«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 2 - 15 Marzo 1993

 

Le avventure del vàgero

 


Un antichissimo insegnamento metaforico dice che gli alberelli bisogna piegarli da piccoli, ed invece io nella mia infanzia, della vita di lettere, fui lasciato a guisa di un alberello non costretto, dal ritorcevole salcio, alla nodosa calocchia e m'abbisciati per il campo, e invece che tenere fogliette buttai sprocchi. Soltanto da adulto mi sono accorto che questi novali e gruzzaie -come si dice familiarmente da noi- avessero dei padroni i quali le hanno date in enfiteusi a certi lor servi rispulizziti, che parlano italiani come forestieri, con l'incarico di potare, infettare, sarchiare. I servi stanno nelle gruzzaie, spedalizzati su certi sedioli, e soglion fare, per passatempo, certe lor ciancie canore che arditamente chiamano poesie e certe prose di consistenza lapidea, che dall'ugna al capello, dalla fibra all'ossa, dal cerebro al sangue, colla splendidezza dei nati colori pietrificano gli uomini. Sulle gruzzaie essi han portato certi Sarcofaghi -pietra che un tempo divorava la carne- in cui romicano a giornate sane e si chiamano Vocabolari, ma ricordano le tombe, sacre, ma tombe. Tra di loro si danno titoli nobiliari: Crepuscolari, Boreali, Aerostatici, tutta roba campata per aria. Quelli delle gruzzaie, gli sterpi, romicano nelle viscere delle cose vive e le fanno sanguinare.

* * *
Dirò cose più vecchie del «Brodetto». — «Le lingue non si fondano dagli scrittori, comincia prima il buon uso e 'l buon tempo di una lingua, e quando ella ha preso buona formazione e per pubblico tacito accordo del popolo, che naturalmente la parla, si è venuta a far regolata e pulita allora escono in ballo gli scrittori, che l'abbelliscono, e le danno grido» Io non ho voluto né abbellire, né dar grido a questa lingua marinaresca, la quale ha ancora il suo uso, e il suo bel tempo, dalla Magra alla Burlamacca, anche se è bandita dalle Pensioni e dagli Alberghi esistenti su quel littorale nei quali sogliono stazionare i padroni dei novali, e gli enfiteuti, ma l'ho adoperata alla stato greggio.
Nelle Taverne del viareggino, nelle Canove occultate tra le pietraie apuane -luoghi in cui si serba il vino fresco e si vende al minuto- negli «Scangi» del genovesato, nelle stive, nei gavoni, nelle tanche, del tonnellaggio velico italiano, circola questa lingua viva in cui, ai tempi dei tempi, si nutrirono, come di midolla d'orsi, per i loro racconti i grandi navigatori e gli dettero grido d'eternità. Dentro le Taverne, le Canove, i gavoni le stive c'è peste di musciame -interiora di pesce bestjno seccate al sole- di tonnina; mille fulmini di sarde e d'aringhe, pesto d'aglio e peperone; la gente mastica il tabacco accazzottato, mangia i talponi, i gatti, le lumache, le bodde cucciare, beve il vino cancherone, che a tirarlo in un bugno di vipere morirebbero tutte, romica le gallette coi vermini, cicca i cocci delle pipe gromate d'untume di trinciato, bestemmia e rutta, ma parla italiano.
E come!
Assaettato, ma italiano, senza brodolumi forestieri: dirà Bobbia, Paniccia o Brennosa la zuppa, Buiana l'oscuramento quasi improvviso del cielo, Caldaccia l'ira subitanea che roventa il sangue e infiamma il cervello, Aonco, il conato del vomito e il rumore che l'accompagna, Grepa, il vino misturato con lo zucchero, Bava, la spuma del mare, Bozzo l'Oceano, ma il loro dire è sempre sollevato da una fantasia abbagliante, e da una fresca perenne invenzione, e quando s'adira è Dantesca. Gente il cui viso terragno è strinato dal sinibbio e dai piovaschi, i cui occhi hanno il tono del mare torbato o in bonaccia, la cui ossatura è incrollabile come i pietroni contro cui si frange il mare tempestoso, assuefatta alle Gabarre d'Algeria, le Carabe dei turchi, le Menaite del napoletano, gli Spardecche, le Felughe Catalane, le Paranze, nostrali, le Tartane, gli Scuneri, i Navicelli, che quasi tutta ha il cazzotto proibito e parla a bretto -così come viene- come gli insegnò la loro madre. Molta parte di questi miei racconti è imbastita con questi tronchi pieni di nodi, come i montanari fanno le travature di castagno, appena tagliato dalla selva, e non le mondano nemmeno, e come resistono le loro case alle tempeste, il lessico non ha la scialbatura dei casamenti travicellati e pulimentati a dovere che, quando meno ve lo aspettate, vi cascano sul capo e fanno un'Odissea. Linguaggio col quale anch'io snodai la lingua sulle calate della Darsena vecchia di Viareggio che amo perché è mio, anche se non è bello.
 

Lorenzo Viani

 

Sacrificata
La Seppietta aoncava, sulla soglia dell'uscio, dalla parte dell'orto, ma non riesciva a vomire. Gli occhi le lacrimavano come se avesse affettato la cipolla.
— Cosa mai ti è preso? — le chiese una donna del vicinato.
— Questo succede alla gente di còre: per non far sborniare il mio marito, ieri sera, mi toccò bere i diciassette ponci ch'egli aveva ordinato.


Barolla
Pentiti, Altemisia
Tutte le sere che Barolla si beveva le cervella, tosto che riusciva a varcare la soglia di casa dopo essersi arrovellato come un'anima persa intorno al buco della chiave, ci aveva le reprimende della moglie.
— Cambia vita e costume; guardati come sei condotto, hai una mano davanti e una di dietro, incarno di bere mettiteli addosso, gozzovigliatore e lembrugio. L'Artemisia proverbiava così, sdraiata nel letto matrimoniale, intanto che Barolla a barlume, dando spallate nelle pareti e stincate sugli scalini, si riduceva a letto.
— Pentiti, Altemisia — diceva Barella.
— Senti che non sei più capace nemmeno di pronunciare l'erre: o come fai a condurti così? Fai vergogna a uno stato, porco e lembrugio.
— Pentiti, Altemisia.
— Pentirmi io? Io, povera e meschina che ho bevuto tant'acqua che mi par mi sciambrottino in corpo i boddini: pentiti tu, villanzon fottuto ingordo e malfidato.
— Pentiti, Altemisia.
— Oh cristiani! gnanco chi ti sente. Entra piuttosto nel letto, leto, digrumatore, birbante.
Barolla che si è sbrucato da dosso i panni, alza le lenzuola ed entra sotto le coltri.
— Sta' a te; lo so che effetto ti fa la bibita.
— Altemisia, sii bona.
— Bada che tra me e te ci metto la tavola del pane.
— Sii bona.
— Ma, tron di Dio, doman da sera ti vengo dietro, a patti di crepare.
— Sì, Altemisia; ma stasera che tu sia bona.
Il sonno suggella gli occhi di Barolla e una specie di violino scordato comincia a suonargli sulla bocca dello stomaco; l'Artemisia invece per riprendere il suo sonno trarotto, dovè dire cento requimeterne.
— Da mezzanotte a giorno ho contato tutte l'ore e i quarti che ha battuto la torre: io, ho l'acqua all'incinte. Ma mi gira, aver sonno e doverlo trarompere per un villanzone porco e lembrugio. Ma stasera ti vengo dietro, vo' veder le tue prodezze.
— Vieni, Artemisia, ci si svagherà un po' insieme, o non te l'ho detto sempre, vieni.
— Non ho più faccia da mostrare, aver per marito un ciàccaro come te: ma stasera vo' veder le tue prodezze.

La sera, l'Artemisia dopo ch'ebbe cenato insieme al suo Barolla, s'in vergò per bene: si mise la puntina di crespo, il grembiule di ghineone a fiori, calzò le spardiglie, e s'infarinò un po' il viso. Dopo, prese a braccetto Barolla ch'era stato dal barbiere e s'era fatto la scompartitura ai capelli, intorchiato i baffi e profumare. La prima fermata la fecero al Caffè del Benetti e bevvero un ponce con tanto rhum e uno schizzo d'anice.
— Lo rende più aggraziato — disse Barolla.
Dopo aver bevuto il primo ponce Barolla insinuò: — Bellona, ce ne vuole uno per occhio.
— Io mi vergogno — disse l'Artemisia.
— O non si beve dei nostri? Cecco, fanne altri due.
Dopo che i coniugi si furono inzavorrati i due ponci, uscirono. All'Artemisia, le si cominciò a sciogliere la lingua e il sangue: — Te lo devo dire, Barolla, mi sento un po' arsionata, che ti debbo dire, forse tutto quel rhum... O come fai a beverne mai tanti?
— Cosa vuoi, Artemisia; ormai mi sono assuefatto alla bibita.
— Bon per te. Io mi sento già arsionata. .. Si passa da una polla?
— Non sia mai detto che la moglie di Barolla è stata veduta a bere a una polla come una ciuca: piuttosto gli si va a dare un decino bianco di quello striscino, abboccato, così detto «da donne». Vieni con me.
Dopo pochi passi, i coniugi varcarono la soglia della fiaschetteria di Girotti.
— Conosci tutti i buchi... buon per te — disse l'Artemisia.
— Portate due decini di quello da «Comunione», dolce come il miele. L'Artemisia lo buttò giù come se fosse stato giulebbe:
— Questo è buono — disse leccandosi le labbra.
— Allora si rinoga — disse Barolla — Ci risminestri due altri quartucci.
— Deccolo bello fresco.
Anche il secondo filò giù d'un fiato. I coniugi con l'acqua all'altezza dell'opera morta uscirono locciando come due tartanelle tra la bavarella.
— Te l'ha a dire, mi sento gli stombaucci — disse l'Artemisia.
— Allora, sarebbe l'asso, un cognacchino di quelli che fortificano attaccano e tirano.
Barolla condusse la moglie all'Osteria del Giglio e le fece versare un cognacchino che l'Artemisia ingoiò al volo.
— O Barolla, conducimi a casa, mi sento su per la gola come i ranocchi.
— Vieni, amore — e Barolla prese alla vita l'Artemisia e la condusse prestamente a casa. Appena lì, essa cascò in terra secca come un chiodo e cominciò a straziarsi, martoriata da certi conati di vomito bilioso, sicché pareva una scrofa al truogolo.
— Barolla, schianto.
Gli occhi le sgusciavano fuori dal capo, la bocca che sembrava una caverna, gemeva bava e gli occhi lacrime.
— Barolla, è l'ultimo giorno della mia vita.
— Coraggio Artemisia, dopo non è altro.
— Ohimè, schianto — e l'Artemisia introgolava tutto l'impiantito.
— Schianto, Barolla, schianto.
— Vedi, Artemisia, e tu credi che io goda quando ritorno a casa in codesto stato, come qualmente tu ora sei: che ti pare, si gode?
— Dì su, Artemisia, si gode? Ora capirai le mie parole quando ti proverbiavo: pentiti, Artemisia.


Lorenzo Viani
, "Storie di Vàgeri",

(due volumi in cofanetto, Lire 66.000), Vallecchi Editore, Firenze, 1988

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