«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 2 - 15 Marzo 1993

 

Risposta a Franco Cardini
La «minima» Italia da riscoprire

 

 

Caro Franco,
sai bene che da sempre mi porto dentro una passionaccia ghibellina e imperiale che mi rende poco indulgente verso le nazioni ritagliate secondo i moduli del furore ideologico giacobino e del più dignitoso patriottismo dei liberali ottocenteschi.
Sai quanto mi sono care le Vandee, le insorgenze anche un po' brigantesche nel nome del Trono e dell'Altare, le auree miche del pensiero controrivoluzionario; e credo anche di averti detto che ho ereditato dagli avi e poi interiorizzato ben bene una profonda simpatia, un'inclinazione, direi, per i Tedeschi, il loro carattere, la loro cultura, il loro stile: una cotta che è andata crescendo in contemporanea col livore antigermanico che caratterizza questi nostri scassatissimi anni. Non ti è ignoto, d'altra parte, il mio amore per la Toscana che -confesso questo fanatismo un po' infantile- mi è capitato più volte definire una categoria dello spirito ben nutrita dalla cromatica felicità del paesaggio: una Toscanamito, se vuoi, di cui amo il sangue e lo spirito, le zolle e i marmi delle chiese, le piazzette, le torri, l'aria, le pietre.
A conclusione della premessa, ti confesso che mi è garbato spesso di definirmi, con uno snobismo intellettualistico di cui ora faccio ammenda, prima toscano, poi europeo (intendendo, per europeo, tedescofilo convinto, sbandierante vessilli sacro-romano-imperiali) e infine italiano perché in questo termine, italiano, totocotugnesco e pertiniano, c'erano troppi saporacci che non mi piacevano.
Ma veniamo al dunque. E il dunque è che sono andato a Firenze ad assistere alla cosiddetta amichevole col Messico. Mi ci ha quasi trascinato mio figlio Federico che è un gran tifoso del calcio e io, che pure tifoso non sono, ma che, come si dice, apprezzo il bel gioco quando c'è, mi sono lasciato trascinare. E poi giocava l'Italia, la Nazionale, e anche se l'inno di Mameli è obiettivamente bruttino, a sentirlo, cosa vuoi, mi si scalda il cuore, quasi fossi un vecchio combattente. Bene il mio cuore, allo stadio, più che scaldarsi per vibrazioni nazionalistiche o avere, se non altro, un palpito per il piacere di stare tutti insieme, tra italiani, ha sofferto: e non poco. Prima di tutto, di tricolori a giro ne ho visti quattro o cinque; e anche se so che il tricolore è di origine giacobina e massonica, so anche che mi piace vederlo sventolare, perché evoca, significa valori che con la massoneria e il giacobinismo hanno poco a che fare. In breve: qualche tricolore qua e là, sventolato più per obbligo che per convinzione.
Ma questo sarebbe nulla. Il fatto è che, come avrai letto sui giornali o visto in televisione (o, per caso, c'eri anche tu a vedere la partita?), un'intera parte dello stadio, la celebre curva Fiesole, ha sin dall'inizio gridato, inveito, ricoperto di parolacce, lanciato maledizioni contro la nostra Nazionale. E ha tifato con spudorata passione per il Messico. Caro Franco, non voglio entrare nel merito delle rabbie calcistiche, della ben congegnata o meno composizione della squadra (che, a dire il vero, non ha giocato un granché, a parte i goals di Baggio e di Maldini), della giustezza o giustificabilità delle invettive contro Matarrese o contro gli eterni nemici juventini. Non ho competenza per discutere di queste cose: e, al limite, posso anche capirli certi odi, pur non apprezzando affatto la rancorosa spocchia del fiorentino Zeffirelli.
Ma se una bella fetta dello stadio, una minoranza che imponeva il suo fosco furore, che si faceva sentire più della maggioranza filo-italiana, arriva al punto di sbraitare in tracotante coro: «Italia merda!», «Italia vaffanculo!», «Chi non salta è italiano», «Firenze è contro l'Italia», «Esiste solo la Fiorentina», aggiungendo qua e là attualissime chicche come gli incitamenti a Pietro Pacciani, presunto mostro di Firenze, perché faccia scempio degli odiati calciatori italiani: bene, se succede tutto questo, vuoi dire che qualcosa non va. Vuoi dire che in Italia, in questa Italia e in questa Firenze becere, cialtrone, sbrindellate e che a me fanno vergogna e pena, c'è talmente tanto da rifare che ogni elegante e provocatoria discettazione sui tricolori giacobini, sull'Antirisorgimento, sulla Vandea, sull'Impero e sulla Tradizione (che la nostra formazione vuole rigorosamente maiuscola) va a farsi benedire di fronte ad un umile paziente, artigianale lavoro di ricostruzione, a partire dal minimo. E cioè da una minima educazione, da un minimo sentimento di patria come casa comune, da un minimo, immediato disgusto per chi fa, non della città, ma della squadra cittadina, qualcosa di tanto importante da contrapporlo, con scandita protervia, alla comunità intera, rappresentata, in quel momento, dalla squadra nazionale. Oh, certo, una ben misera patria in calzoncini corti e non particolarmente su di giri, ma meglio di nulla!
Caro Franco, io amo la Marcia di Radetzski, contrariamente a Cattabiani la sento mia più del Nabucco, e non so da che parte sarei stato nel 1848, ma mi rendo conto, di fronte a questi ultra scatenati, di cui non voglio esagerare l'importanza ma che mi sembrano uno dei tanti segni di scollamento comunitario (sono tremila persone che urlano contro l'Italia ed è inutile che mi si venga a dire che in realtà non ce l'hanno con l'Italia ma ecc. ecc); mi convinco che il nostro ruolo di studiosi e di educatori è quello, tremendo, di mettersi con certosina pazienza a concimare una terra bruciata perché diventi fertile. È un lavoro improbo, forse impossibile: in ogni caso, tra i semini ci possono essere anche le memorie risorgimentali lette in un certo modo, e lo stesso vale per il nazionalismo e l'idea di patria.
Non posso, a colpi di Sacro Romano Impero, educare gente che non prova vergogna a gridare «Italia merda!» e mi sembrerebbe disonesto fare raffinati esercizi sofistici su «quello che, in realtà, volevano dire». Hanno gridato «Italia merda!», a me fanno schifo, ma sono italiani. E allora con loro e con quelli che gli assomigliano e magari si tengono dentro disaffezione o addirittura avversione, devo partire dal basso, fare un lungo cammino, lavorare per ricostruire dentro quel minimo che ti dicevo, un decente senso civico, insomma, un decente sentimento nazionale: dopo potrò mettere i puntini sulle i e stabilire tutte le gerarchie lessicali e semantiche che credo tra Nazione, Stato e Impero. Dopo, potrò approfondire.
Per concludere: adesso mi sento visceralmente italiano e impegnato per l'Italia, prima di ogni altra cosa. E se devo trarre alimento da qualcuno, busso alla porta di Dante, fiorentino, italiano e imperiale: per lui, la patria a cui Farinata sacrifica la parte si chiama Firenze ma vuoi dire Italia, come vuoi dire Italia la Mantova che stringe in un commosso abbraccio Virgilio e Sordelio.
 

Mario Bernardi Guardi

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