Figli di una stessa Patria
Tutto trema, tutto frana. Questa
povera Italia offre di sé uno spettacolo ineffabile. Non ci sono più parole per
definire quello che ci capita: il glossario si esaurisce nella constatazione
delle macerie morali, sulle quali galleggiano i naufraghi. Neppure la
soddisfazione, che potrebbe essere legittima, di vedere questo regime crollare,
corrobora l'anima.
Lo sfacelo è immane mentre non fugano i timori di riciclaggio d'una classe
politica che ha fatto del gattopardismo la sua religione di vita. S'è come
annichiliti nell'asfissia del polverone che s'alza dalle rovine mentre la rotta
nuova è di là dall'essere tracciata. Siamo costretti a navigare a vista: non
sappiamo più dov'è la barriera corallina, non abbiamo più scandagli e gli scogli
sono dappertutto, celati dalla burrasca infida. È il caos che comunque precede
-la consapevolezza non può mancare, non deve- la nascita del nuovo.
Ma perché il nuovo sia tale, c'è bisogno di accantonare definitivamente quel
ch'è stato. A noi rimane un primato: quello d'aver festosamente salutato,
seppure con un distacco che non è stato indolore, la fuoriuscita dalle gabbie
ideologiche. Per troppo tempo le mani che tendevano a stringersi nel nome del
destino del nostro popolo e della nostra Patria sono state colpite dai fendenti
della storia e ogni volta si stringevano rabbiosamente a pugno, fino a premere
sui grilletti. E il sangue colava, denso e copioso, dal vivo delle lacerazioni,
ai cui rivoli si abbeveravano ingorde le iene che facevano scempio e brandelli
della nostra carne. Le ideologie, comodi idoli per quanti hanno sempre avuto
bisogno d'un nemico da odiare per sentirsi vivi... Oggi siamo al giro di boa
della storia seppure persistono scorie di vecchie mentalità. In quest'Italia che
frana sotto il peso delle vergogne nazionali, i cui califfi hanno gozzovigliato
e banchettato obliterando anche il rimasuglio d'una dignità uccisa a Cassibile,
quanto suona stridente la polemica da mercato di rione sul merito di celebrare
la morte di Giovanni Gentile con un'emissione filatelica.
Il professor Luciano Canfora, maitre à penser di area marxista, si oppone.
Perché? Leggiamo da "Il Giornale" (22.2.1993): «La sua commemorazione pura e
semplice finirebbe col riproporre in chiave positiva una vittima
dell'antifascismo». Vecchio arnese, questo Canfora, aduso al manicheismo d'un
tempo passato fortunatamente per sempre: un essere che senza nemici sarebbe come
morto. Al quale si contrappone ciò che Sergio Romano ha scritto ("La Stampa",
22.2.1993): «Uccidendo (Gentile, N.d.R.) i gappisti di Firenze commisero un
triplice peccato: contro l'intelligenza, contro l'umanità, contro il buon
senso».
Non si può ancora perdere tempo con queste diatribe sterili e scialbe. E
l'analisi che fa Romolo Gobbi ("Il mito della Resistenza", Rizzoli Ed.)
ricercatore di Storia presso l'Università di Torino, studioso di area operaista,
ci soccorre in maniera non sospetta: «II sistema politico nato dalla Resistenza
dimostra oggi tutta la sua debolezza congenita: l'unità antifascista, che si è
voluta mantenere a tutti i costi, ha impedito il formarsi in Italia di una vera
dialettica tra governo e opposizione, e quindi non ha consentito l'alternanza
nella gestione del potere. [...] Questo perdurare dell'ideologia resistenziale
ha prodotto guasti in molti Paesi, ma in Italia è stato determinante per la
nascita e lo sviluppo del terrorismo». Che ci è costato ancora sangue e dolore,
rinverdendo d'una cupa attualità quel fosco quadro che traspare dalle parole di
Pino Romualdi ("Fascismo repubblicano", SugarCo Ed.): «Nella triste e durissima
lotta quotidiana, i nostri morti e i loro si confondevano nel buio della guerra
civile».
Occorre superare i nostri drammi. Ricompattarci nella consapevolezza però che
tutto quel ch'è stato, ci appartiene come popolo. È politicamente sterile la
polemica che vede Franco Cardini schermare con Alfredo Cattabiani sulle pagine
de "L'Italia settimanale". Afferma il primo: «A scanso comunque di equivoci, sia
chiaro che a Custoza il mio posto sarebbe stato accanto ai fucilieri di Boemia».
Affonda il secondo: «Quanto a me [...] mi sarei trovato invece con i granatieri
di Sardegna e con tutti i patrioti, lombardi, romani, siciliani, che
combattevano nelle file del Regio Esercito; perché in quel momento il problema
era di cacciare gli austriaci». Schermaglie culturali, buone per comprendere il
senso della storia, ma nulla più. Altri sono i problemi della gente assillata da
un fisco rapace, da una classe politica da carcerare, dalla perdita del posto di
lavoro, da una sanità che uccide, da una scuola che non insegna.
In "Fine dell'Italia?" Marcello Veneziani giustamente sostiene: «La storia
dell'Italia è stata finora concepita in chiave antagonista come una storia
dimezzata ad uso celebrativo di chi ha vinto. In realtà la storia d'Italia è la
storia di due Italie che hanno pari legittimità e pari responsabilità, e che
appartengono entrambe interamente alla storia nazionale: sia il Risorgimento che
l'antirisorgimento, l'interventismo e i sostenitori della 'inutile strage", il
fascismo e l'antifascismo». La tesi è affascinante ma per poterla gustare
appieno c'è bisogno d'aver gettato alle ortiche la camicia di Nesso delle
ideologie. Fino a soffrirne. È stato detto (Y. de Begnac, "Taccuini
Mussoliniani", II Mulino Ed.): «All'improvviso, ci si accorge che gli uomini del
pianeta nel quale vivi non sono tutti simili. Tenti di far loro comprendere
l'impossibilità di esser loro prossimo. E, allora, te ne vai, e scopri che, di
là d'immensi canali di spazio, altre rive possono accogliere la tua solitudine.
Pianti le tende sulle rive di quella terra di cui non conosci il nome. Rimani
solo. Ma, almeno, continui a vivere».
Vivere sognando una libertà che si assapora dopo aver segato le sbarre che
trattenevano prigioniere le potenzialità dell'intelligenza, capace d'immaginare
nuovi scenari, riverberati dalla luce d'una grande Croce che sovrasti un'ideale
Valle de los Caidos, nella quale contenere gli spiriti e i corpi di Pellegrino
Rossi e di Luciano Manara, i cavalleggeri di Cialdini e i fantaccini di De Sivo,
i fucilieri di Boemia e i granatieri di Sardegna, i cannonieri di Bava Beccaris
e i cannoneggiati delle strade milanesi.
E giù, sempre più giù nella nostra storia: Giovanni Berta, affogato in Arno, e
Argo Secondari degli Arditi del Popolo, i fanti del CIL e i marò della Decima,
le penne nere della "Lunense" e le penne mozze della "Monte Rosa". I sette
fratelli Cervi e i sette fratelli Govoni. Silvio Corbari e Giuseppe Solaro; due
volte impiccati dall'unica ferocia della guerra civile, che indossava camicie
diverse ma spesso agiva d'uguale terrore.
Sangue chiama sempre sangue. Questo si deve capire davanti alla memoria di
Enrico Pedenovi e di Franco Serantini. È difficile farsene una convinzione
quando la storia ha lordato di sangue la strada percorsa da ognuno. Ma questo
sforzo ci è richiesto in nome del futuro dei nostri figli. Che non devono più
scannarsi. La conoscenza del retaggio del passato può esserci di facile aiuto.
Al Sud Vincenzo Tedesco, classe 1925, ardito della Divisione Corazzata «M», in
missione dietro le linee nemiche, viene catturato dagli americani. Lo fucilano
il 30 aprile 1944 nel vallone di S. Maria Capua Vetere. Prima di morire a
diciannove anni, scrive ai genitori: «Io cado ucciso dai nostri nemici, dopo
aver combattuto fino all'ultimo per la salvezza e la liberazione della Patria».
Al Nord i tedeschi catturano il Maggiore pilota Ugo Machieraldo, quattro
Medaglie d'Argento al V.M., due proposte d'analoga decorazione, Medaglia d'Oro
al V.M. Prima di metterlo contro il muro di cinta del cimitero d'Ivrea, dove
finirà il 2 febbraio 1945, scriverà alla moglie Mary: «Sono perfettamente sereno
nell'adempiere il mio dovere verso la Patria, che ho sempre servito da soldato
senza macchia e senza paura, sino in fondo. So che è col sangue che si fa grande
il paese nel quale si è nati, si è vissuti e si è combattuto».
Quel richiamo alla Patria di due italiani contrapposti, fucilati dallo
straniero, deve essere il concime di un nuovo domani, che abbia nelle tufare
delle Fosse Ardeatine e nelle foibe di Basovizza i templi del culto dell'amore
che si deve alla terra dei padri e sarà dei figli. Fare sintesi delle antitesi
della nostra storia di popolo, alla quale accedere sceverando il loglio dal
grano, ricompattando «i saggi per natura e i pentiti per ritorno alla saggezza».
Questa deve essere la nuova rivoluzione nello spirito col quale Stanis Ruinas
chiudeva il suo "Pioggia sulla Repubblica": «Se c'è qualcuno cui la parola
Patria non piace, s'impicchi. Patria vuol dire unità e indipendenza nazionale,
le cose a noi più care».
Vito
Errico
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