«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 4 - 30 Giugno 1993

 

A proposito di una intervista di Giuseppe De Luna ad Antonio Carioti

Saggio sulle affinità elettive di due fratelli nemici: azionismo e fascismo
(parte 3)


 

È inevitabile la radice risorgimentale dell'azionismo. Viene in evidenza, e con vigore, lungo l'iter dell'intervista di Carioti al De Luna. Per esempio, a conclusione dell'ultima risposta relativa all'attualità del presidenzialismo democratico e autonomista di Piero Calamandrei, con la quale lo storico torinese manifesta diffidenza per la prospettiva di allargamento di competenze e diritti localistici affidato a una classe dirigente come quella da cui siamo afflitti, sospettabile di «un decentramento disgregante che condurrebbe allo spappolamento dell'identità nazionale italiana».
Ma ecco il punto, l'azionismo è sempre coerente -a livello di elaborazione teorica e di comportamento politico- con tale ispirazione? Confessiamo che ci piacerebbe essere in condizione di dare una risposta pienamente affermativa, se non altro per l'interesse che portiamo, e in positivo, alle problematiche ideologiche e storiche del movimento di cui veniamo discorrendo. Però le rilevanti contraddizioni che scorgiamo nella grande saga dell'azionismo -dai primordi pregiellisti fino alle esperienze lamalfiane di oggi- non consentono l'assenso.
Cosa è contraddittorio rispetto all'originario afflato nazionale? Anzitutto, diremmo, l'elemento della discontinuità, intuito e vissuto in chiave integralista, totalizzante, dagli azionisti sia di tessera che di cultura quale categoria al tempo stesso etica e dottrinaria.
Così si resta dubbiosi in ordine a questa affermazione di Giovanni De Luna: «Nel P.d.A. c'era la convinzione, derivante proprio dalla riflessione sulla sconfitta subita vent'anni prima ad opera del fascismo, che la nuova Italia dovesse nascere in termini di drastica discontinuità rispetto al passato».
Orbene, se con ciò si intendeva che il risultato della profligata del fascismo non poteva che essere l'instaurazione di un assetto istituzionale opposto a quello voluto e imposto da Mussolini, si inventava l'acqua calda. Tuttavia non di questo, è ovvio, si trattava. La rottura reclamata dal P.d.A. riguardava verità, valori, epoche tracimanti il fascismo; e investiva una identità, un passato, un retaggio, una «certa idea dell'Italia», cui superficialmente non meno che rumorosamente esso addebitava i germi della «infezione fascista». In altri termini, postulava ciò che Pasolini definirebbe un «genocidio culturale», ossia la distruzione delle tradizioni, la memoria storica ridotta a terra bruciata sulla quale costruire una Italia non laica ma laicista, scettica, esterofila, esteromane. Immessa in posizione decorosa ma sostanzialmente subalterna nella dependance europea dell'Impero d'Occidente, assolutamente estranea al Mediterraneo ad onta di precisi imperativi geografici e di preclari messaggi mazziniani, disposta a riconoscere tutte le «buone ragioni» di «Alleati» che prima l'avevano ingannata affermando non avere altro scopo che l'abbattimento del fascismo mentre la distruggevano sistematicamente con bombardamenti terroristici, intimavano a un governo antifascista la più umiliante delle rese incondizionate, promuovevano il revival della mafia in Sicilia, imponevano un trattato capestro, liquidavano il patrimonio coloniale italiano nell'era delle grandi democrazie colonialiste, stabilivano che il capitalismo doveva da noi venire in evidenza come l'ultimo orizzonte sociale consentito.
Dunque, la discontinuità, nella versione azionista, non aveva, e non ha, un contenuto nazionale. E neppure una valenza rivoluzionaria. Perché l'azionismo, checché se ne dica, ha praticato non la rivoluzione, bensì l'estremismo, che è cosa ben diversa. Tanto vero che, come già rilevato in altra puntata del saggio, per esso il meccanismo dell'accumulazione capitalistica è stato ed è articolo di fede. Così come, conseguentemente, la gerarchia classista, aziendale, padronale.
Insomma, l'antiautoritarismo azionista, lo spirito libertario dell'azionismo -che, sia chiaro, sono autentici, preziosi per la democrazia; e ciò affermiamo senza la benché minima intenzione di fare della ironia, che sarebbe del tutto fuori luogo- si fermano davanti ai cancelli delle fabbriche, alle sale dei consigli di amministrazione, alle stanze dei bottoni.
Si tenga presente che la tesi discontinuista rivive nella vicenda del Partito Democratico della Sinistra. O, quanto meno, della sua frazione occhettiana. Certo, è adottata dal gruppo dirigente della «svolta» al fine di enfatizzare la drastica soluzione di continuità rispetto alla teoria e alla pratica del cosiddetto «consociativismo», di targa sia togliattiana che berlingueriana. E, dunque, senza alcun riferimento al fascismo. Epperò, mutatis mutandis, siamo lì. Del resto, a ciò persuaderci potentemente contribuisce l'impostazione generale della Quercia, la sua filosofia politica, il suo taglio culturale, l'insistere sul pensiero di Norberto Bobbio, la polemica di Michele Salvati -valoroso e ascoltato consigliere di politica economica del Segretario- contro la cultura dell'anticapitalismo.

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Tutto preso da questa morbosa passione per la discontinuità -e finalmente sollecitato, staremmo per dire provocato, da Antonio Cariot-, De Luna dichiara: «A differenza della DC e del PCI, il Pd'A non fece niente per aderire alla realtà del paese così com'era: voleva semmai intervenire per trasformarla».
Ora, indipendentemente da ciò che in proposito fecero, o non fecero, democristiani e comunisti, un partito è autenticamente nazionale solo se dimostra di saper «aderire alla realtà del paese». Ed è veramente rivoluzionario, cioè non astrattamente estremista, soltanto se mostra la capacità di avviare processi di trasformazione profonda operando all'interno di tale «realtà». Perché se così non facesse si renderebbe responsabile -a parte il sicuro insuccesso di un programma di rinnovamento fatalmente destinato a degenerare in nuovismo- di quello «spappolamento dell'identità nazionale» giustamente e onestamente paventato dal migliore azionismo e dal prof. De Luna, che ha il merito di coonestarlo e di farsene portavoce.
Naturalmente il verbo «aderire» è da interpretare in modo da non prestarsi a equivoci. Nel senso, cioè, di agire non irrealmente, ideologisticamente, ma tenendo conto delle complessità, delle particolarità, delle caratteristiche anzitutto culturali e storiche del contesto nel quale il movimento riformatore è chiamato a svolgere la sua missione. Altrimenti, sarà il caso di ripeterlo, il rischio -tutto piccolo borghese e, al tempo stesso, aristocraticistico ed èlitistico- è quello dell'estremismo, frutto tossico della fuoriuscita dal quadro nazionale.
A questo punto sia consentito a noi -non comunisti e, dunque, non berlingueriani- di citare due definizioni che del «suo» PCI diede Enrico Berlinguer. Si tratta di formulazioni dallo straordinario fascino, dalla esaustiva adeguatezza: «Partito rivoluzionario e conservatore», «Partito nazionale e internazionalista».
Va da sé che cose del genere fanno accapponare la pelle a un azionista. Ci chiediamo, però: anche quella di Antonio Carioti? Il quesito non è ozioso. Infatti il responsabile dei servizi culturali de "la Voce Repubblicana" -nonché curatore del bellissimo volume sortito dalle rotative della benemerita Editrice Acropoli, che, appunto, ospita l'intervista al De Luna- si identifica sì con la cultura dell'azionismo, ma in modo che definiremmo creativo, moderno, solare. Oltre, cioè, il buio della demonizzazione dell'avversario, della ripulsa moralistica, della emarginazione del diverso. Ossia, al di là delle cose brutte dell'azionismo storico -di partito o meno- mescolate, purtroppo, alle tante cose belle che questa corrente ideale ha pur saputo donare all'Italia: pulizia morale, disinteresse, ardore per il pubblico bene, produzione intellettuale non di rado di altissimo livello, fedeltà alla libera democrazia, spirito di sacrificio illimitato. Il Carioti ci è parso di ottima caratura specie quando ci ha detto del tutto casualmente, che aveva accettato di partecipare a Reggio Emilia, sua città natale, a una tavola rotonda organizzata dal missino Fronte della Gioventù. Ora, noi nulla abbiamo a che spartire col Msi-dn e connessa struttura cadetta, ma, fautori appassionati e da sempre del dialogo costante, costruttivo, fra le varie Italie che si combattono -precipuamente fra quelle che, mezzo secolo fa, si affrontarono sulla Linea Gotica e all'interno delle «due metà» da esse segnate-, nonché della cessazione delle ostilità ai fini della edificazione di una sola mazzinianamente grande Italia, ci siamo molto compiaciuti dei sentimenti al tempo stesso nazionali e libertari del giovane militante dell'Edera e del correlativo retto, nobile, suo atteggiarsi. Veramente degno di quel Mazzini troppo spesso, ahimè, disatteso dal Pri, ad onta della pompa magna da cui è gratificato in occasione delle feste comandate del repubblicanesimo ufficiale.
Forse a Carioti interessa sapere che fra i nostri punti di riferimento campeggiano due nomi, assolutamente dissimili per quel che attiene alla collocazione crono-storica e alla connotazione delle personalità: Giuseppe Parini e Tristano Codignola. Il primo, bloccato dai giacobini in Milano durante la «Cisalpina» e incitato a gridare «Viva la libertà, morte ai tiranni» accettò la «proposta» ma con un emendamento. E gridò: «Viva la libertà, morte a nessuno». Più di un secolo dopo, l'azionista israelita Tristano Codignola durante una riunione del Comitato di Liberazione Nazionale della Toscana protesterà vibratamente per l'uccisione di Giovanni Gentile, con la quale -e a parte ogni altra considerazione-, la grande cultura non solo italiana veniva privata di una delle sue voci più alte, di uno dei suoi piloni portanti, quando il celeberrimo pensatore ancora tanto avrebbe potuto dare oltre che alla civiltà filosofica alla causa della distensione degli animi, impegnati in una guerra civile devastante. Chi scrive ha avuto l'onore di collaborare con il brillante simpaticissimo Pippo di iniziative promosse dal settore scuola del PSI quando -negli Anni Settanta- ne era il prestigioso, massimo dirigente.

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Il De Luna lamenta «tutta l'insofferenza di una certa cultura per chi introduce elementi di morale eroica che si contrappongono agli stereotipi della furbizia, del rinvio, della mediazione ad ogni costo». E soggiunge: «Infatti una delle categorie fondamentali cui fanno riferimento gli azionisti è il conflitto».
A mo' di semplice constatazione annotiamo che il fascismo -specie in quella sua componente movimentista tanto accuratamente segnalata dall'indagine defeliciana- gronda «morale eroica». Esattamente come l'azionismo. Rilevarlo non è una provocazione verso chicchessia, ma solo l'indicazione di una ulteriore prova che si tratta di «fratelli nemici», ambedue prodotto di un oltranzismo minoritario e prevaricatore rispetto ai diritti del Parlamento. In nome, appunto, di una «morale» non legalitaria e istituzionale, bensì «eroica».
Ecco perché appare debole la polemica dell'interventismo democratico -oggi, è ovvio, in sede storiografica- contro quei «Fasci di Combattimento» non tutti e non sempre votati allo slittamento a destra e all'obiettivo totalitario. Che forse ambedue i «fratelli» non ancora «nemici» non avevano concordemente scatenato la piazza contro una Camera fondamentalmente giolittiana e neutralista per imporle, mediante un colpo di Stato più o meno mascherato, una entrata in guerra per la quale non aveva alcuna vocazione? La parola d'ordine lanciata dall'interventista Carlo Rosselli durante la guerra civile iberica «Oggi in Spagna, domani in Italia», sicuramente ottempera a un imperativo di forte segno volontaristico, di «morale eroica». Ma non le fa forse da pendant il «Credere, Obbedire, Combattere» coniato dall'altro agitatore interventista, il «fratello nemico» Benito Mussolini?
La teoria della «rivoluzione permanente» -che non appartiene soltanto al dibattito interno al movimento comunista internazionale, introdottovi da Trotzky- è anch'essa espressione della «morale eroica». Il De Luna ce lo ricorda allorché afferma: «... il Pd'A ... crede realmente nella democrazia e ritiene che il conflitto ne sia il sale. Per gli azionisti la democrazia cresce nella contrapposizione netta, nitida delle varie forze politiche ...» Poi l'autorevole studioso parla di «centralità del conflitto». E, riferendosi al fondatore di "Rivoluzione Liberale", dice: «... Gobetti a Torino assisteva al conflitto tra lavoratori e industriali, e vedeva che queste lotte selezionavano i migliori operai e i migliori imprenditori d'Italia. Di qui una concezione per cui il conflitto è il livello della democrazia, fatta propria integralmente dal Partito d'Azione».
Aggiungiamo, noi, che Piero Gobetti, come tutti i geni, perfora con il trapano della mente, dell'intuizione, dell'analisi, le apparenze, oltre le quali scorge la «morale eroica» nell'area dei suoi più acerrimi nemici. E così accetta, forse promuove, un rapporto dagli aspetti anche sinergici con Curzio Malaparte, all'epoca segretario dei sindacati fascisti di Firenze oltre che esponente di spicco della cultura dell'intransigentismo in camicia nera riversata nel periodico "La Conquista dello Stato", strumento di approfondimento teorico e di polemica verso il «moderatismo» compromissorio e la pratica «controrivoluzionaria» di Mussolini e del suo governo. Giungendo al punto di pubblicare nelle Edizioni di "Rivoluzione Liberale" il libro del giovane scrittore littorio "L'Europa vivente, Saggio storico sul sindacalismo nazionale", prefato da altra «testa d'uovo» dello squadrismo culturale, Ardengo Soffici.
Di ciò abbiamo già accennato, dando al tempo stesso contezza della «riflessione» gobettiana in due puntate con il titolo, sorprendente e niente affatto ironico, "Elogio di Farinacci". Evidentemente l'interlocutore liberale del gruppo de "L'Ordine Nuovo", l'amico di Gramsci, riteneva utile per il Paese non solo «selezionare», mediante la «lotta», i «migliori operai e i migliori imprenditori d'Italia», ma anche i migliori combattenti, soprattutto a livello intellettuale, di tutte indistintamente le parti. Gli è che questo appassionato e appassionante collettore di intransigenze non discriminava né punto né poco quando gli si appalesava che esse erano veraci e di buona lega. Perché mai, dunque, potremmo ora chiederci, il De Luna e il Carioti dovrebbero comportarsi in maniera radicalmente difforme da chi, giustamente, considerano loro Maestro?
Il Gobetti, peraltro, in questi momenti del suo funzionare in veste di operatore editoriale oltre che politico, viene in evidenza non soltanto quale buon milite capace di riconoscimenti cavaliereschi all'avversario che stima e di allestimenti di «ponti» per quel tanto di dialogo e di opzione collaborativa consentito da situazioni drammatiche di scontro. Egli si conferma anche uomo di eccezionale acutezza logica, di peregrina intuizione. Se infatti, come riferisce De Luna, ritiene che «il conflitto è il lievito della democrazia», non può delegittimare questo o quello fra i protagonisti dello scontro coprendolo di disprezzo, di rancore, di negazione. Insomma, se il fascista intransigente non c'è, l'antifascista militante non ha ragion d'essere. Si dirà che la contrapposizione è vagheggiata all'interno di istituzioni democratiche ossequiate da tutti i contendenti. Non sembra, però, che il Gobetti ponga questa pregiudiziale. Effettivamente quando intrattiene rapporti col Malaparte e dedica gli Elogi all'Antimussolini di Cremona, la contesa ideale e politica ha già travalicato i confini e le regole della democrazia. E -occorre onestamente serenamente riconoscerlo- non sempre e non del tutto per malvolere di Mussolini. Il quale -lo abbiamo appreso dai tomi della ponderosissima biografia defeliciana- per ben tre volte propose a popolari e socialisti delle due classiche sponde, la riformista e la massimalista, di dare vita tutti insieme a un governo di coalizione. L'offerta era anche motivata dalla esigenza di bloccare la spinta a destra che sentiva montare all'interno del fascismo, alimentata dagli eccessi di una certa sinistra. Venne respinta per la cronica incapacità sia dei «rossi» che dei «bianchi» di distinguere fra moralità (valore squisito e insostituibile) e moralismo (disvalore ambiguo e, non di rado, strumentale).

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La «rivoluzione permanente» non è estranea neppure al fascismo. Mussolini annuncia a ripetizione sviluppi rivoluzionari, promettendo nuove «ondate» che deve rinviare per impegni internazionali e bellici ritenuti ineluttabili.
Nel "Diario" Ciano riferisce di un Mussolini antiborghese che afferma di avere pronti per il momento giusto decreti esecutivi contro il capitalismo. Nelle "Memorie" Tullio Cianetti, ministro delle Corporazioni e leader della sinistra sindacale, dichiara di avere concordato nel 1943 col duce una serie di misure socializzatrici per i grandi complessi industriali -a cominciare dalla FIAT- nel quadro di una svolta a sinistra includente anche la politica estera (pace separata con l'URSS). Il re e Badoglio, come è noto, si incaricheranno di placare i bollenti spiriti del mai domo rivoluzionario romagnolo azionando i Reali Carabinieri. Tutte queste cose ed altre saranno rimproverate a Benito Mussolini la notte del Gran Consiglio, soprattutto da Luigi Federzoni (che lamenterà i continui attacchi del Partito alla borghesia) e da Dino Grandi (che criticherà, appunto, il rivoluzionario quotidianamente predicato; causa vera -sostiene- della mancata solidificazione degli istituti essenziali del sistema e del permanere di una dittatura demagogica).
Nella Repubblica Sociale Italiana la corrente socializzatrice, popolare nazionale, pacificatrice opererà permanentemente in chiave rivoluzionaria sul terreno sociale, mentre Mussolini si nutrirà fino all'ultimo dell'illusione di poter affidare il futuro della RSI ai socialisti e agli azionisti. Idea, questa, suggerita da uomini della sinistra storica già avversari e, poi, divenuti consiglieri del duce proprio nel momento in cui si avviava sul viale del tramonto. Fra di essi un certo numero di sindacalisti rivoluzionari fra i quali Pulvio Zocchi.
Ecco, il sindacalismo rivoluzionario. Sempre sollecitato da Antonio Carioti, un azionista storico della stazza di Leo Valiani, senatore a vita su designazione di Pertini, così si esprime: «In parte il Pd'A proviene proprio -basti pensare a Fancello e a tanti altri- dal sindacalismo rivoluzionario. Ha quindi vissuto l'esperienza della teoria del conflitto. L'idea che gli scioperi siano anche scuola di democrazia io la conoscevo bene... Ma questo a che cosa porta, alla selezione democratica della classe politica? Se gli scioperi sono scatenati senza spirito critico e realistico, ciò porta al fascismo, altro che selezione; la grande maggioranza dei sindacalisti rivoluzionari aderì al fascismo. Mussolini del resto era stato socialista rivoluzionario».
Dunque, azionismo e fascismo, i due «fratelli nemici», sono stati pieni di sindacalisti rivoluzionari e, pertanto, di sindacalismo rivoluzionario. Del quale la «morale eroica» è parte integrante e, quindi, comune.
 

Enrico Landolfi

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