«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 3 - 15 Maggio 1993

 

Le polemiche

 


Caro Antonio,
non sono d'accordo quasi con nulla di ciò che è apparso sull'ultimo numero di "Tabula Rasa". Non sono d'accordo con quel che scrive Croppi; non mi sta bene il modo di ragionare di Donnici; e neppure mi trovo in sintonia con i furori di danni Benvenuti. Né mi attira il piattino in salsa toscana che servi a Nisticò, colpevole di credere ancora al MSI.
Dunque, stabiliamo un punto di partenza: quello dell'assoluta schiettezza che, del resto, tra me e te c'è sempre stata. Bene, tu sai che io non ho vissuto, al contrario di voi tutti, naufraghi, transfughi, esuli o folgorati sulla via di Damasco che vi sentiate, la militanza nel MSI. Sono sempre stato un battitore libero, a non voler considerare gli anni della Giovane Italia vissuta con passione quando facevo il liceo a Pesaro e l'iscrizione al FUAN al tempo dell'Università. Poca cosa, come vedi, rispetto a quel che avete fatto voi nelle sezioni, nelle federazioni, nelle battaglie di corrente, ai convegni ecc.
Se non sono mai stato missino nel senso pieno del termine, diciamo che sono sempre stato dell'ambiente. Un intellettuale di area, ora più vicino, ora più lontano. Uno a cui è sempre dispiaciuto un MSI dove si trovasse tutto e il contrario di tutto -destre di tutti i generi, sinistre di ogni tipo, forcaioli e rivoluzionari, vandeani e giacobini, badogliani e repubblichini- e che ha sempre vagheggiato -ahimè, inutilmente!- l'esistenza di una Destra liberal-moderata da una parte e di un pugnace, dunque non melenso, non nostalgico, non liturgico, non golpista, non servizievole con i Servizi, neofascismo dall'altra.
E ancora: uno a cui tutt'oggi brucia nel cuore la mancata occasione di un Sessantotto italiano, di una bella rivolta generazionale, di una battaglia di revisione e di ricostruzione che togliesse di mezzo tutte le macerie ereditate dalla guerra, e che ci facesse ritrovare Popolo e Nazione, Stato e Comunità (sì, tutti con la maiuscola!) nel senso vero e profondo, contro ogni uso e abuso.
Infine: sono uno che le contraddizioni avrebbe voluto vederle semmai esplodere al momento della Guerra del Golfo, non mesi dopo, quando l'accelerazione degli eventi aveva mandato a farsi benedire il senso politico, le immediate ragioni di lotta politica, relative a una definizione di campi e di immagini.
Concludendo queste prime osservazioni, aggiungo che io dietro di me non ho terre bruciate né ponti demoliti né deserti né anni zero di estremistica memoria: mi sento ben radicato in una identità storica, politica e civile; mi sento sostenuto e legittimato da una eredità di ideali e di affetti che, ovviamente, ho ripensato fino a farmi male, ma solo per riscattarla dalla polvere di nostalgie e mistificazioni e consegnarne al futuro i fondamenti e le prospettive; e ritengo di avere una biblioteca ricchissima non di testi sacri che presuppongano obbligatorie genuflessioni, trasalimenti emozionali e appelli retorici, ma di libri che mi esplodono dentro ogni volta che torno a rileggerli per quanto mi danno non solo in termini di visione del mondo ma come strumenti di lettura per interpretare il mio secolo, per dar sale ai miei disagi e alle mie speranze, per potermi guardare allo specchio e dire: «Questo sono io. Questa è la mia filosofia. Questa è la mia storia. Questa è la base, la viva, pulsante materia, su cui costruisco il progetto. Qui mi ritrovo. Aperto, apertissimo agli altri, ma con il mio profilo».
E, allora, per ritornare al MSI: ho da sempre avuto infiniti motivi ed ho tuttora infiniti motivi per considerarlo scarsamente affine o addirittura fortemente dissimile a volti che sono ragioni, a idee che sono emozioni, a scelte che sono valori, e che fanno riferimento a un paesaggio di cui non voglio e non posso sconciare l'immagine; e tuttavia, con questa rabbia che mi porto dentro da sempre, con le delusioni, il disincanto, anche con lo schifo che, di fronte a errori e orrori di una storia politica, io provo; tuttavia, dicevo, quello che è fuori dal MSI, quello che è contro il MSI, quello che nei confronti del MSI si sente altro e dopo abbondanti frequentazioni, adesso si risveglia con la paura del contagio, non mi piace. Se vuoi, mi piace meno del MSI.
E non mi convincono i maddaleni pentiti che dicono di far politica ma si esercitano soprattutto nella brutta (e cattiva) arte del risentimento, pieni di veleni personali ancora non smaltiti, di ferite ancora non rimarginate, di un astio che viene fuori da ogni discorso. Perché, se si debbono fare dei processi, bisogna assumersi la responsabilità profonda del chi eravamo, del chi siamo, del come, quando e perché abbiamo deciso di tagliare il cordone ombelicale. Bisogna essere più generosi, non covare livore, nuovamente farsi male, se vuoi, nel raccontare una storia dove non si è passati come verginelle innocenti, dove, volenti o nolenti, ci si è fatti stuprare. Ma dove -ecco un altro punto importante- non tutti sono stupratori.
Allora bisogna distinguere, discriminare: l'Onorevole Tizio non è l'Onorevole Caio, gli elettori non costituiscono una amorfa palla di fango ma sono gente fatta di carne, sangue e spirito, le contese, i conflitti, le polemiche anche aspre non dovrebbero servire a distruggere ma a costruire. Mi sembra che fosse Corridoni a dire che «la patria non si nega ma si conquista». E lo diceva quando tutti gli eretici -e il socialista Mussolini in testa- partivano all'assalto della parodia patriottica e della parola sociale in nome di quella Guerra che si doveva fare e di quella Rivoluzione che si poteva fare. Non una Guerra grande ma una guerra dove si poteva esser grandi, per il dovere di rendere un po' più grande l'Italia; non una Rivoluzione dalla terribile forza distruttiva e creativa ma una Rivoluzione paziente e tenace che salvasse quel che nel presente e 'era da salvare e disegnasse un progetto di futuro, cui lavorare giorno per giorno. Fatto sta che l'Italia ebbe una forma e un destino: fu un momento di intensità costruttiva, di forza operosa e concorde, vogliamo dire anche di retorica? Certo, ma la retorica oltre che brodaglia enfatica può anche essere, in momenti di rara felicità, l'antica arte di accordare i pensieri alle parole e le parole alle opere.
Ma tutto questo che c'entra?, mi chiederai. Ed hai ragione: mi rendo conto che, in apparenza, l'uomo di partito che forse meno, negli ultimi anni, appartenne al suo partito ma che vi restava comunque abbarbicato, sentendo che aveva responsabilità di quella casa, di quel che era diventata, di quel che, però, avrebbe potuto essere. Mussolini non sbaraccò l'Italia: costruì, amputando i rami secchi e valorizzando le risorse. Niccolai era troppo stanco per tutto questo ma le amarezze non ne fecero un transfuga: il suo impegno, meglio il suo sogno, era che si costruisse per tutti gli Italiani, non chiesina contro chiesa, particella contro parte, partito contro patria. Non era eretico chi partoriva fazioni ma chi le smantellava, chi riassumeva -nel socialismo tricolore un pò costruito ma per cui c'era tanto da fare- la scissione del '14 combattentistico, quella dei Fasci diciannovisti, quella comunista, quella di Salò.
Non bisognava spezzettare ulteriormente ma ritrovare l'unità se non si erano sapute utilizzare le occasioni per la grande deflagrazione politica (Niccolai aveva visto il Sessantotto ma non avrebbe visto la Guerra del Golfo) che, comunque, anch'essa a una ritrovata, potenziata unità doveva mirare.
Ma, caro Carli, tu, Croppi, Donnici, Benvenuti -ognuno, per dirla con Evola, con la sua equazione personale e la sua provvista di ferite e di idiosincrasie- dite di essere diventati altri. Dove, come, quando, perché? Io proprio non mi ritrovo nei vostri tentativi di legittimare come qualcosa che sia più della parte una Rete, un Movimento Federativo, un Partito Radicale, una antagonistica Isola che non c'è. Davvero credete che quella sia la gente nova non nello spregiativo senso dantesco ma in quello, positivo e altamente qualificativo, di ardimentosi navigatori avviati verso la Terra Promessa dell'Altra Italia?
Fermo restando il profondo rispetto che ho per ciascuno di voi, ferma restando la convinzione della vostra fondamentale probità, e altrettanto ferma restando la mia amicizia, sento nel vostro altro più la presenza di irrisolti umori e malumori che quella di una matura e ponderata convinzione politica. Siete sbarcati da una nave che faceva acqua, dopo che i nocchieri avevano creduto di fare fuoco e fiamme, ognuno con la sua scialuppa, ognuno con una visione diversa della terra a cui sarebbe approdato. Sballottati dai flutti, siete alla fine arrivati, ognuno ha dato alla terra il nome delle sue burrascose vicende o ha trovato in quella terra un angolo che a queste burrascose vicende desse un nome. Siete davvero arrivati? Dovete ripartire? C'è un'isola che tutti appaghi? È quella dove il Sì suona? Siete sicuri che assomigli all'Italia?

Tuo e vostro,

 

Mario Bernardi Guardi

 

 

 

 

No, caro Mario.

Con te non mi è possibile polemizzare (come abitualmente faccio con altri) in risposta alle tue analisi. La nostra lunga frequentazione ha prodotto, ritengo, almeno da parte mia, stima ed affetto. Le ragioni della nostra fuoriuscita dal MSI sono ormai arcinote a tutti e non credo valga la pena rienumerarle. Sicché ritengo, il tuo scritto, uno «sfogo», un'appendice ai tanti «sfoghi» che, un anno fa, apparivano su questo foglio in senso opposto al tuo.
In un punto, però, ti debbo una precisazione: laddove scrivi che noi «... ognuno, per dirla con Evola, con la sua equazione personale e la sua provvista di ferite e di idiosincrasie» diciamo di «essere diventati altri». Caro Mario, siamo sempre stati «altri», anche quando militavamo in «quell'ambiente». Perciò, gli epiteti di maddaleni pentiti, naufraghi, transfughi o esuli, non credo ci si addicano. E mi sovviene una massima di Confucio: «Solo i grandi sapienti e i grandi ignoranti sono immutabili». Noi, siamo poca cosa. Siamo semplicemente dei Pollicini -come scrive Umberto Croppi- che si lasciano dietro dei piccoli sassi, tracce insignificanti che in qualche misura solitariamente anticipano quanto dovrà accadere.
Non siamo approdati a nessuna isola, non ci siamo messi in un angolo e viviamo, da sempre, in quella terra dove il Sì suona. Quella terra dove, per dirla con Beppe Niccolai, che «... nel deserto delle strutture statuali, l'anima nazionale ha costruito le sue flotte e le sue cattedrali; la Torre veneta a Salonicco, la Torre dei genovesi a Costantinopoli, la sua potenza religiosa, economica e commerciale; ha scritto i suoi poemi; ha riempito il Paese di castelli, di municipi, di statue, di quadri; ha fatto le sue scoperte e ha trasmesso nei secoli, da Dante a Petrarca a Machiavelli a Leopardi, una certa idea dell'Italia».


A. C.

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