A proposito di una intervista di
Giuseppe De Luna ad Antonio Carioti
Saggio sulle affinità
elettive di due fratelli nemici:
azionismo e fascismo
(parte 3)
È inevitabile la radice
risorgimentale dell'azionismo. Viene in evidenza, e con vigore, lungo l'iter
dell'intervista di Carioti al De Luna. Per esempio, a conclusione dell'ultima
risposta relativa all'attualità del presidenzialismo democratico e autonomista
di Piero Calamandrei, con la quale lo storico torinese manifesta diffidenza per
la prospettiva di allargamento di competenze e diritti localistici affidato a
una classe dirigente come quella da cui siamo afflitti, sospettabile di «un
decentramento disgregante che condurrebbe allo spappolamento dell'identità
nazionale italiana».
Ma ecco il punto, l'azionismo è sempre coerente -a livello di elaborazione
teorica e di comportamento politico- con tale ispirazione? Confessiamo che ci
piacerebbe essere in condizione di dare una risposta pienamente affermativa, se
non altro per l'interesse che portiamo, e in positivo, alle problematiche
ideologiche e storiche del movimento di cui veniamo discorrendo. Però le
rilevanti contraddizioni che scorgiamo nella grande saga dell'azionismo -dai
primordi pregiellisti fino alle esperienze lamalfiane di oggi- non consentono
l'assenso.
Cosa è contraddittorio rispetto all'originario afflato nazionale? Anzitutto,
diremmo, l'elemento della discontinuità, intuito e vissuto in chiave
integralista, totalizzante, dagli azionisti sia di tessera che di cultura quale
categoria al tempo stesso etica e dottrinaria.
Così si resta dubbiosi in ordine a questa affermazione di Giovanni De Luna: «Nel
P.d.A. c'era la convinzione, derivante proprio dalla riflessione sulla sconfitta
subita vent'anni prima ad opera del fascismo, che la nuova Italia dovesse
nascere in termini di drastica discontinuità rispetto al passato».
Orbene, se con ciò si intendeva che il risultato della profligata del fascismo
non poteva che essere l'instaurazione di un assetto istituzionale opposto a
quello voluto e imposto da Mussolini, si inventava l'acqua calda. Tuttavia non
di questo, è ovvio, si trattava. La rottura reclamata dal P.d.A. riguardava
verità, valori, epoche tracimanti il fascismo; e investiva una identità, un
passato, un retaggio, una «certa idea dell'Italia», cui superficialmente non
meno che rumorosamente esso addebitava i germi della «infezione fascista». In
altri termini, postulava ciò che Pasolini definirebbe un «genocidio culturale»,
ossia la distruzione delle tradizioni, la memoria storica ridotta a terra
bruciata sulla quale costruire una Italia non laica ma laicista, scettica,
esterofila, esteromane. Immessa in posizione decorosa ma sostanzialmente
subalterna nella dependance europea dell'Impero d'Occidente, assolutamente
estranea al Mediterraneo ad onta di precisi imperativi geografici e di preclari
messaggi mazziniani, disposta a riconoscere tutte le «buone ragioni» di
«Alleati» che prima l'avevano ingannata affermando non avere altro scopo che
l'abbattimento del fascismo mentre la distruggevano sistematicamente con
bombardamenti terroristici, intimavano a un governo antifascista la più
umiliante delle rese incondizionate, promuovevano il revival della mafia in
Sicilia, imponevano un trattato capestro, liquidavano il patrimonio coloniale
italiano nell'era delle grandi democrazie colonialiste, stabilivano che il
capitalismo doveva da noi venire in evidenza come l'ultimo orizzonte sociale
consentito.
Dunque, la discontinuità, nella versione azionista, non aveva, e non ha, un
contenuto nazionale. E neppure una valenza rivoluzionaria. Perché l'azionismo,
checché se ne dica, ha praticato non la rivoluzione, bensì l'estremismo, che è
cosa ben diversa. Tanto vero che, come già rilevato in altra puntata del saggio,
per esso il meccanismo dell'accumulazione capitalistica è stato ed è articolo di
fede. Così come, conseguentemente, la gerarchia classista, aziendale, padronale.
Insomma, l'antiautoritarismo azionista, lo spirito libertario dell'azionismo
-che, sia chiaro, sono autentici, preziosi per la democrazia; e ciò affermiamo
senza la benché minima intenzione di fare della ironia, che sarebbe del tutto
fuori luogo- si fermano davanti ai cancelli delle fabbriche, alle sale dei
consigli di amministrazione, alle stanze dei bottoni.
Si tenga presente che la tesi discontinuista rivive nella vicenda del Partito
Democratico della Sinistra. O, quanto meno, della sua frazione occhettiana.
Certo, è adottata dal gruppo dirigente della «svolta» al fine di enfatizzare la
drastica soluzione di continuità rispetto alla teoria e alla pratica del
cosiddetto «consociativismo», di targa sia togliattiana che berlingueriana. E,
dunque, senza alcun riferimento al fascismo. Epperò, mutatis mutandis, siamo lì.
Del resto, a ciò persuaderci potentemente contribuisce l'impostazione generale
della Quercia, la sua filosofia politica, il suo taglio culturale, l'insistere
sul pensiero di Norberto Bobbio, la polemica di Michele Salvati -valoroso e
ascoltato consigliere di politica economica del Segretario- contro la cultura
dell'anticapitalismo.
* * *
Tutto preso da questa morbosa passione per la discontinuità -e finalmente
sollecitato, staremmo per dire provocato, da Antonio Cariot-, De Luna dichiara:
«A differenza della DC e del PCI, il Pd'A non fece niente per aderire alla
realtà del paese così com'era: voleva semmai intervenire per trasformarla».
Ora, indipendentemente da ciò che in proposito fecero, o non fecero,
democristiani e comunisti, un partito è autenticamente nazionale solo se
dimostra di saper «aderire alla realtà del paese». Ed è veramente
rivoluzionario, cioè non astrattamente estremista, soltanto se mostra la
capacità di avviare processi di trasformazione profonda operando all'interno di
tale «realtà». Perché se così non facesse si renderebbe responsabile -a parte il
sicuro insuccesso di un programma di rinnovamento fatalmente destinato a
degenerare in nuovismo- di quello «spappolamento dell'identità nazionale»
giustamente e onestamente paventato dal migliore azionismo e dal prof. De Luna,
che ha il merito di coonestarlo e di farsene portavoce.
Naturalmente il verbo «aderire» è da interpretare in modo da non prestarsi a
equivoci. Nel senso, cioè, di agire non irrealmente, ideologisticamente, ma
tenendo conto delle complessità, delle particolarità, delle caratteristiche
anzitutto culturali e storiche del contesto nel quale il movimento riformatore è
chiamato a svolgere la sua missione. Altrimenti, sarà il caso di ripeterlo, il
rischio -tutto piccolo borghese e, al tempo stesso, aristocraticistico ed
èlitistico- è quello dell'estremismo, frutto tossico della fuoriuscita dal
quadro nazionale.
A questo punto sia consentito a noi -non comunisti e, dunque, non
berlingueriani- di citare due definizioni che del «suo» PCI diede Enrico
Berlinguer. Si tratta di formulazioni dallo straordinario fascino, dalla
esaustiva adeguatezza: «Partito rivoluzionario e conservatore», «Partito
nazionale e internazionalista».
Va da sé che cose del genere fanno accapponare la pelle a un azionista. Ci
chiediamo, però: anche quella di Antonio Carioti? Il quesito non è ozioso.
Infatti il responsabile dei servizi culturali de "la Voce Repubblicana" -nonché
curatore del bellissimo volume sortito dalle rotative della benemerita Editrice
Acropoli, che, appunto, ospita l'intervista al De Luna- si identifica sì con la
cultura dell'azionismo, ma in modo che definiremmo creativo, moderno, solare.
Oltre, cioè, il buio della demonizzazione dell'avversario, della ripulsa
moralistica, della emarginazione del diverso. Ossia, al di là delle cose brutte
dell'azionismo storico -di partito o meno- mescolate, purtroppo, alle tante cose
belle che questa corrente ideale ha pur saputo donare all'Italia: pulizia
morale, disinteresse, ardore per il pubblico bene, produzione intellettuale non
di rado di altissimo livello, fedeltà alla libera democrazia, spirito di
sacrificio illimitato. Il Carioti ci è parso di ottima caratura specie quando ci
ha detto del tutto casualmente, che aveva accettato di partecipare a Reggio
Emilia, sua città natale, a una tavola rotonda organizzata dal missino Fronte
della Gioventù. Ora, noi nulla abbiamo a che spartire col Msi-dn e connessa
struttura cadetta, ma, fautori appassionati e da sempre del dialogo costante,
costruttivo, fra le varie Italie che si combattono -precipuamente fra quelle
che, mezzo secolo fa, si affrontarono sulla Linea Gotica e all'interno delle
«due metà» da esse segnate-, nonché della cessazione delle ostilità ai fini
della edificazione di una sola mazzinianamente grande Italia, ci siamo molto
compiaciuti dei sentimenti al tempo stesso nazionali e libertari del giovane
militante dell'Edera e del correlativo retto, nobile, suo atteggiarsi. Veramente
degno di quel Mazzini troppo spesso, ahimè, disatteso dal Pri, ad onta della
pompa magna da cui è gratificato in occasione delle feste comandate del
repubblicanesimo ufficiale.
Forse a Carioti interessa sapere che fra i nostri punti di riferimento
campeggiano due nomi, assolutamente dissimili per quel che attiene alla
collocazione crono-storica e alla connotazione delle personalità: Giuseppe
Parini e Tristano Codignola. Il primo, bloccato dai giacobini in Milano durante
la «Cisalpina» e incitato a gridare «Viva la libertà, morte ai tiranni» accettò
la «proposta» ma con un emendamento. E gridò: «Viva la libertà, morte a
nessuno». Più di un secolo dopo, l'azionista israelita Tristano Codignola
durante una riunione del Comitato di Liberazione Nazionale della Toscana
protesterà vibratamente per l'uccisione di Giovanni Gentile, con la quale -e a
parte ogni altra considerazione-, la grande cultura non solo italiana veniva
privata di una delle sue voci più alte, di uno dei suoi piloni portanti, quando
il celeberrimo pensatore ancora tanto avrebbe potuto dare oltre che alla civiltà
filosofica alla causa della distensione degli animi, impegnati in una guerra
civile devastante. Chi scrive ha avuto l'onore di collaborare con il brillante
simpaticissimo Pippo di iniziative promosse dal settore scuola del PSI quando
-negli Anni Settanta- ne era il prestigioso, massimo dirigente.
* * *
Il De Luna lamenta «tutta l'insofferenza di una certa cultura per chi introduce
elementi di morale eroica che si contrappongono agli stereotipi della furbizia,
del rinvio, della mediazione ad ogni costo». E soggiunge: «Infatti una delle
categorie fondamentali cui fanno riferimento gli azionisti è il conflitto».
A mo' di semplice constatazione annotiamo che il fascismo -specie in quella sua
componente movimentista tanto accuratamente segnalata dall'indagine defeliciana-
gronda «morale eroica». Esattamente come l'azionismo. Rilevarlo non è una
provocazione verso chicchessia, ma solo l'indicazione di una ulteriore prova che
si tratta di «fratelli nemici», ambedue prodotto di un oltranzismo minoritario e
prevaricatore rispetto ai diritti del Parlamento. In nome, appunto, di una
«morale» non legalitaria e istituzionale, bensì «eroica».
Ecco perché appare debole la polemica dell'interventismo democratico -oggi, è
ovvio, in sede storiografica- contro quei «Fasci di Combattimento» non tutti e
non sempre votati allo slittamento a destra e all'obiettivo totalitario. Che
forse ambedue i «fratelli» non ancora «nemici» non avevano concordemente
scatenato la piazza contro una Camera fondamentalmente giolittiana e neutralista
per imporle, mediante un colpo di Stato più o meno mascherato, una entrata in
guerra per la quale non aveva alcuna vocazione? La parola d'ordine lanciata
dall'interventista Carlo Rosselli durante la guerra civile iberica «Oggi in
Spagna, domani in Italia», sicuramente ottempera a un imperativo di forte segno
volontaristico, di «morale eroica». Ma non le fa forse da pendant il «Credere,
Obbedire, Combattere» coniato dall'altro agitatore interventista, il «fratello
nemico» Benito Mussolini?
La teoria della «rivoluzione permanente» -che non appartiene soltanto al
dibattito interno al movimento comunista internazionale, introdottovi da
Trotzky- è anch'essa espressione della «morale eroica». Il De Luna ce lo ricorda
allorché afferma: «... il Pd'A ... crede realmente nella democrazia e ritiene
che il conflitto ne sia il sale. Per gli azionisti la democrazia cresce nella
contrapposizione netta, nitida delle varie forze politiche ...» Poi l'autorevole
studioso parla di «centralità del conflitto». E, riferendosi al fondatore di
"Rivoluzione Liberale", dice: «... Gobetti a Torino assisteva al conflitto tra
lavoratori e industriali, e vedeva che queste lotte selezionavano i migliori
operai e i migliori imprenditori d'Italia. Di qui una concezione per cui il
conflitto è il livello della democrazia, fatta propria integralmente dal Partito
d'Azione».
Aggiungiamo, noi, che Piero Gobetti, come tutti i geni, perfora con il trapano
della mente, dell'intuizione, dell'analisi, le apparenze, oltre le quali scorge
la «morale eroica» nell'area dei suoi più acerrimi nemici. E così accetta, forse
promuove, un rapporto dagli aspetti anche sinergici con Curzio Malaparte,
all'epoca segretario dei sindacati fascisti di Firenze oltre che esponente di
spicco della cultura dell'intransigentismo in camicia nera riversata nel
periodico "La Conquista dello Stato", strumento di approfondimento teorico e di
polemica verso il «moderatismo» compromissorio e la pratica
«controrivoluzionaria» di Mussolini e del suo governo. Giungendo al punto di
pubblicare nelle Edizioni di "Rivoluzione Liberale" il libro del giovane
scrittore littorio "L'Europa vivente, Saggio storico sul sindacalismo
nazionale", prefato da altra «testa d'uovo» dello squadrismo culturale, Ardengo
Soffici.
Di ciò abbiamo già accennato, dando al tempo stesso contezza della «riflessione»
gobettiana in due puntate con il titolo, sorprendente e niente affatto ironico,
"Elogio di Farinacci". Evidentemente l'interlocutore liberale del gruppo de
"L'Ordine Nuovo", l'amico di Gramsci, riteneva utile per il Paese non solo
«selezionare», mediante la «lotta», i «migliori operai e i migliori imprenditori
d'Italia», ma anche i migliori combattenti, soprattutto a livello intellettuale,
di tutte indistintamente le parti. Gli è che questo appassionato e appassionante
collettore di intransigenze non discriminava né punto né poco quando gli si
appalesava che esse erano veraci e di buona lega. Perché mai, dunque, potremmo
ora chiederci, il De Luna e il Carioti dovrebbero comportarsi in maniera
radicalmente difforme da chi, giustamente, considerano loro Maestro?
Il Gobetti, peraltro, in questi momenti del suo funzionare in veste di operatore
editoriale oltre che politico, viene in evidenza non soltanto quale buon milite
capace di riconoscimenti cavaliereschi all'avversario che stima e di
allestimenti di «ponti» per quel tanto di dialogo e di opzione collaborativa
consentito da situazioni drammatiche di scontro. Egli si conferma anche uomo di
eccezionale acutezza logica, di peregrina intuizione. Se infatti, come riferisce
De Luna, ritiene che «il conflitto è il lievito della democrazia», non può
delegittimare questo o quello fra i protagonisti dello scontro coprendolo di
disprezzo, di rancore, di negazione. Insomma, se il fascista intransigente non
c'è, l'antifascista militante non ha ragion d'essere. Si dirà che la
contrapposizione è vagheggiata all'interno di istituzioni democratiche
ossequiate da tutti i contendenti. Non sembra, però, che il Gobetti ponga questa
pregiudiziale. Effettivamente quando intrattiene rapporti col Malaparte e dedica
gli Elogi all'Antimussolini di Cremona, la contesa ideale e politica ha già
travalicato i confini e le regole della democrazia. E -occorre onestamente
serenamente riconoscerlo- non sempre e non del tutto per malvolere di Mussolini.
Il quale -lo abbiamo appreso dai tomi della ponderosissima biografia
defeliciana- per ben tre volte propose a popolari e socialisti delle due
classiche sponde, la riformista e la massimalista, di dare vita tutti insieme a
un governo di coalizione. L'offerta era anche motivata dalla esigenza di
bloccare la spinta a destra che sentiva montare all'interno del fascismo,
alimentata dagli eccessi di una certa sinistra. Venne respinta per la cronica
incapacità sia dei «rossi» che dei «bianchi» di distinguere fra moralità (valore
squisito e insostituibile) e moralismo (disvalore ambiguo e, non di rado,
strumentale).
* * *
La «rivoluzione permanente» non è estranea neppure al fascismo. Mussolini
annuncia a ripetizione sviluppi rivoluzionari, promettendo nuove «ondate» che
deve rinviare per impegni internazionali e bellici ritenuti ineluttabili.
Nel "Diario" Ciano riferisce di un Mussolini antiborghese che afferma di avere
pronti per il momento giusto decreti esecutivi contro il capitalismo. Nelle
"Memorie" Tullio Cianetti, ministro delle Corporazioni e leader della sinistra
sindacale, dichiara di avere concordato nel 1943 col duce una serie di misure
socializzatrici per i grandi complessi industriali -a cominciare dalla FIAT- nel
quadro di una svolta a sinistra includente anche la politica estera (pace
separata con l'URSS). Il re e Badoglio, come è noto, si incaricheranno di
placare i bollenti spiriti del mai domo rivoluzionario romagnolo azionando i
Reali Carabinieri. Tutte queste cose ed altre saranno rimproverate a Benito
Mussolini la notte del Gran Consiglio, soprattutto da Luigi Federzoni (che
lamenterà i continui attacchi del Partito alla borghesia) e da Dino Grandi (che
criticherà, appunto, il rivoluzionario quotidianamente predicato; causa vera
-sostiene- della mancata solidificazione degli istituti essenziali del sistema e
del permanere di una dittatura demagogica).
Nella Repubblica Sociale Italiana la corrente socializzatrice, popolare
nazionale, pacificatrice opererà permanentemente in chiave rivoluzionaria sul
terreno sociale, mentre Mussolini si nutrirà fino all'ultimo dell'illusione di
poter affidare il futuro della RSI ai socialisti e agli azionisti. Idea, questa,
suggerita da uomini della sinistra storica già avversari e, poi, divenuti
consiglieri del duce proprio nel momento in cui si avviava sul viale del
tramonto. Fra di essi un certo numero di sindacalisti rivoluzionari fra i quali
Pulvio Zocchi.
Ecco, il sindacalismo rivoluzionario. Sempre sollecitato da Antonio Carioti, un
azionista storico della stazza di Leo Valiani, senatore a vita su designazione
di Pertini, così si esprime: «In parte il Pd'A proviene proprio -basti pensare a
Fancello e a tanti altri- dal sindacalismo rivoluzionario. Ha quindi vissuto
l'esperienza della teoria del conflitto. L'idea che gli scioperi siano anche
scuola di democrazia io la conoscevo bene... Ma questo a che cosa porta, alla
selezione democratica della classe politica? Se gli scioperi sono scatenati
senza spirito critico e realistico, ciò porta al fascismo, altro che selezione;
la grande maggioranza dei sindacalisti rivoluzionari aderì al fascismo.
Mussolini del resto era stato socialista rivoluzionario».
Dunque, azionismo e fascismo, i due «fratelli nemici», sono stati pieni di
sindacalisti rivoluzionari e, pertanto, di sindacalismo rivoluzionario. Del
quale la «morale eroica» è parte integrante e, quindi, comune.
Enrico
Landolfi
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