A proposito di una intervista di
Giuseppe De Luna ad Antonio Carioti
Saggio sulle affinità
elettive di due fratelli nemici:
azionismo e fascismo
(parte 2)
La lezione dell'intransigenza
"L'azionismo, 50 anni dopo" è un volume di straordinario interesse da pochi mesi
licenziato alle stampe per i tipi di "Acropoli", l'Editrice di area laica che
con questa iniziativa ha più che mai ben meritato della cultura italiana vista
nel suo complesso, ossia proiettata al di là del perimetro ideologico che
racchiude e suggella una militanza intellettuale vissuta sempre in modo
coerente, mai in maniera fondamentalista. E riconosciamo ciò tanto più
volentieri in quanto la nostra «distanza» da essa non è certo irrilevante.
La struttura del libro risulta originale, invitante. È articolata in tre
sezioni: «Radici ideali e lotta politica azionista», «Cinquant'anni dopo:
l'esigenza di un partito di moderna democrazia per promuovere la discontinuità
di governo», «Documenti».
Le prime due interamente frutto di interviste, concesse a "La Voce Repubblicana"
da autorevoli personalità cui toccò in sorte di animare l'esperienza culturale e
partitica dell'azionismo. La terza, preziosissima, densa di materiali
dottrinari, programmatici, pubblicistici risalenti perfino all'epoca della
clandestinità, oggi assolutamente irreperibili, anzi addirittura ignoti e
ignorati. Il tutto condito con un paio di approfonditi scritti di due forti
pensatori di area: i proff. Oscar Giannino e Antonio Jannazzo. Curatore attento,
appassionato, organico un giovane proveniente dall'organizzazione cadetta del
PRI, il dott. Antonio Carioti, responsabile dei servizi culturali del quotidiano
ufficiale del partito.
Trattasi di 180 pagine densissime: una autentica miniera di storia patria, un
osservatorio su scenari del passato remoto relativo allo scontro non di rado
sanguinoso, irrefrenabile sempre, durato più di un quarto di secolo, fra il
fascismo e il reparto azionista dell'antifascismo.
Uno scontro da considerare come guerra civile nella guerra civile, perché
impegnava contendenti particolarissimamente motivati dal fatto di discendere dal
ceppo dell'interventismo e del risorgimentalismo. E provenienti da quello
schieramento di spiriti e di intelletti ove strenua era la determinazione di
fare degli anni vissuti nel fango e nel fuoco delle trincee una sorta di Gotha
morale, abilitante a venire in evidenza quali rinnovatori di una società e di
uno Stato sclerotici, antipopolari e impopolari, castali e oligarchici.
Inappuntabile, dunque, la definizione di «fratelli nemici» adoperata da uno
studioso d'eccezione del fenomeno azionista, il prof. Giovanni De Luna,
realizzatore di una "Storia del Partito d'Azione" ormai assunta come punto di
riferimento per chiunque intenda misurarsi con questa materia ancora tanto
scottante. Così come, del resto, quella di Augusto Del Noce -per noi del tutto
convincente, diversamente da quanto ritenuto dall'amico Carioti-, che ebbe a
configurare gli azionisti come «trotzkysti del fascismo».
* * *
Ecco, per questo saggio dedicato a «La lezione dell'intransigenza» puntiamo
proprio su De Luna, certamente -in rapporto agli interessi di ricerca che
coltiviamo- autore del contributo più rilevante. L'intervistatore dello storico
piemontese è personalmente Carioti, il quale lo interroga sul tema della
«volontà di rinnovamento che accomunava azionismo e fascismo», tesi sostenuta da
Del Noce. La deluniana analisi va nella stessa direzione? La risposta è la
seguente: «Per alcuni versi sono d'accordo. Non c'è dubbio che nel Pd'A c'era
una carica di attivismo totalmente dispiegata, analoga a quella riscontrabile
nel fascismo. E c'era anche un nettissimo rifiuto del compromesso, che
differenziava invece chiaramente gli azionisti da Mussolini, collocato su una
posizione nettamente compromissoria. Il progetto totalitario del fascismo si
arrestò alle soglie di vecchie egemonie -la monarchia, il Vaticano, l'esercito,
il blocco del potere economico-, con cui convisse nell'arco del ventennio: non a
caso furono poi quelle stesse forze a disfarsi del duce con la congiura del 25
luglio».
Qui il De Luna raggiunge il neofascismo e l'antifascismo più consueti su quattro
comuni articoli di fede, vere verità rivelate:
I) Mussolini è da solo, ed esaustivamente, il fascismo, tutto il fascismo;
II) Diversamente dall'azionismo, nemico giurato del compromesso, il fascismo si
rivela fautore di una linea nettamente transigente, con riferimento ai massimi
potentati di allora;
III) II fascismo portatore di un «progetto totalitario»;
IV) II 25 luglio è opera delle forze regressive della società e dello Stato cui
il fascismo si era inchinato pur di gestire dittatorialmente il potere.
Ma noi, contestando o interpretativamente adeguando tutto ciò ai più veraci
responsi della storia, portiamo alle logiche conseguenze l'intuizione delle
«affinità elettive» fra fascismo ed azionismo, genialmente avuta da Del Noce e
brillantemente sviluppata da De Luna su stimolazione di Carioti. E cominciamo
col rilevare che, proprio perché Mussolini mai fu tutto il fascismo -anche, anzi
soprattutto, quando sembrò, negli Anni Trenta, che lo fosse-, nel blocco
littorio emersero attivissimi filoni di intransigenza, numerosi e forti, che per
il Capo sempre costituirono un grosso problema. In proposito, possiamo invocare
la testimonianza autorevolissima e, dunque, non sospetta, di colui che da sempre
è presentato, più o meno fondatamente, come uno dei padri storici
dell'azionismo: Piero Gobetti. Del quale siamo in grado di citare non solo il
saggio "Elogio di Farinacci", pubblicato su "La Rivoluzione Liberale", ma anche
ricordare il rapporto di stima e perfino di sinergica amicizia intrattenuto con
Kurt Suckert alias Curzio Malaparte, all'epoca segretario dei sindacati fascisti
di Firenze nonché esponente della sinistra «nera» -una delle cinque elencate da
Renzo De Felice nella monumentale biografia del Duce- e massima testa pensante
dell'intransigentismo squadrista, dalla quale scaturivano elaborazioni, parole
d'ordine, analisi ideologiche, spunti dottrinari, riflessioni teoriche offerte
ai legionari assetati non solo di azione ma pure vogliosi di incitamento alla
negazione di ogni patteggiamento con il vecchio, il consumato, il superato,
l'ovvio, il banale.
La verità è che Gobetti si proponeva ed imponeva come collettore di tutte le
intransigenze, di tutte le eresie, perfino di quelle fasciste, convinto,
com'era, che i mali d'Italia fossero essenzialmente nello spirito di
compromesso, di transigenza, di conformismo, di trasformismo da cui essa è
aduggiata a cagione dei patiti servaggi domestici ed esteriori, antichi e
attuali; e del mancato dispiegarsi del vivificante, modernizzatore,
rettificante, propulsivo ruolo di una necessaria riforma protestante. Così si
acconciò addirittura ad essere editore di un'opera di Malaparte -"L'Europa
vivente. Saggio sul sindacalismo nazionale in Italia", con prefazione di un
altro fascista, Ardengo Soffici-, nonostante il vezzo dell'«Arcitaliano» di
Prato di venire in evidenza in veste di magnificatore della Controriforma e di
teorizzatore di una riscoperta nel fascismo dei suoi valori.
* * *
Vero è che il fascismo non fu in grado di liquidare le «vecchie egemonie» della
Reggia, del Pontificato, degli Stati Maggiori castrensi, dei «padroni del
vapore» economico. Ma con queste realtà -che l'occhio azionista vede tutte in
chiave demonizzante- ebbe ad appastarsi solo la quota conservatrice della
complessa, multiforme, polivalente aggregazione sociale che si riconosceva nelle
insegne del Littorio. Oggi, grazie alla storiografia defeliciana, sappiamo che
nell'orbita del mussolinismo, più che del Regime, esistette un
«fascismo-movimento» di grosso spessore numerico e culturale, la cui spinta
contestativa mai veramente si esaurì sotto la pressione dei richiami «unitari»,
forieri del prevalere all'interno della «rivoluzione nazionale»
dell'interclassismo di segno moderato. Anche perché potè giovarsi di
addentellati con il fascismo-istituzione (la definizione è sempre di De Felice,
incarnato da dirigenti quali Edmondo Rossoni, Tullio Cianetti, Luigi Razza,
Luigi Fontanelli etc.
E in ragione di tutto ciò possiamo ben dire che con le «vecchie egemonie» venne
stipulato un lungo armistizio e non una intesa fondata sul definitivo,
irreversibile rinnegamento delle tavole fondative del sansepolcrismo. Tanto vero
che scorrendo le memorie del Cianetti si scopre che i progetti socializzatori
dei punti alti del capitalismo, ritenuti normalmente esclusivi della Repubblica
Sociale Italiana, in realtà furono da lui elaborati nella primavera del '43
nella sua funzione di ministro delle corporazioni, approvati da Mussolini,
silurati dal Re e da Badoglio con l'iniziativa del 25 luglio.
Da notare che De Luna allarga ad altre forme e regimi il discorso relativo alla
omogeneità delle radici dell'azionismo a quelle del fascismo. Vediamo: «C'è un
bel saggio di Valiani... nel quale l'autore riconosce la matrice comune dei
movimenti tipicamente novecenteschi -bolscevismo, fascismo, nazismo, azionismo-
che si erano definiti in netta contrapposizione alle categorie positivistiche,
evoluzionistiche e pacifiste del socialismo ottocentesco. Si tratta senza dubbio
di osservazioni fondate».
Egli, però, dopo aver concesso con una mano (la sinistra?) si fa un punto
d'onore di tosto recuperare quanto accordato. Ecco: «Questo però significa
soltanto collocare storicamente queste tendenze politiche nel clima culturale
specifico che le ha prodotte. Le somiglianze finiscono qui, perché poi va
osservato che, per fare un esempio, il fascismo ha il culto della gerarchia,
mentre l'azionismo esalta la partecipazione dal basso: non a caso Rosselli in
Spagna scelse come divisa per i suoi uomini la tuta da operaio».
Non basta mettere addosso a qualcuno la tuta da operaio per dire che partecipa.
Ma visto che il riferimento è alla Spagna della guerra civile sveleremo al prof.
De Luna qualcosa che egli, forse, ignora: e non certo per debolezza di studioso,
ma perché anche uno storico di grande livello non può prendere visione di tutto
ciò che nel mondo si scrive su di una tematica praticamente sterminata come
quella cui egli si applica. Si tratta di questo: la camicia blu della Falange
altro non fu che la voluta imitazione dell'indumento tradizionale dei minatori
delle Asturie. Fu scelta da José Antonio Primo De Rivera al fine di segnalare il
desiderio di solidarietà e fraternità dei falangisti con la classe operaia
spagnola. Ovviamente, accenniamo a una Falange diversa, e anzi opposta, a quella
snaturata, strumentalizzata, omologata al reazionario «Movimiento» da quel
Francisco Franco, il cosiddetto Caudillo, il quale, stando ai diari di Serrano
Suner, cognato suo e ministro degli esteri, era letteralmente inviso al giovane
De Rivera, ideologicamente collocato fuori e contro il franchismo, con il suo
falangismo repubblicano, cristiano-popolare, proletarista e socializzatore,
nonché fieramente avverso ai colpi di stato di destra, ivi compreso quello del
luglio '36. Chi volesse saperne di più su quel deriverismo riformatore e anzi
rivoluzionario, idealmente legato alle masse, potrebbe tentare di reperire un
saggio dello studioso danese Niellessen diffuso ormai molti anni or sono
dall'Editore Volpe con il titolo "La rivoluzione proibita. Ascesa e declino
della Falange". (*)
* * *
Per ciò che poi concerne la linea di displuvio fra azionismo e fascismo fondata
sulla contrapposizione fra il «culto della gerarchia» del secondo e la
«partecipazione dal basso» del primo, c'è da osservare anzitutto che i
sostenitori di questa tesi non riescono a superare il vizio di analisi che li
porta a «vedere» il fascismo come blocco ideologicamente e socialmente compatto,
mentre, come si accennava, è vero esattamente il contrario. Tra gli studiosi più
autorevoli, il De Felice e il Settembrini sono sfuggiti alla trappola di una
interprefazione del Ventennio omologa a quella dell'antifascismo più blindato e
tradizionale. L'uno, segnalando la presenza e il ruolo, nel composto littorio,
del movimentismo sansepolcrista-rivoluzionario; l'altro, intuendo nella politica
di Mussolini l'iniziale, moderno tipo di «compromesso storico» fra un partito
intimamente e, tutto sommato, coerentemente popolare, eversore, antiborghese e
gli strati decisivi della grande borghesia. Sono, costoro, storici di area
liberaldemocratica che, stranamente, si sono trovati ad assolvere a un compito
obbiettivamente di altrui spettanza. Ecco dunque, gramscianamente parlando,
un'«astuzia della storia»! La quale ha dovuto sopperire a una defaillance della
cultura marxista, mai veramente egemone nei trascorsi lustri e men che meno
oggi, come preteso da chi mai si è accorto che il primato intellettuale vero era
esercitato dalla cultura azionista, indipendentemente dalle dimensioni fisiche
dell'azionismo politico o dello stesso suo esistere. Una primazia talmente forte
da imbrigliare, sterilizzare, sconvolgere con il suo moralismo d'assalto,
demonizzante, emarginatore; con il suo antifascismo tutto «psicologico», tutto
votato a sparare nel mucchio, l'analisi scientificamente fondata, di taglio
marxista, avulsa dalle passioni contingenti, oggettivizzante, tesa
all'osservazione critica del «gioco» delle classi e delle contraddizioni della
società capitalistica.
Eppure, Piero Gobetti, con il suo genio, aveva ben compreso che il fascismo non
era né univoco né completamente riferibile al Mussolini primo ministro del Re.
E, quindi, non esaustivamente acquisito al «culto della gerarchia». Tuttaltro!
Sempre nel saggio in controtendenza "Elogio di Farinacci" egli si esprime in
positivo sullo spirito «libertario» delle formazioni dell'intransigentismo
squadrista, le quali in assemblee aperte liberamente discutevano ed eleggevano i
capi. E giunge ad affermare che i patti bracciantili strappati agli agrari nel
Cremonese dall'ex socialista bissolatiano talvolta si appalesavano più
favorevoli ai lavoratori di alcuni di quelli stipulati dalla CGIL. Il che,
evidentemente, nulla toglie allo spessore dell'antifascismo gobettiano, ma
segnala la sensibilità sua e l'attenzione alle diversità interne al fascismo.
Unitamente, si capisce, ad una simpatia apertamente professata non certo per l'intransigentismo
fascista come tale, bensì per l'intransigentismo tout court. Ivi compreso,
pertanto, quello fascista.
Ciò anche a costo di mandare fuori dai gangheri uomini come Carlo Rosselli. Una
volta al fondatore di "Giustizia e Libertà" capitò di recarsi nella sede di
"Rivoluzione Liberale" per concordare certe iniziative antifasciste e di
sentirsi dire che Gobetti si era recato ad un appuntamento con l'«Arcitaliano»
ed ultrafascista Curzio Malaparte. E allora senza frapporre indugio alcuno, in
preda ad incontenibile ira, il Rosselli piantò tutti e tutto in asso e tornò a
Firenze.
Tirannia di spazio ci fa obbligo di dislocare la continuazione del discorso sui
«fratelli nemici» al prossimo numero. Direttore permettendo, va da sé.
Enrico
Landolfi
(*) A proposito del falangismo
primigenio di José Antonio Primo De Rivera, facciamo presente che un noto
scrittore politico francese cognato di Robert Brasillach -il giovane poeta
fucilato nel febbraio '45 a Parigi con l'accusa di collaborazionismo, a lui
ideologicamente legato dalla medesima militanza- asserisce in un suo saggio
uscito nel dopoguerra con il titolo «Che cosa è il fascismo» che il fondatore
della Falange accettava del marxismo l'analisi critica della società
capitalistica. Si tratta di Maurice Bardeche. Editore del volume in Italia il
già mentovato Giovanni Volpe
|