«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 3 - 15 Maggio 1993

 

La rivincita di Pollicino

 


Oggi sono grato a "Tabularasa". Perché capisco che questo piccolo strumento ci ha consentito, durante la sua esistenza, di fare come Pollicino: ci siamo lasciati dietro una scia di piccoli sassi, tracce insignificanti nel momento in cui le producevamo ma che, ripercorse, danno tangibilmente il senso di un cammino, di un sentiero che ci ha condotto attraverso le vicende politiche più sconvolgenti del nostro dopoguerra. Anche se sullo scorso numero avevamo annunciato un maggiore approfondimento dei temi referendari, per una scelta che già allora avevamo fatto in maniera chiara e decisa, i tempi di uscita del giornale ci portano a scrivere in una situazione già nuova, in una fase successiva. Siamo già oltre, dunque, in quell'oltre in cui avevamo creduto, sperato, quell'approdo intravisto che aveva guidato le nostre scelte al tempo della rottura di ogni appartenenza.
Ora abbiamo tutte le conferme, sanzionate, solo sanzionate dal risultato referendario. Un risultato che comporta due ordini convergenti di conseguenze. Uno tutto politico, fatto di simboli, come di simboli la politica è fatta. L'unica vera domanda che sottostava ai quesiti del 18 aprile, al di là delle adesioni opportunistiche o forzate di qualcuno, era la spinta a chiudere -tout court- tutti gli attuali partiti. La risposta è stata massiccia e non solo una questione di volontà popolare; la forza simbolica di questa liturgia collettiva ha assunto una vita sua propria, è di tale portata che nessuna furbizia, nessuno dei giochi che pur si tenta di giocare all'interno delle vecchie regole, dei vecchi rituali, potrà resistergli. La crisi, la rottura, il collasso erano già consumati prima e a prescindere dal referendum e da ogni possibile riforma: ora vi sono i segni, le stimmate che la rendono patrimonio comune, svelato, decifrato.
Vi è poi un aspetto più strettamente tecnico, che sviluppa i suoi effetti grazie al substrato politico su cui si colloca. La chiusura definitiva delle vecchie botteghe avverrà anche grazie al nuovo regime elettorale, qualsiasi formula verrà adottata.
Se infatti si andrà verso una riforma che preveda anche per la Camera l'uninominale ad un turno, già dalla prima edizione delle nuove elezioni non potranno che esserci tre, massimo quattro candidati credibili per ogni collegio, tutti i partiti dovranno sciogliersi per dar vita ad aggregazioni più vaste, più consistenti. Ma soprattutto, dato il prevalere assoluto delle decisioni locali e scelte legate alla presentabilità reale di ogni singola persona, verrà meno la necessità degli apparati di partito così come fino ad ora sono stati concepiti. Non serviranno più le strutture territoriali, motivate e tenute in vita, spesso artificiosamente, non solo per connettere ad un centro quelli che erano semplici terminali operativi, ma anche per attribuire forza contrattuale interna a chi doveva usarla per l'attribuzione di posti di responsabilità, per la formazione delle liste, per la compravendita di pacchetti di voti. Per lo stesso motivo perderanno funzione e consistenza, verranno azzerate, le logiche delle correnti, gruppi di potere e di interscambio che avevano come teatro d'azione l'intero Paese come grande bacino elettorale. Quelle correnti che avevano finito per essere il vero caposaldo della partitocrazia e costituire il più importante elemento di corruzione, per la logica di finanziamento ad esse connessa.
Il sistema a due turni giustificherebbe, in teoria, il mantenimento in vita di strutture che, seppure molto meno pesanti e numerose, farebbero sopravvivere vecchie logiche di centralismo e contrattazione. Solo in teoria però. Proviamo infatti ad immaginare cosa succederebbe nello spazio di trattativa che si aprirebbe tra il primo ed il secondo turno: le segreterie dei partiti si illuderebbero di ritrovare un proprio ruolo nel disegnare uno scambio di reciproci favori elettorali nelle singole zone, cosa per altro plausibile in una situazione tranquilla e consolidata, ma quale sarebbe la realtà dei singoli collegi? Nessuno oggi è più disposto a sacrificare i propri interessi o le proprie ragioni ad un organo centrale (non esistendo più né motivi forti di appartenenza né contropartite di puro interesse) si aprirebbe dunque un mercato delle vacche interno ad ogni singolo collegio, senza esclusione di colpi e di rinnegamenti. In quel breve lasso di tempo le segreterie nazionali dei partiti, i loro organi territoriali perderebbero gli ultimi brandelli di autorità, le ultime speranze di esistenza.
È un cammino, quello di deperimento del partito come organo decentrato dei poteri dello Stato, che è comunque in via di compimento, si tratta solo di verificarne le ulteriori modalità ed i traumi che non mancheranno di farsi avvertire. Ma il processo è nella sua fase matura. Anche le vicende giudiziarie che lo hanno accompagnato hanno già prodotto i loro effetti: poco interessa ormai sapere se ci saranno i processi a Craxi ed Andreotti, poco interessa se le verità processuali di quei procedimenti risulteranno tali. Sul piano della politica il processo è ormai compiuto, la condanna emessa e riguarda non soltanto quei fatti e quei nomi che sono oggi chiamati a rispondere in tribunale, ma tutta intera la schiera dei gregari e dei portaborse che hanno proliferato in questo sistema.
Vorrei far riflettere su questo punto i nostri lettori, soprattutto gli amici che si attardano su dubbi amletici in merito ai rischi di riciclaggio delle vecchie forze politiche, spesso legate a visioni millenaristiche e ad una voglia di vendetta fine a sé stessa. Quale è la cosa che oggi occorre? Che si possa vivere in un Paese un po' più normale, un po' meno soggetto a quelle tutele internazionali ed a quei ricatti politici che hanno determinato un clima di terrore e di eterna emergenza in cui la possibilità di partecipazione era una illusione, la libertà uno slogan, in cui il diritto era quotidianamente calpestato e ogni giorno serviva un capro espiatorio. Può darsi ora che se le cose vanno per il meglio -e non detto che questo succeda in tempi brevi- si possa tornare a discutere liberamente, che le idee possano essere rimesse in circolazione, che noi cittadini si torni ad essere titolari di scegliere i nostri rappresentanti, sia pure con la approssimazione che qualsiasi metodo di rappresentanza consente. Questo finora ci è stato negato ed è per questo che abbiamo combattuto, a volte forse senza saperlo chiaramente, equivocando magari sui moventi della nostra rabbia, che era spesso rabbia impotente. Va bene, la DC tenterà di riciclarsi,
il PCI ha provato a farlo da tempo (e forse, in parte, per tempo), e dobbiamo dispiacercene? La DC di Martinazzoli, non è già più quella di Andreotti, Gava, Forlani e Pomicino, il PDS di Occhetto non è il PCI di Togliatti o di Berlinguer, il PSI non è più quello di Craxi. E non sono nemmeno i loro succedanei, e se anche per qualcuno dei loro «autori» possono sembrare degli espedienti di autotutela, in realtà sono già un'altra cosa.
E lo saranno sempre di più. Una DC con uomini diversi, con qualche idea che non sia il solo mantenimento del potere, con un nuovo nome, più piccola e, soprattutto intercambiabile nel ruolo di governo mi sembra che costituirebbe un traguardo notevole ed anche poco prevedibile fino a qualche tempo fa. Insomma stanno succedendo molte delle cose volevamo succedessero e che, da Pollicini, avevamo in qualche misura e solitariamente anticipato.
Lo diciamo non per vantare capacità profetiche ma per ricordare che le nostre scelte non erano guidate da un bisogno ontologico ma da un ragionamento che ci portava a fare anche delle previsioni. Ora è probabilmente più chiaro il significato di quanto dicevamo convinti che una certa forma di partito aveva esaurito la propria funzione, che altri modelli, altre forze, altre ragioni per lo stare nella politica sarebbero emerse. Questo semplicemente e gli approdi si vanno pian piano delineando e non possiamo che esserne soddisfatti: ora e solo ora si riaprono i giochi, torna la politica. Continuiamo certo a non nasconderci i rischi che una crisi, matura ma non chiusa, comporta. Rischi seri, pericoli reali, credo che nostro compito sia quello di contribuire a contenerli ed accompagnare una soluzione positiva e pacifica della crisi, senza remissioni o paure, ma mettendo in campo un recuperato senso civico. Forse è arrivato anche il momento di Pollicino.

 

Umberto Croppi

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