«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 2 - 15 Marzo 1993

 

Figli di una stessa Patria

 

 

Tutto trema, tutto frana. Questa povera Italia offre di sé uno spettacolo ineffabile. Non ci sono più parole per definire quello che ci capita: il glossario si esaurisce nella constatazione delle macerie morali, sulle quali galleggiano i naufraghi. Neppure la soddisfazione, che potrebbe essere legittima, di vedere questo regime crollare, corrobora l'anima.
Lo sfacelo è immane mentre non fugano i timori di riciclaggio d'una classe politica che ha fatto del gattopardismo la sua religione di vita. S'è come annichiliti nell'asfissia del polverone che s'alza dalle rovine mentre la rotta nuova è di là dall'essere tracciata. Siamo costretti a navigare a vista: non sappiamo più dov'è la barriera corallina, non abbiamo più scandagli e gli scogli sono dappertutto, celati dalla burrasca infida. È il caos che comunque precede -la consapevolezza non può mancare, non deve- la nascita del nuovo.
Ma perché il nuovo sia tale, c'è bisogno di accantonare definitivamente quel ch'è stato. A noi rimane un primato: quello d'aver festosamente salutato, seppure con un distacco che non è stato indolore, la fuoriuscita dalle gabbie ideologiche. Per troppo tempo le mani che tendevano a stringersi nel nome del destino del nostro popolo e della nostra Patria sono state colpite dai fendenti della storia e ogni volta si stringevano rabbiosamente a pugno, fino a premere sui grilletti. E il sangue colava, denso e copioso, dal vivo delle lacerazioni, ai cui rivoli si abbeveravano ingorde le iene che facevano scempio e brandelli della nostra carne. Le ideologie, comodi idoli per quanti hanno sempre avuto bisogno d'un nemico da odiare per sentirsi vivi... Oggi siamo al giro di boa della storia seppure persistono scorie di vecchie mentalità. In quest'Italia che frana sotto il peso delle vergogne nazionali, i cui califfi hanno gozzovigliato e banchettato obliterando anche il rimasuglio d'una dignità uccisa a Cassibile, quanto suona stridente la polemica da mercato di rione sul merito di celebrare la morte di Giovanni Gentile con un'emissione filatelica.
Il professor Luciano Canfora, maitre à penser di area marxista, si oppone. Perché? Leggiamo da "Il Giornale" (22.2.1993): «La sua commemorazione pura e semplice finirebbe col riproporre in chiave positiva una vittima dell'antifascismo». Vecchio arnese, questo Canfora, aduso al manicheismo d'un tempo passato fortunatamente per sempre: un essere che senza nemici sarebbe come morto. Al quale si contrappone ciò che Sergio Romano ha scritto ("La Stampa", 22.2.1993): «Uccidendo (Gentile, N.d.R.) i gappisti di Firenze commisero un triplice peccato: contro l'intelligenza, contro l'umanità, contro il buon senso».
Non si può ancora perdere tempo con queste diatribe sterili e scialbe. E l'analisi che fa Romolo Gobbi ("Il mito della Resistenza", Rizzoli Ed.) ricercatore di Storia presso l'Università di Torino, studioso di area operaista, ci soccorre in maniera non sospetta: «II sistema politico nato dalla Resistenza dimostra oggi tutta la sua debolezza congenita: l'unità antifascista, che si è voluta mantenere a tutti i costi, ha impedito il formarsi in Italia di una vera dialettica tra governo e opposizione, e quindi non ha consentito l'alternanza nella gestione del potere. [...] Questo perdurare dell'ideologia resistenziale ha prodotto guasti in molti Paesi, ma in Italia è stato determinante per la nascita e lo sviluppo del terrorismo». Che ci è costato ancora sangue e dolore, rinverdendo d'una cupa attualità quel fosco quadro che traspare dalle parole di Pino Romualdi ("Fascismo repubblicano", SugarCo Ed.): «Nella triste e durissima lotta quotidiana, i nostri morti e i loro si confondevano nel buio della guerra civile».
Occorre superare i nostri drammi. Ricompattarci nella consapevolezza però che tutto quel ch'è stato, ci appartiene come popolo. È politicamente sterile la polemica che vede Franco Cardini schermare con Alfredo Cattabiani sulle pagine de "L'Italia settimanale". Afferma il primo: «A scanso comunque di equivoci, sia chiaro che a Custoza il mio posto sarebbe stato accanto ai fucilieri di Boemia». Affonda il secondo: «Quanto a me [...] mi sarei trovato invece con i granatieri di Sardegna e con tutti i patrioti, lombardi, romani, siciliani, che combattevano nelle file del Regio Esercito; perché in quel momento il problema era di cacciare gli austriaci». Schermaglie culturali, buone per comprendere il senso della storia, ma nulla più. Altri sono i problemi della gente assillata da un fisco rapace, da una classe politica da carcerare, dalla perdita del posto di lavoro, da una sanità che uccide, da una scuola che non insegna.
In "Fine dell'Italia?" Marcello Veneziani giustamente sostiene: «La storia dell'Italia è stata finora concepita in chiave antagonista come una storia dimezzata ad uso celebrativo di chi ha vinto. In realtà la storia d'Italia è la storia di due Italie che hanno pari legittimità e pari responsabilità, e che appartengono entrambe interamente alla storia nazionale: sia il Risorgimento che l'antirisorgimento, l'interventismo e i sostenitori della 'inutile strage", il fascismo e l'antifascismo». La tesi è affascinante ma per poterla gustare appieno c'è bisogno d'aver gettato alle ortiche la camicia di Nesso delle ideologie. Fino a soffrirne. È stato detto (Y. de Begnac, "Taccuini Mussoliniani", II Mulino Ed.): «All'improvviso, ci si accorge che gli uomini del pianeta nel quale vivi non sono tutti simili. Tenti di far loro comprendere l'impossibilità di esser loro prossimo. E, allora, te ne vai, e scopri che, di là d'immensi canali di spazio, altre rive possono accogliere la tua solitudine. Pianti le tende sulle rive di quella terra di cui non conosci il nome. Rimani solo. Ma, almeno, continui a vivere».
Vivere sognando una libertà che si assapora dopo aver segato le sbarre che trattenevano prigioniere le potenzialità dell'intelligenza, capace d'immaginare nuovi scenari, riverberati dalla luce d'una grande Croce che sovrasti un'ideale Valle de los Caidos, nella quale contenere gli spiriti e i corpi di Pellegrino Rossi e di Luciano Manara, i cavalleggeri di Cialdini e i fantaccini di De Sivo, i fucilieri di Boemia e i granatieri di Sardegna, i cannonieri di Bava Beccaris e i cannoneggiati delle strade milanesi.
E giù, sempre più giù nella nostra storia: Giovanni Berta, affogato in Arno, e Argo Secondari degli Arditi del Popolo, i fanti del CIL e i marò della Decima, le penne nere della "Lunense" e le penne mozze della "Monte Rosa". I sette fratelli Cervi e i sette fratelli Govoni. Silvio Corbari e Giuseppe Solaro; due volte impiccati dall'unica ferocia della guerra civile, che indossava camicie diverse ma spesso agiva d'uguale terrore.
Sangue chiama sempre sangue. Questo si deve capire davanti alla memoria di Enrico Pedenovi e di Franco Serantini. È difficile farsene una convinzione quando la storia ha lordato di sangue la strada percorsa da ognuno. Ma questo sforzo ci è richiesto in nome del futuro dei nostri figli. Che non devono più scannarsi. La conoscenza del retaggio del passato può esserci di facile aiuto.
Al Sud Vincenzo Tedesco, classe 1925, ardito della Divisione Corazzata «M», in missione dietro le linee nemiche, viene catturato dagli americani. Lo fucilano il 30 aprile 1944 nel vallone di S. Maria Capua Vetere. Prima di morire a diciannove anni, scrive ai genitori: «Io cado ucciso dai nostri nemici, dopo aver combattuto fino all'ultimo per la salvezza e la liberazione della Patria».
Al Nord i tedeschi catturano il Maggiore pilota Ugo Machieraldo, quattro Medaglie d'Argento al V.M., due proposte d'analoga decorazione, Medaglia d'Oro al V.M. Prima di metterlo contro il muro di cinta del cimitero d'Ivrea, dove finirà il 2 febbraio 1945, scriverà alla moglie Mary: «Sono perfettamente sereno nell'adempiere il mio dovere verso la Patria, che ho sempre servito da soldato senza macchia e senza paura, sino in fondo. So che è col sangue che si fa grande il paese nel quale si è nati, si è vissuti e si è combattuto».
Quel richiamo alla Patria di due italiani contrapposti, fucilati dallo straniero, deve essere il concime di un nuovo domani, che abbia nelle tufare delle Fosse Ardeatine e nelle foibe di Basovizza i templi del culto dell'amore che si deve alla terra dei padri e sarà dei figli. Fare sintesi delle antitesi della nostra storia di popolo, alla quale accedere sceverando il loglio dal grano, ricompattando «i saggi per natura e i pentiti per ritorno alla saggezza».
Questa deve essere la nuova rivoluzione nello spirito col quale Stanis Ruinas chiudeva il suo "Pioggia sulla Repubblica": «Se c'è qualcuno cui la parola Patria non piace, s'impicchi. Patria vuol dire unità e indipendenza nazionale, le cose a noi più care».
 

Vito Errico

Indice