero vissuto con il fascismo, con l'antifascismo, o,
magari, restando ad ambedue estranei, in qualunque fede religiosa o addirittura
in nessuna si riconoscessero. Va da sé che un tale «partito» non aveva, non ha,
tessere, organizzazioni, sedi, ideologie precostituite, etc, diversamente dal
secondo, il PCI, cui aveva aderito dopo la militanza nel sindacalismo
rivoluzionario, con il quale aveva combattuto in Spagna dalla parte dei «rossi»
e aveva sempre intrattenuto un rapporto problematico, anzi non di rado difficile
e perfino drammatico -specie durante l'insurrezione ungherese del '56-, proprio
a cagione del costante prevalere in lui delle ragioni del primo «partito»,
ragioni sempre libertarie, popolari, sociali e, in larga misura, nazionali.
* * *
A oltre quarantanni da quella sorta di Camp David sindacale sarebbe immaginabile
qualcosa di simile, o di analogo, a ciò che ebbe a verificarsi nello studio di
Di Vittorio mentre ancora sanguinavano le piaghe -quelle rosse non meno di
quelle nere- della guerra civile mentre l'Italia era poco più di un ammasso di
macerie e di una sterminata aggregazione di sepolcri? Difficile dare una
risposta esauriente e chiara. Certo, nihìl impossibile volenti, secondo
ammonivano i remotissimi avi latini. Però, come ipotizzare -oggi come oggi; e
senza un sodo, costante, paziente intelligente lavoro di ricostruzione
psicologica, di igiene spirituale, di preparazione politica- un incontro al
summit fra Ivo Laghi e Bruno Trentin? È sensazione nostra che il primo non si
tirerebbe indietro mentre, versiamo in piena aporia per quanto attiene al
secondo.
Intendiamoci: nutriamo grande stima per il segretario della CGIL e tuttavia è
nostra impressione che sia figlio del suo tempo, della sua cultura di origine,
di un partito che ha ormai abbracciato la «discontinuità» occhettiana. Trentin
viene da una famiglia azionista e da una militanza giovanile azionista.
Dell'azionismo mantiene certo i caratteri positivi (moralità, volontarismo,
dedizione alla democrazia, altezza di intelletto), ma anche quelli negativi
(moralismo carico di aggressività, élitismo, concezione giacobina della libertà,
antifascismo intenso e vissuto in una chiave intransigentistica e demonizzante).
Insomma: «Con i fascisti abbiamo chiuso i discorsi e i conti il 25 aprile '45».
In più: Occhetto non è Di Vittorio. Non viene dal sindacalismo rivoluzionario
-anche se come segretario della FGCI fu ingraiano e perfino trotzkysta- ma da
una Torino ricca di ricordi e suggestioni gielliste, certamente preziosi, pieni
di fascino, stimolanti per tutti. Anche, magari, per chi ha dimestichezza con
sponde culturali, con temperie ideologiche lontane, talvolta lontanissime, da
quelle di Piero Gobetti e di Giustizia e Libertà.
Ma nulla, tuttavia, ci autorizza ad escludere che, pur in presenza di tutti
questi elementi di negatività, fomite di apprensioni e di perplessità, possa
accadere il... miracolo. Antonio Gramsci non ci ha forse insegnato che il
«pessimismo della ragione» può essere bilanciato dal1'«ottimismo della volontà»?
Enrico
Landolfi
|