«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 3 - 15 Maggio 1993

 

Occorrenze e necessità per un'Italia nuova

 


Quel che sta accadendo in questo periodo ci da ragione. Noi rivendichiamo la ragione d'aver visto per primi, e di averle denunciate ad alta voce e in tempi non sospetti, le collusioni e la personificazione del potere con la mafia. Quando sostenevamo le tesi di Beppe Niccolai, che riteneva il terrorismo destabilizzante per il sistema e la mafia consustanziale ad esso fino al punto da permettere a Carlo Alberto Dalla Chiesa di vincere sul primo e soccombere sotto il fuoco della seconda, eravamo nel giusto. La storia ci sta dando ragione. Come crediamo fermamente che un regime è morto e un'Italia nuova s'affaccia, deve affacciarsi, sulla ribalta del mondo. Un'Italia che deve fare sintesi di tutte le lacerazioni del secolo morente in concomitanza della chiusura di un ciclo storico, che ha visto gli italiani dilaniarsi fra loro. Ciò non significa incitare all'embrassons-nous, che certe differenze restano ed è giusto che sia così: la libertà è il rispetto delle singole specificità. Si tratta però di capire gli errori del passato, per non incorrervi nuovamente.

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Per trarre e far tesoro delle lezioni del passato necessita una forte convinzione di sentirsi figli di una stessa Patria, quella patria che tradizionalmente sentiamo sotto i piedi, che ci lega in una comunità di destino, che ci unisce tramite una lingua ch'è «una». È ora di pensare ad un'Italia nuova. La storia questa volta ci risparmierà la comparsa dei «revenants». Non ci saranno giacché il passato è passato per sempre e per tutti. Nessuna macchina del tempo potrà riportarci indietro né possiamo attendere quanti volontariamente s'attardano a guardare «quel che fu» sperando illusoriamente che diventi «ciò che è».
Abbiamo da ridisegnarci un futuro. Prima d'ogni cosa il conservarci come popolo. Il popolo italiano sta morendo. Muore demograficamente e le cicogne sono state abbattute in nome di un malthusianesimo che è estraneo alla nostra civiltà e alla nostra storia. Non ripeteremo che «il numero è potenza» ma ribadiremo la nostra avversione ad un edonismo sciagurato che ha prodotto quel deserto dell'anima nel quale vagano folle di corpi intontiti e inebetiti dai veleni di questo mondo senza Dio. L'incremento demografico è un investimento per il futuro. L'analisi di Napoleone Colajanni ("Panorama", 29.11.1992) non fa una grinza: «Per poter pagare pensioni adeguate a chi non può più lavorare occorre prelevare una parte della ricchezza prodotta da chi lavora; se la proporzione degli anziani aumenta, il prelievo su chi lavora prima o dopo finisce per diventare insopportabile». Creando così sempre più numerose sacche di povertà, di emarginazione e di turbolenza sociale.
Chiaramente, per addivenire ad una simile consapevolezza, c'è bisogno che si rimediti il tanto strombazzato «modello di sviluppo». Questa giungla, nella quale viviamo, ci uccide. Ci ferisce a morte la carne e l'anima. Siamo diversi dai preti. Noi non combattiamo il lusso in quanto genitore di vizi che conducono alla perdizione. Noi sposiamo in pieno, alle soglie del Duemila, antiche idee per le quali «il lusso è idiota e criminale quando impoverisce la nazione e la rende economicamente schiava dello straniero».
Guardiamoci intorno: quale lezione se non questa ci viene dalle macerie di Tangentopoli e dalle orge dei suoi califfi? È il prezzo che abbiamo pagato per godere bestialmente dei frutti velenosi della nostra fuga dalla storia, dalla nostra riduzione a un grumo di genti «piacevoli, servizievoli e divertenti» che ha realizzato un sogno accarezzato, ma fino ad un certo punto impedito, dagli anglosassoni. Scrostiamoci di dosso fossili d'illusioni: abbiamo davanti a noi anni difficili, durante i quali dobbiamo lavorare. Lavorare sul serio guardando in faccia la durezza di una realtà cruda. Nessuno verrà a medicare le nostre profonde ferite. Non abbiamo più posizioni strategiche importanti da barattare. Siamo terribilmente soli e non ci saranno «mercati unici» che possano venirci in soccorso.
Il mondo è ancora rigidamente diviso in due: da una parte i deboli e dall'altra i forti. E per essere rispettati, bisogna avere forza. Non sogniamo stantie «volontà di potenza», Nietzsche è morto, ma il lavoro è libertà. Riconosciamolo: siamo stati un popolo che ha vissuto mezzo secolo della sua storia scialando nel più bieco parassitismo. Non potevamo sfuggire al nostro destino, ch'è stato quello d'essere ridotti nella più miserevole delle schiavitù.
Sia pure proporzionalmente, siamo tutti corresponsabili dello sfascio nel quale anneghiamo smarriti. Ora è il momento di rileggere, come una mappa chiara in un cammino oscuro, i versi di Kipling: «Se saprai assistere alla distruzione di ciò per cui hai dato la vita, e chino saprai ricominciare, tu sarai un uomo».
Non vogliamo fare proclami, non incederemo nella bolsa retorica, non soffieremo nelle tube. Invitiamo a stare con i piedi per terra. Piantati sulla nostra terra. Ch'è quella dei nostri padri e sarà dei nostri figli.

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Riccardo Breviglieri era un operaio di Ferrara. Si è ucciso. Ha lasciato scritto, vergato prima di morire: «Lo Stato fallisce quando non riesce a collocare chi al lavoro ha dato tutto ed è volenteroso».
Ma lo Stato italiano è stato un partito che colludeva con la mafia, i cui maggiorenti si sono incontrati con gli usurai della terra su un battello in mare aperto per programmare lo smantellamento della catena produttiva italiana. Gli hanno appioppato un nome e la «privatizzazione» è diventata la nuova religione idolatrica sulle cui are sacrificare ancora una volta un popolo. Va chiesto: perché la prima volta al calo di occupazione nell'industria e nell'agricoltura non è seguita la compensazione nel terziario? La risposta non può essere che una. Non si è saputo armonizzare quegli elementi che ci sono fondamentali: il sole, l'acqua, il lavoro e la scienza. Una delle più grandi follie di questo regime morente è stata rappresentata dal voler trasformare i contadini in operai: ora non abbiamo più terra né fabbriche.
Un'accozzaglia di volgari grassatori ignoranti ha distrutto un patrimonio inestimabile, che finanche una guerra perduta aveva risparmiato, senza tenere presente la lezione di tremila anni di storia: tutti i popoli che hanno abbandonato la terra sono diventati schiavi di altri popoli. Seppure la terra abbandonata si fa matrigna dei figli malvagi e li respinge, ad essa bisogna tornare in veniale genuflessione perché «verso la terra debbono volgersi le speranze e le energie dei popoli, per attingere a questa sorgente prima di prosperità, a questa riserva sempre rinnovellatrice, tutta l'energia rigeneratrìce che dovrà ridare al mondo la sua serenità e la sua ricchezza».
Non è il rincorrere una ruralità fuor di tempo: è la consapevolezza che dalla terra vengono le soddisfazioni delle necessità più immediate dell'uomo. Quella terra che per fruttare generosamente abbisogna di sole, acqua, lavoro e scienza. Una scienza, sorella amorevole e non avvelenatrice di germani, la quale, rincorrendo il nume patrigno del consumismo ha finito per bruciare radici, per rinsecchire rami e avvizzire chiome. Assassina del creato. Una scienza chiamata a risolvere il problema della distribuzione della ricchezza in modo che non abbia ancora a verificarsi il turpe spettacolo d'una miseria crudele fra tanta abbondanza. Carezzare amorevolmente la gente dei campi o quel che ne resta. Ricominciarlo a fare: si può, si deve. Non più assistenzialismo ladro che scanna l'impulso all'imprenditorialità. «Considerare i contadini come degli elementi di prima classe nella comunità nazionale, ricordarsi spesso di loro e non soltanto in tempi di elezioni».

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Siamo terra circondata per tre quarti dal mare. Anziché guardare con amore a quell'acqua, vi abbiamo riversato tutti i veleni del nostro «progresso senza sviluppo». Le genti d'Italia devono tornare a riconsiderare il mare quale fonte di salute e di vita. Avevamo in mare «potenti colossi» che solcavano le rotte del globo portando lontano il profumo della nostra patria. Parafrasando Quintilio Varo nella selva di Teutoburgo, potremmo chiederci: «Dove sono le nostre navi?» Le hanno alienate facendogli su la cresta, per «oliare» i fetidi ingranaggi delle cosche di partito. Oggi languono porti e arsenali: le maestranze, disperate, s'incatenano ai cancelli di cinta.
Ma al mare occorre tornare: da esso, come ci venne la vita, potrà anche venirci la fortuna e la prosperità. Abbisogna riconsiderare il sistema d'inurbamento. Abbiamo vissuto la fuga verso le città come un baccanale orgiastico. Come risultato abbiamo ottenuto la creazione di «comunità illusone», in cui la socialità e la comunicazione di uomini sono state impiccate alla forca di un «progresso» che ci ha resi soli fra moltitudini. Abbiamo dilatato il perimetro delle città, colando cemento armato su un terreno che altrimenti poteva soddisfare i bisogni del nostro popolo e la fame di altre genti, che non hanno mai smesso di guardare alla civiltà del nostro popolo. Ora dobbiamo scalare di marcia e ruotare il volante; c'è bisogno d'invertire la rotta. Tutto questo si potrà fare se -ora che si sono spente le luci illusone d'una ricchezza virtuale- avremo finalmente la capacità di prendere coscienza dei terribili problemi che ci aspettano. L'ansia di cambiamento che alimenta fra le genti deve essere sfruttata appieno da chi crede fermamente che cambiare si può. Ma c'è da lavorare: col pensiero e con le opere. Senza tante parole. Altrimenti, ancora una volta, tutto cambierà affinchè tutto possa restare così com'è.
 

Vito Errico

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