Risposta a Franco Cardini
La «minima» Italia da riscoprire
Caro Franco,
sai bene che da sempre mi porto dentro una passionaccia ghibellina e imperiale
che mi rende poco indulgente verso le nazioni ritagliate secondo i moduli del
furore ideologico giacobino e del più dignitoso patriottismo dei liberali
ottocenteschi.
Sai quanto mi sono care le Vandee, le insorgenze anche un po' brigantesche nel
nome del Trono e dell'Altare, le auree miche del pensiero controrivoluzionario;
e credo anche di averti detto che ho ereditato dagli avi e poi interiorizzato
ben bene una profonda simpatia, un'inclinazione, direi, per i Tedeschi, il loro
carattere, la loro cultura, il loro stile: una cotta che è andata crescendo in
contemporanea col livore antigermanico che caratterizza questi nostri
scassatissimi anni. Non ti è ignoto, d'altra parte, il mio amore per la Toscana
che -confesso questo fanatismo un po' infantile- mi è capitato più volte
definire una categoria dello spirito ben nutrita dalla cromatica felicità del
paesaggio: una Toscanamito, se vuoi, di cui amo il sangue e lo spirito, le zolle
e i marmi delle chiese, le piazzette, le torri, l'aria, le pietre.
A conclusione della premessa, ti confesso che mi è garbato spesso di definirmi,
con uno snobismo intellettualistico di cui ora faccio ammenda, prima toscano,
poi europeo (intendendo, per europeo, tedescofilo convinto, sbandierante
vessilli sacro-romano-imperiali) e infine italiano perché in questo termine,
italiano, totocotugnesco e pertiniano, c'erano troppi saporacci che non mi
piacevano.
Ma veniamo al dunque. E il dunque è che sono andato a Firenze ad assistere alla
cosiddetta amichevole col Messico. Mi ci ha quasi trascinato mio figlio Federico
che è un gran tifoso del calcio e io, che pure tifoso non sono, ma che, come si
dice, apprezzo il bel gioco quando c'è, mi sono lasciato trascinare. E poi
giocava l'Italia, la Nazionale, e anche se l'inno di Mameli è obiettivamente
bruttino, a sentirlo, cosa vuoi, mi si scalda il cuore, quasi fossi un vecchio
combattente. Bene il mio cuore, allo stadio, più che scaldarsi per vibrazioni
nazionalistiche o avere, se non altro, un palpito per il piacere di stare tutti
insieme, tra italiani, ha sofferto: e non poco. Prima di tutto, di tricolori a
giro ne ho visti quattro o cinque; e anche se so che il tricolore è di origine
giacobina e massonica, so anche che mi piace vederlo sventolare, perché evoca,
significa valori che con la massoneria e il giacobinismo hanno poco a che fare.
In breve: qualche tricolore qua e là, sventolato più per obbligo che per
convinzione.
Ma questo sarebbe nulla. Il fatto è che, come avrai letto sui giornali o visto
in televisione (o, per caso, c'eri anche tu a vedere la partita?), un'intera
parte dello stadio, la celebre curva Fiesole, ha sin dall'inizio gridato,
inveito, ricoperto di parolacce, lanciato maledizioni contro la nostra
Nazionale. E ha tifato con spudorata passione per il Messico. Caro Franco, non
voglio entrare nel merito delle rabbie calcistiche, della ben congegnata o meno
composizione della squadra (che, a dire il vero, non ha giocato un granché, a
parte i goals di Baggio e di Maldini), della giustezza o giustificabilità delle
invettive contro Matarrese o contro gli eterni nemici juventini. Non ho
competenza per discutere di queste cose: e, al limite, posso anche capirli certi
odi, pur non apprezzando affatto la rancorosa spocchia del fiorentino
Zeffirelli.
Ma se una bella fetta dello stadio, una minoranza che imponeva il suo fosco
furore, che si faceva sentire più della maggioranza filo-italiana, arriva al
punto di sbraitare in tracotante coro: «Italia merda!», «Italia vaffanculo!»,
«Chi non salta è italiano», «Firenze è contro l'Italia», «Esiste solo la
Fiorentina», aggiungendo qua e là attualissime chicche come gli incitamenti a
Pietro Pacciani, presunto mostro di Firenze, perché faccia scempio degli odiati
calciatori italiani: bene, se succede tutto questo, vuoi dire che qualcosa non
va. Vuoi dire che in Italia, in questa Italia e in questa Firenze becere,
cialtrone, sbrindellate e che a me fanno vergogna e pena, c'è talmente tanto da
rifare che ogni elegante e provocatoria discettazione sui tricolori giacobini,
sull'Antirisorgimento, sulla Vandea, sull'Impero e sulla Tradizione (che la
nostra formazione vuole rigorosamente maiuscola) va a farsi benedire di fronte
ad un umile paziente, artigianale lavoro di ricostruzione, a partire dal minimo.
E cioè da una minima educazione, da un minimo sentimento di patria come casa
comune, da un minimo, immediato disgusto per chi fa, non della città, ma della
squadra cittadina, qualcosa di tanto importante da contrapporlo, con scandita
protervia, alla comunità intera, rappresentata, in quel momento, dalla squadra
nazionale. Oh, certo, una ben misera patria in calzoncini corti e non
particolarmente su di giri, ma meglio di nulla!
Caro Franco, io amo la Marcia di Radetzski, contrariamente a Cattabiani la sento
mia più del Nabucco, e non so da che parte sarei stato nel 1848, ma mi rendo
conto, di fronte a questi ultra scatenati, di cui non voglio esagerare
l'importanza ma che mi sembrano uno dei tanti segni di scollamento comunitario
(sono tremila persone che urlano contro l'Italia ed è inutile che mi si venga a
dire che in realtà non ce l'hanno con l'Italia ma ecc. ecc); mi convinco che il
nostro ruolo di studiosi e di educatori è quello, tremendo, di mettersi con
certosina pazienza a concimare una terra bruciata perché diventi fertile. È un
lavoro improbo, forse impossibile: in ogni caso, tra i semini ci possono essere
anche le memorie risorgimentali lette in un certo modo, e lo stesso vale per il
nazionalismo e l'idea di patria.
Non posso, a colpi di Sacro Romano Impero, educare gente che non prova vergogna
a gridare «Italia merda!» e mi sembrerebbe disonesto fare raffinati esercizi
sofistici su «quello che, in realtà, volevano dire». Hanno gridato «Italia
merda!», a me fanno schifo, ma sono italiani. E allora con loro e con quelli che
gli assomigliano e magari si tengono dentro disaffezione o addirittura
avversione, devo partire dal basso, fare un lungo cammino, lavorare per
ricostruire dentro quel minimo che ti dicevo, un decente senso civico, insomma,
un decente sentimento nazionale: dopo potrò mettere i puntini sulle i e
stabilire tutte le gerarchie lessicali e semantiche che credo tra Nazione, Stato
e Impero. Dopo, potrò approfondire.
Per concludere: adesso mi sento visceralmente italiano e impegnato per l'Italia,
prima di ogni altra cosa. E se devo trarre alimento da qualcuno, busso alla
porta di Dante, fiorentino, italiano e imperiale: per lui, la patria a cui
Farinata sacrifica la parte si chiama Firenze ma vuoi dire Italia, come vuoi
dire Italia la Mantova che stringe in un commosso abbraccio Virgilio e Sordelio.
Mario
Bernardi Guardi
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