«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 2 - 15 Marzo 1993

 

A proposito di una intervista di Giuseppe De Luna ad Antonio Carioti

Saggio sulle affinità elettive di due fratelli nemici: azionismo e fascismo
(parte 2)

 

 

La lezione dell'intransigenza
"L'azionismo, 50 anni dopo" è un volume di straordinario interesse da pochi mesi licenziato alle stampe per i tipi di "Acropoli", l'Editrice di area laica che con questa iniziativa ha più che mai ben meritato della cultura italiana vista nel suo complesso, ossia proiettata al di là del perimetro ideologico che racchiude e suggella una militanza intellettuale vissuta sempre in modo coerente, mai in maniera fondamentalista. E riconosciamo ciò tanto più volentieri in quanto la nostra «distanza» da essa non è certo irrilevante.
La struttura del libro risulta originale, invitante. È articolata in tre sezioni: «Radici ideali e lotta politica azionista», «Cinquant'anni dopo: l'esigenza di un partito di moderna democrazia per promuovere la discontinuità di governo», «Documenti».
Le prime due interamente frutto di interviste, concesse a "La Voce Repubblicana" da autorevoli personalità cui toccò in sorte di animare l'esperienza culturale e partitica dell'azionismo. La terza, preziosissima, densa di materiali dottrinari, programmatici, pubblicistici risalenti perfino all'epoca della clandestinità, oggi assolutamente irreperibili, anzi addirittura ignoti e ignorati. Il tutto condito con un paio di approfonditi scritti di due forti pensatori di area: i proff. Oscar Giannino e Antonio Jannazzo. Curatore attento, appassionato, organico un giovane proveniente dall'organizzazione cadetta del PRI, il dott. Antonio Carioti, responsabile dei servizi culturali del quotidiano ufficiale del partito.
Trattasi di 180 pagine densissime: una autentica miniera di storia patria, un osservatorio su scenari del passato remoto relativo allo scontro non di rado sanguinoso, irrefrenabile sempre, durato più di un quarto di secolo, fra il fascismo e il reparto azionista dell'antifascismo.
Uno scontro da considerare come guerra civile nella guerra civile, perché impegnava contendenti particolarissimamente motivati dal fatto di discendere dal ceppo dell'interventismo e del risorgimentalismo. E provenienti da quello schieramento di spiriti e di intelletti ove strenua era la determinazione di fare degli anni vissuti nel fango e nel fuoco delle trincee una sorta di Gotha morale, abilitante a venire in evidenza quali rinnovatori di una società e di uno Stato sclerotici, antipopolari e impopolari, castali e oligarchici. Inappuntabile, dunque, la definizione di «fratelli nemici» adoperata da uno studioso d'eccezione del fenomeno azionista, il prof. Giovanni De Luna, realizzatore di una "Storia del Partito d'Azione" ormai assunta come punto di riferimento per chiunque intenda misurarsi con questa materia ancora tanto scottante. Così come, del resto, quella di Augusto Del Noce -per noi del tutto convincente, diversamente da quanto ritenuto dall'amico Carioti-, che ebbe a configurare gli azionisti come «trotzkysti del fascismo».

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Ecco, per questo saggio dedicato a «La lezione dell'intransigenza» puntiamo proprio su De Luna, certamente -in rapporto agli interessi di ricerca che coltiviamo- autore del contributo più rilevante. L'intervistatore dello storico piemontese è personalmente Carioti, il quale lo interroga sul tema della «volontà di rinnovamento che accomunava azionismo e fascismo», tesi sostenuta da Del Noce. La deluniana analisi va nella stessa direzione? La risposta è la seguente: «Per alcuni versi sono d'accordo. Non c'è dubbio che nel Pd'A c'era una carica di attivismo totalmente dispiegata, analoga a quella riscontrabile nel fascismo. E c'era anche un nettissimo rifiuto del compromesso, che differenziava invece chiaramente gli azionisti da Mussolini, collocato su una posizione nettamente compromissoria. Il progetto totalitario del fascismo si arrestò alle soglie di vecchie egemonie -la monarchia, il Vaticano, l'esercito, il blocco del potere economico-, con cui convisse nell'arco del ventennio: non a caso furono poi quelle stesse forze a disfarsi del duce con la congiura del 25 luglio».
Qui il De Luna raggiunge il neofascismo e l'antifascismo più consueti su quattro comuni articoli di fede, vere verità rivelate:
I) Mussolini è da solo, ed esaustivamente, il fascismo, tutto il fascismo;
II) Diversamente dall'azionismo, nemico giurato del compromesso, il fascismo si rivela fautore di una linea nettamente transigente, con riferimento ai massimi potentati di allora;
III) II fascismo portatore di un «progetto totalitario»;
IV) II 25 luglio è opera delle forze regressive della società e dello Stato cui il fascismo si era inchinato pur di gestire dittatorialmente il potere.
Ma noi, contestando o interpretativamente adeguando tutto ciò ai più veraci responsi della storia, portiamo alle logiche conseguenze l'intuizione delle «affinità elettive» fra fascismo ed azionismo, genialmente avuta da Del Noce e brillantemente sviluppata da De Luna su stimolazione di Carioti. E cominciamo col rilevare che, proprio perché Mussolini mai fu tutto il fascismo -anche, anzi soprattutto, quando sembrò, negli Anni Trenta, che lo fosse-, nel blocco littorio emersero attivissimi filoni di intransigenza, numerosi e forti, che per il Capo sempre costituirono un grosso problema. In proposito, possiamo invocare la testimonianza autorevolissima e, dunque, non sospetta, di colui che da sempre è presentato, più o meno fondatamente, come uno dei padri storici dell'azionismo: Piero Gobetti. Del quale siamo in grado di citare non solo il saggio "Elogio di Farinacci", pubblicato su "La Rivoluzione Liberale", ma anche ricordare il rapporto di stima e perfino di sinergica amicizia intrattenuto con Kurt Suckert alias Curzio Malaparte, all'epoca segretario dei sindacati fascisti di Firenze nonché esponente della sinistra «nera» -una delle cinque elencate da Renzo De Felice nella monumentale biografia del Duce- e massima testa pensante dell'intransigentismo squadrista, dalla quale scaturivano elaborazioni, parole d'ordine, analisi ideologiche, spunti dottrinari, riflessioni teoriche offerte ai legionari assetati non solo di azione ma pure vogliosi di incitamento alla negazione di ogni patteggiamento con il vecchio, il consumato, il superato, l'ovvio, il banale.
La verità è che Gobetti si proponeva ed imponeva come collettore di tutte le intransigenze, di tutte le eresie, perfino di quelle fasciste, convinto, com'era, che i mali d'Italia fossero essenzialmente nello spirito di compromesso, di transigenza, di conformismo, di trasformismo da cui essa è aduggiata a cagione dei patiti servaggi domestici ed esteriori, antichi e attuali; e del mancato dispiegarsi del vivificante, modernizzatore, rettificante, propulsivo ruolo di una necessaria riforma protestante. Così si acconciò addirittura ad essere editore di un'opera di Malaparte -"L'Europa vivente. Saggio sul sindacalismo nazionale in Italia", con prefazione di un altro fascista, Ardengo Soffici-, nonostante il vezzo dell'«Arcitaliano» di Prato di venire in evidenza in veste di magnificatore della Controriforma e di teorizzatore di una riscoperta nel fascismo dei suoi valori.

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Vero è che il fascismo non fu in grado di liquidare le «vecchie egemonie» della Reggia, del Pontificato, degli Stati Maggiori castrensi, dei «padroni del vapore» economico. Ma con queste realtà -che l'occhio azionista vede tutte in chiave demonizzante- ebbe ad appastarsi solo la quota conservatrice della complessa, multiforme, polivalente aggregazione sociale che si riconosceva nelle insegne del Littorio. Oggi, grazie alla storiografia defeliciana, sappiamo che nell'orbita del mussolinismo, più che del Regime, esistette un «fascismo-movimento» di grosso spessore numerico e culturale, la cui spinta contestativa mai veramente si esaurì sotto la pressione dei richiami «unitari», forieri del prevalere all'interno della «rivoluzione nazionale» dell'interclassismo di segno moderato. Anche perché potè giovarsi di addentellati con il fascismo-istituzione (la definizione è sempre di De Felice, incarnato da dirigenti quali Edmondo Rossoni, Tullio Cianetti, Luigi Razza, Luigi Fontanelli etc.
E in ragione di tutto ciò possiamo ben dire che con le «vecchie egemonie» venne stipulato un lungo armistizio e non una intesa fondata sul definitivo, irreversibile rinnegamento delle tavole fondative del sansepolcrismo. Tanto vero che scorrendo le memorie del Cianetti si scopre che i progetti socializzatori dei punti alti del capitalismo, ritenuti normalmente esclusivi della Repubblica Sociale Italiana, in realtà furono da lui elaborati nella primavera del '43 nella sua funzione di ministro delle corporazioni, approvati da Mussolini, silurati dal Re e da Badoglio con l'iniziativa del 25 luglio.
Da notare che De Luna allarga ad altre forme e regimi il discorso relativo alla omogeneità delle radici dell'azionismo a quelle del fascismo. Vediamo: «C'è un bel saggio di Valiani... nel quale l'autore riconosce la matrice comune dei movimenti tipicamente novecenteschi -bolscevismo, fascismo, nazismo, azionismo- che si erano definiti in netta contrapposizione alle categorie positivistiche, evoluzionistiche e pacifiste del socialismo ottocentesco. Si tratta senza dubbio di osservazioni fondate».
Egli, però, dopo aver concesso con una mano (la sinistra?) si fa un punto d'onore di tosto recuperare quanto accordato. Ecco: «Questo però significa soltanto collocare storicamente queste tendenze politiche nel clima culturale specifico che le ha prodotte. Le somiglianze finiscono qui, perché poi va osservato che, per fare un esempio, il fascismo ha il culto della gerarchia, mentre l'azionismo esalta la partecipazione dal basso: non a caso Rosselli in Spagna scelse come divisa per i suoi uomini la tuta da operaio».
Non basta mettere addosso a qualcuno la tuta da operaio per dire che partecipa. Ma visto che il riferimento è alla Spagna della guerra civile sveleremo al prof. De Luna qualcosa che egli, forse, ignora: e non certo per debolezza di studioso, ma perché anche uno storico di grande livello non può prendere visione di tutto ciò che nel mondo si scrive su di una tematica praticamente sterminata come quella cui egli si applica. Si tratta di questo: la camicia blu della Falange altro non fu che la voluta imitazione dell'indumento tradizionale dei minatori delle Asturie. Fu scelta da José Antonio Primo De Rivera al fine di segnalare il desiderio di solidarietà e fraternità dei falangisti con la classe operaia spagnola. Ovviamente, accenniamo a una Falange diversa, e anzi opposta, a quella snaturata, strumentalizzata, omologata al reazionario «Movimiento» da quel Francisco Franco, il cosiddetto Caudillo, il quale, stando ai diari di Serrano Suner, cognato suo e ministro degli esteri, era letteralmente inviso al giovane De Rivera, ideologicamente collocato fuori e contro il franchismo, con il suo falangismo repubblicano, cristiano-popolare, proletarista e socializzatore, nonché fieramente avverso ai colpi di stato di destra, ivi compreso quello del luglio '36. Chi volesse saperne di più su quel deriverismo riformatore e anzi rivoluzionario, idealmente legato alle masse, potrebbe tentare di reperire un saggio dello studioso danese Niellessen diffuso ormai molti anni or sono dall'Editore Volpe con il titolo "La rivoluzione proibita. Ascesa e declino della Falange". (*)

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Per ciò che poi concerne la linea di displuvio fra azionismo e fascismo fondata sulla contrapposizione fra il «culto della gerarchia» del secondo e la «partecipazione dal basso» del primo, c'è da osservare anzitutto che i sostenitori di questa tesi non riescono a superare il vizio di analisi che li porta a «vedere» il fascismo come blocco ideologicamente e socialmente compatto, mentre, come si accennava, è vero esattamente il contrario. Tra gli studiosi più autorevoli, il De Felice e il Settembrini sono sfuggiti alla trappola di una interprefazione del Ventennio omologa a quella dell'antifascismo più blindato e tradizionale. L'uno, segnalando la presenza e il ruolo, nel composto littorio, del movimentismo sansepolcrista-rivoluzionario; l'altro, intuendo nella politica di Mussolini l'iniziale, moderno tipo di «compromesso storico» fra un partito intimamente e, tutto sommato, coerentemente popolare, eversore, antiborghese e gli strati decisivi della grande borghesia. Sono, costoro, storici di area liberaldemocratica che, stranamente, si sono trovati ad assolvere a un compito obbiettivamente di altrui spettanza. Ecco dunque, gramscianamente parlando, un'«astuzia della storia»! La quale ha dovuto sopperire a una defaillance della cultura marxista, mai veramente egemone nei trascorsi lustri e men che meno oggi, come preteso da chi mai si è accorto che il primato intellettuale vero era esercitato dalla cultura azionista, indipendentemente dalle dimensioni fisiche dell'azionismo politico o dello stesso suo esistere. Una primazia talmente forte da imbrigliare, sterilizzare, sconvolgere con il suo moralismo d'assalto, demonizzante, emarginatore; con il suo antifascismo tutto «psicologico», tutto votato a sparare nel mucchio, l'analisi scientificamente fondata, di taglio marxista, avulsa dalle passioni contingenti, oggettivizzante, tesa all'osservazione critica del «gioco» delle classi e delle contraddizioni della società capitalistica.
Eppure, Piero Gobetti, con il suo genio, aveva ben compreso che il fascismo non era né univoco né completamente riferibile al Mussolini primo ministro del Re. E, quindi, non esaustivamente acquisito al «culto della gerarchia». Tuttaltro!
Sempre nel saggio in controtendenza "Elogio di Farinacci" egli si esprime in positivo sullo spirito «libertario» delle formazioni dell'intransigentismo squadrista, le quali in assemblee aperte liberamente discutevano ed eleggevano i capi. E giunge ad affermare che i patti bracciantili strappati agli agrari nel Cremonese dall'ex socialista bissolatiano talvolta si appalesavano più favorevoli ai lavoratori di alcuni di quelli stipulati dalla CGIL. Il che, evidentemente, nulla toglie allo spessore dell'antifascismo gobettiano, ma segnala la sensibilità sua e l'attenzione alle diversità interne al fascismo. Unitamente, si capisce, ad una simpatia apertamente professata non certo per l'intransigentismo fascista come tale, bensì per l'intransigentismo tout court. Ivi compreso, pertanto, quello fascista.
Ciò anche a costo di mandare fuori dai gangheri uomini come Carlo Rosselli. Una volta al fondatore di "Giustizia e Libertà" capitò di recarsi nella sede di "Rivoluzione Liberale" per concordare certe iniziative antifasciste e di sentirsi dire che Gobetti si era recato ad un appuntamento con l'«Arcitaliano» ed ultrafascista Curzio Malaparte. E allora senza frapporre indugio alcuno, in preda ad incontenibile ira, il Rosselli piantò tutti e tutto in asso e tornò a Firenze.
Tirannia di spazio ci fa obbligo di dislocare la continuazione del discorso sui «fratelli nemici» al prossimo numero. Direttore permettendo, va da sé.
 

Enrico Landolfi

 

(*) A proposito del falangismo primigenio di José Antonio Primo De Rivera, facciamo presente che un noto scrittore politico francese cognato di Robert Brasillach -il giovane poeta fucilato nel febbraio '45 a Parigi con l'accusa di collaborazionismo, a lui ideologicamente legato dalla medesima militanza- asserisce in un suo saggio uscito nel dopoguerra con il titolo «Che cosa è il fascismo» che il fondatore della Falange accettava del marxismo l'analisi critica della società capitalistica. Si tratta di Maurice Bardeche. Editore del volume in Italia il già mentovato Giovanni Volpe

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