«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 3 - 15 Maggio 1993

 

A proposito di una intervista di Giuseppe De Luna ad Antonio Carioti

Saggio sulle affinità elettive di due fratelli nemici: azionismo e fascismo
(parte 2)

 


Per questa seconda tappa del saggio sull'azionismo e fascismo «fratelli nemici» -occasionato dal volume collettaneo "La lezione dell'intransigenza - L'azionismo, 50 anni dopo", edito dalla benemerita Editrice Acropoli e curato da Antonio Carioti, giovane intellettuale curatore dei servizi culturali de "La Voce Repubblicana"- ancora puntiamo sulla conversazione, quant'altre mai interessante e originale, di Giovanni De Luna, massimo storico dell'azionismo, con lo stesso Carioti. Trattasi di intervista ampia -da pag. 101 a pag. 109 de "La lezione"- che si raccomanda, e la raccomandiamo, per il forte tasso di approfondimento e di indipendenza di pensiero che ne fa qualcosa di veramente diverso dalle solite giaculatorie in prò del neofascismo o del formalismo vetero antifascista. Vediamo.
Interrogato circa i «caratteri unitari dal punto di vista politico-culturale» dell'azionismo, il De Luna così si esprime: «Soprattutto il fatto di vivere la politica come conflitto, come rottura... Questa idea che la politica si alimenti di grandi rotture, e che su queste rotture non bisogna mai lasciar depositare la crosta della continuità, è un dato che accomuna tutti gli azionisti e li differenzia molto, per esempio, dai comunisti».
Affermazioni, queste, parecchio vere, ma non del tutto. L'azionismo, infatti, -quello autentico, naturalmente, ossia l'ala liberal-democratica del Partito d'Azione e suoi succedanei e successori; non certo i Lussu, i Lombardi, i De Martino, gli Spriano, i Trentin, i Foa del PSI-PSIUP etc.- le grandi rotture con tutti le han fatte, meno che con il capitalismo, da sempre vagheggiato rooseweltiano, moderno, efficiente, dialogante, democratico però, intatto nei suoi vantaggi e nella sua egemonia. E guai a chi osa metterlo in discussione. In tal caso, le accuse sono già pronte: populismo, peronismo, terzomondismo, fascismo di sinistra, nazional-popolare, lapirismo, giustizialismo, integralismo cattolico, andreottismo e via citando. Naturalmente... absit iniuria verbis.
Lungi da noi, cioè, la volontà di utilizzare tale constatazione a fini di polemica, di attacco, di provocazione. La democrazia è, per indole sua, polifonica; e, pertanto, pienamente legittima è una forza politica che si voti alla difesa di interessi capitalistici. Che -come ci diceva l'on. Bianco tanti anni or sono, da segretario della «giovanile» del PRI- assolva alla funzione di tenere la classe imprenditoriale entro il perimetro della legalità costituzionale. Ciò che l'azionismo partitico di allora e l'azionismo della diaspora di adesso non sono in grado di rivendicare è una tradizione di portatori di orifiamma della rivoluzione. Perché una rivoluzione non può essere soltanto politica. Per veramente essere deve mettere in discussione gli equilibri sociali vigenti e programmare la redistribuzione delle ricchezze e del potere. Ma, detto questo, è innegabile che nell'analisi deluniana non manca -come ora rilevato- una buona dose di verità. Dimostrata, fra l'altro, da quanto verificatosi alle Botteghe Oscure, dove il passaggio del partito togliattiano-berlingueriano a quello neo-azionista occhettiano ha coinciso con il superamento e, addirittura, una sorta di demonizzazione del cosiddetto «consociativismo» e, correlativamente, con l'instaurazione di una filosofia fondata sulla occidentalistica alternanza. Ma, ecco il punto, che forse il fascismo non «visse la politica come conflitto, come rottura»?
Mussolini -sempre coerentemente massimalista, sia da direttore de "la Lotta di classe" e de "l'Avanti!", sia da primo ministro del re- fu veramente sé stesso solo con il discorso del 3 gennaio, solo con la soluzione di continuità spinta sino alla guerra guerreggiata nei rapporti con le potenze di cui aveva caldeggiato l'alleanza nel 1915, solo con le leggi sulla socializzazione delle imprese durante la rapida e tragica esperienza della RSI. Ricorderemo che nel corso della sua requisitoria del 25 luglio '43 al Gran Consiglio del Fascismo, il capo della opposizione interna al Regime, Dino Grandi, attaccò con particolare durezza la tesi mussoliniana della «rivoluzione permanente» — sorta di dottrina trotzkista in versione littoria. A sua volta, il Federzoni ebbe a rimproverare al Partito i continui assalti alla borghesia, intesa come classe e come costume mentale. In quel remoto assetto totalitario dunque, il Capo doveva fare i conti con una opposizione conservatrice, di destra, proprio perché, insieme ai mussoliniani puri, professava azionisticamente, «l'idea che la politica si alimenta di grandi rotture, e che su queste rotture non bisogna mai lasciar depositare la crosta della continuità».

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Con notevole acutezza, l'autorevole studioso torinese così esterna relativamente ad un altro dato connotativo dell'azionismo: «II Partito d'Azione invece non intendeva adeguarsi a questa realtà. Voleva un nuovo tipo d'italiano: un italiano gobettiano, intransigente, alfieriano, in grado di sostituire una morale eroica a quella mediocre del "tengo famiglia". Si tratta di una concezione giacobina, che intende affermare un nuovo senso civico fondato su una grande tensione etica. E questa idea alta dello Stato, per cui le istituzioni devono sempre dimostrarsi migliori e più avanzate della società civile, è presente in tutti gli azionisti».
Bene: nel primo dei due volumi della "Storia della Repubblica di Salò" -ormai un classico che dobbiamo agli studi e alla penna di un inglese antifascista e di sinistra, Frederick W. Deakin- viene segnalata una definizione di Mussolini, poi messa in non cale dall'impetuoso scatenarsi di drammatici avvenimenti internazionali: dedicarsi, e dedicare strutture ed energie del Regime, appunto alla costruzione di un italiano nuovo. Magari non gobettiano -se non altro perché il fondatore di "Energie Nove", di "Rivoluzione Liberale", del "Baretti", lo aveva atrocemente apostrofato come «il conte di Culagna della reazione»-, ma certamente alfieriana. Perché l'Alfieri, il De Luna ce lo insegna, era, sì, un liberale-libertario -e, secondo il Calosso, addirittura un vero e proprio anarchico- ma anche un nazionalista. E nel senso migliore del termine, s'intende.
Del resto, nella celeberrima, strepitosa sloganistica mussoliniana sono presenti detti e motti la cui radice affonda, inequivocabilmente, nella «intransigenza», nella «morale eroica», nella «concezione giacobina», nel «nuovo senso civico», nella «tensione etica», nella «idea alta dello Stato». Qualche esempio? Confusamente e mnemonicamente citando, ecco: «Nudi alla meta», «Chi si ferma è perduto», «Vivere pericolosamente», «È l'aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende», «Tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato, nulla contro lo Stato», «Italia proletaria e fascista, in piedi!». Etc. etc. etc.
Si tratta, come ognun vede, di materiale pubblicistico e oratorio mobilitante, nobilitante, militante. Dalla eccezionale presa psicologica, emotiva e creativa sulle masse. Solo un grande tribuno romagnolo era in grado di ciò produrre. Perché romagnolo? Ci si concentri, stavolta, su Pietro Nenni, e si capirà il perché. Cosa diceva il leader socialista, il carissimo nemico di Benito Mussolini? Questo: «O la repubblica o il caos», «Tutto il potere ai Comitati di Liberazione Nazionale», «Non si vota prò o contro la Russia, ma prò o contro i Consigli di Gestione», «No agli apparati, dove tutto funziona e nulla vive», «No al cappio delle alleanze». E via seguitando. Dunque, ci siamo riferiti a una specialità regionale.
Giovanni De Luna ha ragione di attribuire agli azionisti le caratteristiche suggerite ad Antonio Carioti. Egli, infatti, è in grado di sorreggere i suoi asserti con vicende relative alle esperienze di lotta di "Giustizia e Libertà", le quali grondano lacrime e sangue, sono intrise di idealismo e di dolore, appaiono pervase da disinteresse, pulizia morale, spirito di sacrificio. Ci piace fare dei nomi: Umberto Ceva, Raffaele Persichetti, Pilo Albertelli, Duccio Galimberti e tanti, tanti altri giellisti. A questo punto, però, -e immaginando una interlocuzione con lo storico piemontese- gli chiediamo se proprio ci comportiamo da astratti temerari manifestando la convinzione della possibilità, e anzi della necessità, della esigenza, di stimolare gli italiani della presente e, soprattutto, delle generazioni che verranno, nel senso della collocazione accanto a Costoro, i nomi di altri Eroi purissimi, espressivi degli ideali del campo avverso. Facciamo riferimento, anche qui, a tanti di loro, pur dovendo inevitabilmente limitare le citazioni a pochi. Per esempio, a Berto Ricci, a Niccolo Giani, a Guido Pallotta, a Marsilio Nardi, a Carlo Borsani, a Carmelo Borg Pisani.
Saremmo poco leali con de Luna e Carioti -intellettuali che meritano, viceversa, ogni rispetto e stima- se ci dichiarassimo ottimisti in ordine alla loro risposta. Sappiamo, infatti, che il riflesso azionista verso tutto ciò che, in qualunque modo e misura, viene dal mondo del fascismo è fatto di avversione viscerale, quasi razziale. E tuttavia siamo assolutamente persuasi che in un'epoca ormai felicemente segnata dall'abbattimento dei muri va urgentemente picconato non solo quello che nel '44-'45 fu «concordemente» innalzato sulla Linea Gotica, ma, prima di tutto, il bastione che nel 1922 si eresse all'interno dell'area dell'interventismo risorgimentale e rivoluzionario, così generando due grosse contraddizioni: da una parte, la forzata saldatura fra le componenti eretiche zampillate dal socialismo ufficiale e ambienti cospicui della destra economica e del patriziato agrario; dall'altra, la altrettanto coatta ed innaturale alleanza fra la sinistra democratica e nazionale e un neutralismo in gran parte eversivo e in parte conservatore, in cerca di rivincite anche cruenti contro i fautori della guerra.

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Ed eccoci al riformismo, argomento che vale la pena di toccare in un contesto storico-politico come l'attuale dove tutti -e con i disastrasi o mediocri risultati che sappiamo- vogliono fare i riformisti. Dice il Prof. De Luna, riscuotendo un nostro controllato e parziale consenso, ma soprattutto quello scatenato e totale del Mussolini targato PSI prima e del Mussolini targato RSI poi: «II riformismo italiano è sempre stato grettamente economicistico, incapace di slanci ideali, spesso legato a interessi particolaristici. E l'unico tentativo di dar vita a un riformismo di alto profilo, con una grande carica progettuale e sostenuto da un vero e proprio impegno militante, è stato quello compiuto dal Partito d'Azione».
E qui è possibile cogliere un momento di esaltazione, di aristocraticismo, di castalità politica tipico delle aree intellettuali minoritàrie in genere e dell'azionismo in particolare. Sia di quello storico, che di quello culturalmente recuperato. Insomma, la famosa «Italia di minoranza» del presidente Spadolini. Come si atteggiava, Mussolini, rispetto al riformismo? Nel PSI era il suo avversario più determinato. Nel dopoguerra, prima di conquistare Palazzo Chigi, per ben tre volte -certifica il De Felice-, tentò una sorta di «compromesso storico» ante litteram proponendo un «governo fondato sulla collaborazione delle grandi forze popolari», come più di mezzo secolo dopo definirà altra ma analoga iniziativa il segretario del PCI, Enrico Berlinguer. A chi era diretto il messaggio? Al partito popolare di Sturzo, al partito socialista nel suo insieme (e dunque anche ai massimalisti), e, ovviamente... a sé stesso. Non se ne fece niente, per la famosa pregiudiziale moralistica del PSI nei suoi confronti.
Una volta assurto ai fastigi del potere vagheggiò una collaborazione pure a livello di assunzione di responsabilità ministeriali con almeno un filone del riformismo, quello che riteneva non o meno prevenuto verso di lui, ma il delitto Matteotti dissolse questa non irrealistica prospettiva. Nella quiete del Garda segnata dal dramma e incubante la tragedia dirà al socialista Carlo Silvestri -già segretario dell'Aventino e suo intransigente accusatore dalle colonne de "Il Corriere della Sera", divenutogli generosamente amico e confidente nel cupo tramonto delle fortune politiche e della vita, oltre che «complice» nel tentativo per certi versi non infecondo, di abbassare il livello dello scontro, di salvare il maggior numero possibile di vite umane, di contenere le pretese dei tedeschi e, perfino, di «trasmettere» la socializzazione al PSI e al Partito d'Azione- che «quel cadavere gli era stato gettato fra i piedi per impedire l'avvio di un processo di normalizzazione dei rapporti con il movimento socialista, una normalizzazione che in qualche modo e misura gli era necessaria perché sentiva che la destra estendeva, giorno dopo giorno, il suo dominio su di un partito le cui radici pur affondavano nelle componenti di sinistra e rivoluzionaria dell'interventismo. In ciò favorita, peraltro, dal clima durissimo, di «muro contro muro», delle forze in campo.
Comunque, Benito Mussolini riformista non fu mai. Nel 1944 in un pezzo pubblicato su "Corrispondenza Repubblicana" -agenzia di chiose e indirizzi ufficialmente del governo, in realtà scritta da cima a fondo dal suo capo- così si esprimeva: «Rivoluzione non è riformismo: essa va, infatti, oltre la riforma della legislazione e deve ad un certo momento rivedere in pieno tutto il sistema». Eloquentissimo il titolo: «Rivoluzione Sociale».
Men che meno fu «economicista». Il 24 aprile 1945, cioè in articulo mortis, si rivolge con queste parole al giornalista Bruno Spampanato, eruditissimo tuttologo partenopeo, suo consulente per le questioni relative all'ideologia, alla riforma costituzionale in senso democratico, alla socializzazione; in uggia e in dispetto agli «intransigenti» tipo Pavolini e Mezzasoma per l'acceso revisionismo e l'amicizia con Junio Valerio Borghese, che lo ha nominato direttore di "Orizzonte", il periodico della X Mas di cui i marò presidiano la vendita nelle edicole dopo l'ordine di sequestro emanato dal Ministero della Cultura Popolare: «In qualsiasi modo, ma bisogna rifare un'Italia potente. Potenza equivale a spazio, influenza, ricchezza. La rivoluzione sociale non è affare per popoli sedentari o per nazioni miserabili, qualsiasi rivoluzione sociale ha bisogno di questi termini, questa è la correzione che il fascismo ha portato al socialismo altrimenti ridotto a rivoluzione cartacea. Nessuno può permettersi d'ignorarla». Orbene, comunque si voglia giudicare questa linea di dottrina, certo è che in essa nulla è rapportabile ali 'economicismo. Neppure l'accenno alla «ricchezza», confuso in mezzo ad altri ed alti valori. E con essi in un rapporto puramente strumentale di mezzo e fine.

 

Enrico Landolfi

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