«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 4 - 30 Giugno 1993

 

Bombe di quale marca?

 


Mentre scrivo si sa quante bombe sono tornate ad esplodere sotto le case italiane e s'ignora quante ne esploderanno ancora. Ci sono in giro delle «cassandre» che pare sappiano già quel che avverrà. I loro nomi? Da Craxi a Cossiga. Ed è su questi nuovi boati che si vuole tentare un'analisi. Soffermandosi un attimo su quel che fu. E quel passato mi pesa (io parlo per me seppure ignaro di quello che avveniva al di sopra delle piazze) per aver militato sotto una bandiera in compagnia di ceffi della peggior risma. Non lo rinnego perché da parte mia c'era completa ignoranza dei fatti. Mi fa specie l'ingenuità, il non aver saputo guardare «dentro» l'ambiente che frequentavo. Ma posso io portarne colpa? Avevo vent'anni. Anche meno. L'età in cui il romanticismo ti rapisce l'anima. Ti annega nei fumi di un'ideologia scambiata per dottrina.
Erano gli anni di piombo e un regime di banditi attivava la strategia della tensione. Con le saponette di tritolo. La stampa di regime scriveva ch'erano «di chiara marca fascista». Il mio volto glabro dava la fisionomia al mostro. Perciò gridavano che uccidere uno come me non costituiva reato. Era giusto (per loro) uccidermi: l'anomia resistenziale lo sanciva. E le nostre madri piangevano. Ma non solo le nostre. Anche quelle degli «altri». Di quelli che erano deputati alla nostra macellazione. Perché morivano anche loro. A vent'anni. Anche meno. «Morire a vent'anni per avere sempre vent'anni». La retorica ideologica.
Mentre noi morivamo, mentre si scannava l'ultima generazione di ventenni, c'era chi concimava con quel sangue le proprie fortune. i Capanna, i Ferrara, i Mieli ponevano le basi della loro scalata nella società. Come facevano i De Lorenzo, i Miceli, i Viviani. Dai Servizi Segreti alla Destra Nazionale. Finalmente arriva la conferma: inconfutabile. Agenzia ASCA, 2 giugno 1993: «Cossiga non ha usato mezzi termini per ammettere che l'Italia ha vissuto in un regime di sovranità limitata e che i servizi segreti italiani dipendevano dalla CIA». Ergo... De Lorenzo, Miceli, Viviani, soldati italiani, al servizio d'uno Stato estero. Soldati? No, mercenari. E noi, figli d'una generazione che non si arrese, rimasti attaccati al ricordo di quelli che a Nettuno avevano sparato l'ultima cartuccia contro le navi "Liberty", che annunciavano, insieme a pane e farina bianca, ceppi per il nostro popolo...
Questo è il fondamento di quell'«equivoco» che ci chiamava a morire facendo mercimonio del nostro sangue. Ora però, capitolo chiuso. Le bombe non hanno colpevoli. Essi non hanno un nome. Non l'avranno più.

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Speravamo di non dover più assistere a turpi spettacoli. Speravamo che non avesse a ripetersi l'esperienza di un regime morente che si rivitalizza a colpi di nitroglicerina. Perché allora fu così. Ma è così anche adesso? La prassi è la stessa ma la teoria che la sostiene è sempre quella? Cioè, le bombe di Roma e di Firenze sono destabilizzanti o stabilizzanti? Tentiamo un ragionamento. Cosa c'è da destabilizzare del vecchio regime? Nulla. Uomini e partiti si sono liquefatti come cera al fuoco. Un inciso: per abbattere il fascismo si mosse l'armata più potente che la storia ricordi. Per piegare l'antifascismo son bastati cinque, diconsi cinque, magistrati. Il fascismo sopportò una guerra terribile di cinque anni. L'antifascismo ha resistito cinque mesi. La differenza, oltre tutto, è nell'ordine dei numeri. Cos'è rimasto del regime consociativo dei Craxi, dei Forlani, degli Occhetto e ascari di banda? Nulla. Al governo non ci son più partiti, fattisi surrogare da oligarchie tecnocratiche che li foraggiavano. E allora cosa destabilizza l'ordigno di via Fauro e la mina degli Uffizi?
Esaminiamone anche la matrice. Comunemente è ritenuta mafiosa. Sono concordi Cossiga e Mancino, Ministro degli Interni. Dissente Andreotti. Leggiamo ("La Stampa", 30.5.1993): «È sbagliato limitarsi a seguire una sola pista. Occorre concentrare tutta l'attenzione possibile su varie ipotesi, senza trascurarne nessuna. Tanto più adesso, non vorrei che, addebitando tutto alla mafia, si scegliesse una scorciatoia che in realtà non porta da nessuna parte». È «interessata» l'affermazione dell'amico di Salvo Lima? Non credo. Leggiamo fra le righe. Se Andreotti non avesse deciso di pubblicare gli elenchi di «Gladio», non sarebbe incorso nei «guai» che sta subendo. Questo è certo. E Andreotti non è tipo da subire passivamente. Vuol dire, quindi, qualcosa con quel suo periodare. Lancia un messaggio da decrittare.

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Facciamo qualche passo in là e consideriamo piccoli fatti. Minuscoli solo all'apparenza. Il governo Ciampi è stato insediato all'insegna della provvisorietà. Almeno così credeva lo squalificato mondo politico e la maggior parte della «sovranità popolare». Una volta sullo scranno il Governatore ha affermato di non considerarsi in quella posizione. Fa poco, almeno così sembra giacché gli sciamani dell'alta finanza preferiscono spazi ovattati e luci in penombra. Un governo pieno zeppo di soggetti inquisiti ha urlato soltanto contro il sottosegretario Pappalardo, condannato per semplice reato d'opinione. Non è un'aquila, quel Pappalardo ma è pur sempre un colonnello dei carabinieri. E i militi della Benemerita, si sa, hanno la puzza al naso... Meglio non averlo fra i piedi.
Altro fatto «minimale». In Italia si ricomincia a parlare di Patria. Monsignor Francesco Colasuono, Nunzio Apostolico a Mosca, in occasione del 179° anniversario di fondazione dell'Arma dei Carabinieri, si sofferma sul particolare: «In questi quarant'anni abbiamo discusso dì tutto ma abbiamo dimenticato di parlare di Patria. Prima s'è parlato troppo, dopo non si è fatto più cenno». Questa è la voce della Chiesa.
Che di Patria parli la destra, con quella sua retorica patriottarda, poco da considerare. Ma che anche a sinistra si oda il canto, non è da poco. Quel che scrive Gian Enrico Rusconi ("Se cessiamo di essere una nazione", II Mulino), intellettuale di sinistra, è illuminante: «Solo un paese consapevole della propria identità nazionale è in grado di articolare nei valori universalistici della cittadinanza le proprie differenze regionali o le richieste di nuovi soggetti provenienti dall'esterno. E solo in un'Europa che non neghi, ma costringa a ridefinirsi, le singole identità nazionali il progetto di unificazione politica ha qualche speranza di successo».
Discorso chiaro. Ma si deve registrare un attacco a questa paventata ridefinizione delle singole identità nazionali. Per quanto ci riguarda, esiste una lotta sotterranea fra chi propugna la necessità di affrancarsi da catene vecchie di mezzo secolo e chi invece propende per la pania del Nuovo Ordine Mondiale, che ha i sommi sacerdoti nel Fondo Monetario Internazionale e l'Organizzazione delle Nazioni Unite. Ai nostri Alpini in Mozambico s'è vietata la bandiera nazionale e la penna nera sul casco blu. I nostri soldati in Somalia, che gli americani non volevano, sono stati sottoposti ad ogni sorta di vessazioni morali, nelle quali s'è particolarmente distinta la stampa a stelle e strisce. Il Sassofonista di White House ha tentato di scaracollarci nella fornace balcanica. Finora siamo riusciti a rimanerne fuori per merito di pochissimi (quattro in tutto) uomini.
Sono piccole tessere di un mosaico confuso. Non bisogna inoltre dimenticare che la massoneria s'è scissa all'Hotel Parco dei Principi il 17 aprile di quest'anno. Subito dopo lo scoppio delle bombe Gelli ha chiesto il rilascio del passaporto. Per farne? Per andare a Parigi. Cosa c'entra tutto ciò con le bombe? C'entra.

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II 29 maggio 1993 "La Stampa" pubblica un'intervista di Paolo Guzzanti a un «alto funzionario di Stato che resta anonimo perché teme per la sua vita». Il quotidiano di Agnelli titola: «Dietro le bombe c'è una mano straniera». Quando l'intervistatore domanda se la matrice degli attentati è interna o esterna, si sente rispondere trattarsi di «un misto. Cosa Nostra c'entra. Ma non soltanto». E poi chiarisce che essa è «sia di tipo criminale-mafioso sia di intelligenze che ci vogliono condizionare. Per due ordini di motivi. Il primo riguarda la nostra lotta senza tregua alla criminalità legata al narcotraffico. Il secondo è che il danaro del narcotraffico costituisce una massa monetaria enorme. E lei crede che a tanta massa di danaro non siano collegati e interessati imperi economici potentissimi?»
Ed esclude categoricamente, l'intervistato, che la sua asserzione alluda a imperi connessi alla malavita e al crimine. Seguiamo le ultime domande. Guzzanti chiede: «A che serve una bomba come quella di Firenze?» Fantomas risponde: «Oltre alle questioni di scenario che le ho descritto, sull'immediato puntano all'allarme sociale. La paura delle bombe obbliga lo Stato a dislocare forze, a disperdersi, a proteggere tutto e tutti (!! - n.d.r.), e questo dovrebbe avere come effetto un alleggerimento della pressione».
Poi la chiusura. Nuova domanda: «E se qualcuno la chiamasse a svolgere questo ruolo: andare in parlamento come esperto della materia, lo farebbe?» «Certo -risponde-. Sì, certo, lo farei. Sarebbe il mio dovere, anche se, parliamoci chiaro, un'ora dopo sarei già morto».
Prima, in Parlamento si rubava. Ora si rischia di morire. Allora, le bombe di Roma e di Firenze sono destabilizzanti o stabilizzanti?
 

Vito Errico

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