«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 2 - 15 Marzo 1993

 

l'ultima

Una porcata


«Né con lo Stato, né con le BR»
Leonardo Sciascia

«Frattanto i pesci dai quali discendiamo tutti
assistettero curiosi al dramma collettivo dì questo mondo
che a loro indubbiamente doveva sembrare cattivo
e cominciarono a pensare»
Lucio Dalla
, "Com'è profondo il mare"


Una porcata. Senza mezzi termini è una porcata. Che ancora Renato Curcio debba rimanere in carcere è una porcata. Anzi, peggio: è solo una vendetta. Una volgare inutile vendetta. Una vendetta consumata da uno Stato che per nascondere tutta la fragilità della sua etica, la vacuità del suo ruolo, finge un'implacabile e improbabile forza contro un uomo solo. Non si può ascoltare e vedere il videoclip di Francesco Baccini senza provare una strana sensazione di disagio, non si può ascoltare e vedere senza sentirsi coinvolti, perché non si può sfuggire all'obbligo della riflessione: «Comunicato n. 18. Lasciamo stare quel che è fatto. Comunicato di un uomo solo, torniamo insieme. Non sono mica matto, non sono mica matto. Son solo un uomo solo».
Renato Curcio è solo un uomo solo. Poteva fare paura la sua barba nera quando, impacciato dalle catene, inseguiva il proprio pugno chiuso di combattente comunista. Diamo pure il caso che poteva e voleva essere nemico del nostro orto. Forse partecipe nella decisione di crimini consumati dentro case ancora avvolte nel dolore. Riconosciuto senza ombra di dubbio di essere colpevole. Colpevole di avere teorizzato un suo personale paradiso marxista da condividere con gli altri suoi compagni, ma non ha mai tirato un colpo di pistola. Forse partecipe dell'infatuazione dei pistoleri venuti dopo, ma né più né meno dei tanti guru seminatori di odio a cui mai nessuno si è mai permesso di chiedere conto e ragione: come per esempio quella Giulia Maria Crespi, la sana borghesia milanese, il professore Carlo Muscetta e tutta la banda dei firmaioli stipendiati dal PCI.
Ma oggi è oggi. Ed oggi, a fronte della velocità degli anni, e di fronte al percorso carcerario lungo una vita, Renato Curcio può essere incriminato di sola solitudine, di capelli bianchi, e di silenzio. Nobile, sincero, onesto silenzio. Un ottocentesco vermut custodito dal silenzio. Un paradigma di solitudine su cui si interroga la memoria degli uomini liberi. E diventato dunque inevitabile: questa nostra stagione di italiani anni '90 ha un nuovo Silvio Pellico: dopo la coraggiosa sortita del presidente Francesco Cossiga che si adoperò per la scarcerazione di Curcio, il perdurare della detenzione altro non è stato che il migliore esempio per scoprire, qualora ci fosse stato bisogno di prove, che questo nostro regime è invecchiato nel dimenticatoio della sua coscienza, nel polveroso ripostiglio dell'ordine costituzionale. Questo Stato, nella sua falsa forza vendicativa, ha dimostrato di essere pari a una qualsiasi cameriera che spazza con ipocrita disinvoltura la polvere di casa sotto i tappeti per non assolvere alla pulizia. Giusto perché questo Stato nato dalla resistenza, nato dal patto americano, nato dal malaffare democristiano, nato, cresciuto e pasciuto nella mangiatoia del sistema tangentocratico mai e poi mai, ha potuto e voluto fare i conti con la sua stessa natura di perverso equivoco istituzionale. Non si possono rinchiudere in una cella i filmati di repertorio, i telegiornali in bianco e nero, il ricordo di anni che furono crudeli per tutti, gli anni in cui i confini fra i delitti e le vittime difficilmente potevano essere identificati.
Per tutte le sante volte che abbiamo letto "Storia della colonna infame". Ricordate? Leonardo Sciascia quasi implorava la gente dalle colonne de "Il Corriere della Sera" di leggere questo indispensabile capitoletto manzoniano. Erano anche i tempi dell'«affaire Moro». Questo regime, che non ha mai saputo dimettersi, consegnava nelle mani del carnefice il pilastro vivente del suo potere. Nello stesso momento in cui, per un capolavoro di crudele falsità, vittima e carnefice diventavano contemporaneamente strumento dello status quo. Dove credete che abbia conquistato i suoi capelli bianchi Francesco Cossiga? Sul fronte della disperazione di vedere un amico consegnato alla morte. E cosa credete abbia voluto fare ancora il regime contro il «picconatore» chiedendo la sua testa di Presidente della Repubblica e la sua onorabilità di servitore delle istituzioni? Proprio un nuovo caso Moro, con nuovi strumenti, con nuovi brigatisti, con nuovi cani da guardia. Con il terrorismo della stampa conformista, con la nauseante e delirante e ritardata difesa catto-comunista della costituzionalità parlamentare; inquisito infatti per «alto tradimento e attentato alla Costituzione».
I paradossi della storia: Renato Curcio e Francesco Cossiga oggi hanno entrambi i capelli bianchi. Entrambi esclusi dalla vendica verginità del regime. Paradossalmente insieme in un unico orizzonte. È appunto una porcata come tante che Renato Curcio resti ancora in carcere. Che lo dica Francesco Baccini può sembrare scontato, una soluzione di immagine rock per difendere la storia personale di un uomo che forse vuole solo essere dimenticato. Se lo dice per ricominciare a scrivere la storia può avere invece un grande significato. Oggi, noi italiani, più di tutti gli altri italiani di ieri, siamo «sensibili alle foglie».
 

Dragonera

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