Le polemiche
Caro Antonio,
non sono d'accordo quasi con nulla di ciò che è apparso sull'ultimo numero di
"Tabula Rasa". Non sono d'accordo con quel che scrive Croppi; non mi sta bene il
modo di ragionare di Donnici; e neppure mi trovo in sintonia con i furori di
danni Benvenuti. Né mi attira il piattino in salsa toscana che servi a Nisticò,
colpevole di credere ancora al MSI.
Dunque, stabiliamo un punto di partenza: quello dell'assoluta schiettezza che,
del resto, tra me e te c'è sempre stata. Bene, tu sai che io non ho vissuto, al
contrario di voi tutti, naufraghi, transfughi, esuli o folgorati sulla via di
Damasco che vi sentiate, la militanza nel MSI. Sono sempre stato un battitore
libero, a non voler considerare gli anni della Giovane Italia vissuta con
passione quando facevo il liceo a Pesaro e l'iscrizione al FUAN al tempo
dell'Università. Poca cosa, come vedi, rispetto a quel che avete fatto voi nelle
sezioni, nelle federazioni, nelle battaglie di corrente, ai convegni ecc.
Se non sono mai stato missino nel senso pieno del termine, diciamo che sono
sempre stato dell'ambiente. Un intellettuale di area, ora più vicino, ora più
lontano. Uno a cui è sempre dispiaciuto un MSI dove si trovasse tutto e il
contrario di tutto -destre di tutti i generi, sinistre di ogni tipo, forcaioli e
rivoluzionari, vandeani e giacobini, badogliani e repubblichini- e che ha sempre
vagheggiato -ahimè, inutilmente!- l'esistenza di una Destra liberal-moderata da
una parte e di un pugnace, dunque non melenso, non nostalgico, non liturgico,
non golpista, non servizievole con i Servizi, neofascismo dall'altra.
E ancora: uno a cui tutt'oggi brucia nel cuore la mancata occasione di un
Sessantotto italiano, di una bella rivolta generazionale, di una battaglia di
revisione e di ricostruzione che togliesse di mezzo tutte le macerie ereditate
dalla guerra, e che ci facesse ritrovare Popolo e Nazione, Stato e Comunità (sì,
tutti con la maiuscola!) nel senso vero e profondo, contro ogni uso e abuso.
Infine: sono uno che le contraddizioni avrebbe voluto vederle semmai esplodere
al momento della Guerra del Golfo, non mesi dopo, quando l'accelerazione degli
eventi aveva mandato a farsi benedire il senso politico, le immediate ragioni di
lotta politica, relative a una definizione di campi e di immagini.
Concludendo queste prime osservazioni, aggiungo che io dietro di me non ho terre
bruciate né ponti demoliti né deserti né anni zero di estremistica memoria: mi
sento ben radicato in una identità storica, politica e civile; mi sento
sostenuto e legittimato da una eredità di ideali e di affetti che, ovviamente,
ho ripensato fino a farmi male, ma solo per riscattarla dalla polvere di
nostalgie e mistificazioni e consegnarne al futuro i fondamenti e le
prospettive; e ritengo di avere una biblioteca ricchissima non di testi sacri
che presuppongano obbligatorie genuflessioni, trasalimenti emozionali e appelli
retorici, ma di libri che mi esplodono dentro ogni volta che torno a rileggerli
per quanto mi danno non solo in termini di visione del mondo ma come strumenti
di lettura per interpretare il mio secolo, per dar sale ai miei disagi e alle
mie speranze, per potermi guardare allo specchio e dire: «Questo sono io. Questa
è la mia filosofia. Questa è la mia storia. Questa è la base, la viva, pulsante
materia, su cui costruisco il progetto. Qui mi ritrovo. Aperto, apertissimo agli
altri, ma con il mio profilo».
E, allora, per ritornare al MSI: ho da sempre avuto infiniti motivi ed ho
tuttora infiniti motivi per considerarlo scarsamente affine o addirittura
fortemente dissimile a volti che sono ragioni, a idee che sono emozioni, a
scelte che sono valori, e che fanno riferimento a un paesaggio di cui non voglio
e non posso sconciare l'immagine; e tuttavia, con questa rabbia che mi porto
dentro da sempre, con le delusioni, il disincanto, anche con lo schifo che, di
fronte a errori e orrori di una storia politica, io provo; tuttavia, dicevo,
quello che è fuori dal MSI, quello che è contro il MSI, quello che nei confronti
del MSI si sente altro e dopo abbondanti frequentazioni, adesso si risveglia con
la paura del contagio, non mi piace. Se vuoi, mi piace meno del MSI.
E non mi convincono i maddaleni pentiti che dicono di far politica ma si
esercitano soprattutto nella brutta (e cattiva) arte del risentimento, pieni di
veleni personali ancora non smaltiti, di ferite ancora non rimarginate, di un
astio che viene fuori da ogni discorso. Perché, se si debbono fare dei processi,
bisogna assumersi la responsabilità profonda del chi eravamo, del chi siamo, del
come, quando e perché abbiamo deciso di tagliare il cordone ombelicale. Bisogna
essere più generosi, non covare livore, nuovamente farsi male, se vuoi, nel
raccontare una storia dove non si è passati come verginelle innocenti, dove,
volenti o nolenti, ci si è fatti stuprare. Ma dove -ecco un altro punto
importante- non tutti sono stupratori.
Allora bisogna distinguere, discriminare: l'Onorevole Tizio non è l'Onorevole
Caio, gli elettori non costituiscono una amorfa palla di fango ma sono gente
fatta di carne, sangue e spirito, le contese, i conflitti, le polemiche anche
aspre non dovrebbero servire a distruggere ma a costruire. Mi sembra che fosse
Corridoni a dire che «la patria non si nega ma si conquista». E lo diceva quando
tutti gli eretici -e il socialista Mussolini in testa- partivano all'assalto
della parodia patriottica e della parola sociale in nome di quella Guerra che si
doveva fare e di quella Rivoluzione che si poteva fare. Non una Guerra grande ma
una guerra dove si poteva esser grandi, per il dovere di rendere un po' più
grande l'Italia; non una Rivoluzione dalla terribile forza distruttiva e
creativa ma una Rivoluzione paziente e tenace che salvasse quel che nel presente
e 'era da salvare e disegnasse un progetto di futuro, cui lavorare giorno per
giorno. Fatto sta che l'Italia ebbe una forma e un destino: fu un momento di
intensità costruttiva, di forza operosa e concorde, vogliamo dire anche di
retorica? Certo, ma la retorica oltre che brodaglia enfatica può anche essere,
in momenti di rara felicità, l'antica arte di accordare i pensieri alle parole e
le parole alle opere.
Ma tutto questo che c'entra?, mi chiederai. Ed hai ragione: mi rendo conto che,
in apparenza, l'uomo di partito che forse meno, negli ultimi anni, appartenne al
suo partito ma che vi restava comunque abbarbicato, sentendo che aveva
responsabilità di quella casa, di quel che era diventata, di quel che, però,
avrebbe potuto essere. Mussolini non sbaraccò l'Italia: costruì, amputando i
rami secchi e valorizzando le risorse. Niccolai era troppo stanco per tutto
questo ma le amarezze non ne fecero un transfuga: il suo impegno, meglio il suo
sogno, era che si costruisse per tutti gli Italiani, non chiesina contro chiesa,
particella contro parte, partito contro patria. Non era eretico chi partoriva
fazioni ma chi le smantellava, chi riassumeva -nel socialismo tricolore un pò
costruito ma per cui c'era tanto da fare- la scissione del '14 combattentistico,
quella dei Fasci diciannovisti, quella comunista, quella di Salò.
Non bisognava spezzettare ulteriormente ma ritrovare l'unità se non si erano
sapute utilizzare le occasioni per la grande deflagrazione politica (Niccolai
aveva visto il Sessantotto ma non avrebbe visto la Guerra del Golfo) che,
comunque, anch'essa a una ritrovata, potenziata unità doveva mirare.
Ma, caro Carli, tu, Croppi, Donnici, Benvenuti -ognuno, per dirla con Evola, con
la sua equazione personale e la sua provvista di ferite e di idiosincrasie- dite
di essere diventati altri. Dove, come, quando, perché? Io proprio non mi ritrovo
nei vostri tentativi di legittimare come qualcosa che sia più della parte una
Rete, un Movimento Federativo, un Partito Radicale, una antagonistica Isola che
non c'è. Davvero credete che quella sia la gente nova non nello spregiativo
senso dantesco ma in quello, positivo e altamente qualificativo, di ardimentosi
navigatori avviati verso la Terra Promessa dell'Altra Italia?
Fermo restando il profondo rispetto che ho per ciascuno di voi, ferma restando
la convinzione della vostra fondamentale probità, e altrettanto ferma restando
la mia amicizia, sento nel vostro altro più la presenza di irrisolti umori e
malumori che quella di una matura e ponderata convinzione politica. Siete
sbarcati da una nave che faceva acqua, dopo che i nocchieri avevano creduto di
fare fuoco e fiamme, ognuno con la sua scialuppa, ognuno con una visione diversa
della terra a cui sarebbe approdato. Sballottati dai flutti, siete alla fine
arrivati, ognuno ha dato alla terra il nome delle sue burrascose vicende o ha
trovato in quella terra un angolo che a queste burrascose vicende desse un nome.
Siete davvero arrivati? Dovete ripartire? C'è un'isola che tutti appaghi? È
quella dove il Sì suona? Siete sicuri che assomigli all'Italia?
Tuo e vostro,
Mario
Bernardi Guardi
No, caro Mario.
Con te non mi è possibile
polemizzare (come abitualmente faccio con altri) in risposta alle tue analisi.
La nostra lunga frequentazione ha prodotto, ritengo, almeno da parte mia, stima
ed affetto. Le ragioni della nostra fuoriuscita dal MSI sono ormai arcinote a
tutti e non credo valga la pena rienumerarle. Sicché ritengo, il tuo scritto,
uno «sfogo», un'appendice ai tanti «sfoghi» che, un anno fa, apparivano su
questo foglio in senso opposto al tuo.
In un punto, però, ti debbo una precisazione: laddove scrivi che noi «...
ognuno, per dirla con Evola, con la sua equazione personale e la sua provvista
di ferite e di idiosincrasie» diciamo di «essere diventati altri». Caro Mario,
siamo sempre stati «altri», anche quando militavamo in «quell'ambiente». Perciò,
gli epiteti di maddaleni pentiti, naufraghi, transfughi o esuli, non credo ci si
addicano. E mi sovviene una massima di Confucio: «Solo i grandi sapienti e i
grandi ignoranti sono immutabili». Noi, siamo poca cosa. Siamo semplicemente dei
Pollicini -come scrive Umberto Croppi- che si lasciano dietro dei piccoli sassi,
tracce insignificanti che in qualche misura solitariamente anticipano quanto
dovrà accadere.
Non siamo approdati a nessuna isola, non ci siamo messi in un angolo e viviamo,
da sempre, in quella terra dove il Sì suona. Quella terra dove, per dirla con
Beppe Niccolai, che «... nel deserto delle strutture statuali, l'anima nazionale
ha costruito le sue flotte e le sue cattedrali; la Torre veneta a Salonicco, la
Torre dei genovesi a Costantinopoli, la sua potenza religiosa, economica e
commerciale; ha scritto i suoi poemi; ha riempito il Paese di castelli, di
municipi, di statue, di quadri; ha fatto le sue scoperte e ha trasmesso nei
secoli, da Dante a Petrarca a Machiavelli a Leopardi, una certa idea
dell'Italia».
A. C.
|