i dibattiti
Per un nuovo socialismo
Prendere le distanze era
divenuto d'obbligo. Lo sapeva bene il Segretario nazionale Mauro Nobilia,
allorché, in una intervista a "Il Popolo", aveva dichiarato essere la CISNaL in
procinto di «tagliare gli ormeggi» dal proprio tradizionale referente politico.
E lo sapevano bene i partecipanti all'incontro di Roma del 4 e 5 giugno,
chiamati a «ridefinire un nuovo modello di socialismo fondato sulla
solidarietà». Nessuna meraviglia allora se, da quelle parti, si sia affrontato
il tema cruciale dello «sganciamento», non solo e non tanto dalle precarie
fortune del movimento di estrema destra ed. neofascista, quanto e soprattutto
dalle sue trasformistiche operazioni post-referendarie in chiave
liberal-democratica.
Certo, c'era modo e modo per la CISNaL di prendere le distanze. Lo avrebbe
potuto fare «a metà» e «in via ufficiosa»; e c'era invece l'altra strada,
diretta ed assai più dignitosa, di non eludere oltre il problema. Costi quel che
costi.
È quanto han scelto di fare i massimi esponenti di via Principe Amedeo, in
coerenza con i postulati ed i fini sociali del «sindacalismo nazionale».
Questo va riconosciuto ai vari Nobilia, Laghi, Cavallini: d'aver essi
manifestato, senza tatticismi o infingimenti, il loro aperto dissenso verso chi
-dimentico d'ogni e qualsiasi «eredità» al riguardo- si fa mèntore di una
«funzione sociale del capitalismo» (G. F. Fini). E va riconosciuto loro
d'essersi dichiarati apertamente a quanti -dentro «il Partito»- avevano accolto
con sufficienza l'annunciato «strappo», così commentandolo: «Riscoprire il
socialismo? Noi non ci pensiamo proprio. Se la CISNaL ne vuoi proprio parlare,
lo faccia. A noi comunque non interessa».
Uno spiritello maligno, di natura extra-sindacale, potrebbe ribattere ed
osservare che -in realtà- a non interessare sono proprio «loro», con le loro
squallide avances senza seguito. Trattati a pesci in faccia dagli... alleati
nazionali Costa e D'Onofrio; trattati con supponenza dai... vincitori leghisti,
sui quali promettono di riversare al 2° turno i loro voterelli; tenuti sulla
corda, e poi mollati, da un «imprevedibile», beffardo Picconatore; ignorati
dalla vera «destra che conta», cui si erano umilmente rivolti — i missini
arrancano ora più che mai isolati. Isolati, nonostante i buoni uffici della
maitresse Marcella Settimanale (da escludere, per carità, ogni parentela o
vincolo di sangue con il direttore di "Pagine Libere" e di "Intervento", già
autore di libri come "Processo all'Occidente", nonostante lo zelo da essa
profuso per far incontrare tutte le destre di complemento ed unirle al servizio
d'Ordine (: non certo Nuovo, ma -a scelta- svizzero, vaticano, a stelle e
strisce, confindustriale, gladiatorio, muratorio...)
Ma questo MSI-DN -già poco presentabile nel suo abito da farsa (alla Tassi) e
sempre meno credibile nella sua parodia di fascismo (alla Mussolini &
Scicolone)- è out. Esso sconta decenni di arretratezza culturale, accompagnati
da una fisiologica incapacità di oltrepassare la «politica delle occasioni».
Come sconta, del resto, decenni di occasioni mancate.
Lasciamo pure al loro destino codesti strateghi delle retrovie; lasciamoli là, a
difendere le loro trincee in disarmo, davanti alle quali invano sono trascorsi
eventi siglati '60, '68, '72... Occupiamoci piuttosto del futuro. Occupiamoci
del recupero in senso nazional-comunitario del socialismo operato dalla CISNaL.
Ordunque in quel convegno romano -e nel corso delle successive tavole rotonde-
sono stati emessi dei segnali, forse poco appariscenti, ma distinguibili da
tutti i soggetti «di buona volontà». E si è trattato di segnali politici, che
dall'esterno non potranno non essere colti. Sempreché (e nella misura in cui...)
i destinatari del messaggio non siano ciechi e sordi a ben altri segnali, di ben
altra evidenza e sonorità. Segnali che manifestano di come stiano muovendosi, in
Italia ed altrove, forze preponderanti, aventi per obiettivo lo sradicamento
dello Stato sociale; di come, nel quadro generale dell'appiattimento delle
ideologie, vada facendosi luce la necessità di radicalizzare la lotta alla «fine
della Storia»; di come il Nuovo Ordine Mondiale costituisca il nemico oggettivo
dell'unità europea, «il» nemico delle nazionalità e specificità locali, «il»
nemico delle loro tradizioni ed identità culturali, etniche, politiche,
religiose. Il problema-termine di «ricostruire una nuova sinistra nazionale e
popolare {e non una nuova sinistra borghese)» — per usare l'espressione di
Enrico Landolfi, è stato posto. E da più parti. In difesa di quello Stato
sociale che è, ora ed in prospettiva, un qualcosa di profondamente diverso dallo
Stato assistenziale e clientelare, terreno di cultura -per 40 anni- della
partitocrazia. Su quelle basi «sociali», nuove e antiche, si potrà edificare
«una grande diga contro il capitalismo» (Giovanni Magliaro), in grado di
affrontare e confrontarsi con modelli di sviluppo al centro dei quali possa
ancora esservi «il bene di tutti e di ciascuno». Se non eccede il buon gusto l'autocitazione
(e per quel che essa può valere) rammento come nel marzo '91 -già dimissionario
«in pectore» dal msi-dn- scrissi su "Diorama" (n° 146) in merito alla nuova
«topologia» dello stare all'opposizione -a destra, a sinistra e «oltre»- così
concludendo l'intervento: «A Sinistra, allora. Una sinistra che non avrà bisogno
di richiamarsi solo a Gramsci o a Proudhon per definirsi elitaria e
d'avanguardia. Sinistra aristocratica come provocazione, come sfida, come
progetto». La provocazione ed il progetto non trovarono, invero, sfidanti; lo
stesso Marco Tarchi nella sua replica -pur intelligentemente articolata, come
gli si conviene- non seppe o non volle cogliere l'obiettivo della mia analisi,
se non nei termini (parziali) di un tentativo di rilegittimazione «a sinistra»
del fascismo sulla scorta degli autori da me citati, quali Sorel, Corridoni e
Berto Ricci.
Nello spazio di poco più di due anni, da allora -come ognuno sa- il quadro
politico, nazionale ed internazionale, risulta profondamente mutato.
Quell'esigenza di dar vita ad un fronte di opposizione sociale sembra trovare
nuove, diverse e più diffuse sensibilità; anche come conseguenza «pratica» della
riforma elettorale del dopo 18 aprile. Comunque sia, la situazione impone a
quanti non vogliono abdicare al proprio «essere politico» di pensare ed agire
secondo nuove forme d'intervento, ed attraverso nuove aggregazioni e nuove
scomposizioni.
La vita politica italiana, d'altronde, appare oggi particolarmente confusa, e
confusamente in movimento. Si possono scorgere molte realtà fra esse
diversificate, ognuna delle quali capace sino ad ieri di «viaggiare per conto
suo», ma che non trovano ora le coordinate per il domani. Un insieme di realtà
complesse -come si diceva- di cui è in fondo facile conoscere la provenienza, ma
di cui appare difficile sapere dove si trovino adesso, e quasi impossibile
sapere dove stiano andando. Tutto sembra muoversi, qui in Italia, verso
un'incessante evoluzione-involuzione; e dunque può risultare persino inutile
tentare pronostici con pretese di attendibilità.
Tuttavia -a livello di ipotesi, e di ipotesi praticabile- penso che il futuro
possa riservarci due schieramenti non riducibili alle tradizionali, chiesastiche
categorie di sinistra o di destra, bensì riconducibili a «logiche» del tutto
anomale, davvero trasversali -come si suoi dire- ai vecchi raggruppamenti
partitici. Ed il discrimine sarà costituito dall'adeguamento, o meno, ad
un'unica grande «logica»: quella del capitalismo.
Da una parte, un fronte a difesa della solidarietà e della partecipazione, dei
valori originari della libertà e del socialismo, dell'indipendenza e tradizione
nazionale; dall'altra -esteso in tutta la sua ampiezza- lo schieramento
liberal-conservatore, quello dei «vincitori».
Uno schieramento, quest'ultimo, virtualmente filo-occidentale e nei fatti
subalterno agli USA; lo schieramento di chi in Italia ancora si colloca a
destra, al centro, o a sinistra, oppure si dice moderato o progressista, ma in
realtà è funzionale ad una futura (?) mega-società integrata e apolitica.
E dovrebbe essere una delle ragioni fondanti di un polo antagonista, quella di
riaffermare il primato del politico sull'individuale e sull'economico. Contro le
spinte egoistiche della società opulenta. Contro la stessa egemonia tecnocratica
ed economica. Contro la crescita disgregatrice dell'affarismo sia sul sociale
che sull'individuale, entrambi depotenziati e sviliti dal progredire del
«villaggio globale» e dalla massificazione mercantilistica. Dando così sfogo
alla fantasia -ma restando con i piedi per terra- prefiguro un'ampia intesa,
dapprima strategica e quindi organica, «contro» e «per» tutto ciò.
Un'alleanza che comprenda forze sindacali quali CISNaL, Essere Sindacato e
Comitati di base; forze culturali non asservite agli interessi del mondialismo;
gruppi impegnati nel volontariato e nella civica solidarietà; organismi sociali
che si pongano in modo critico nei confronti dell'iper-consumismo. Penso anche
ai vecchi contenitori partitici, tra cui quelli della vecchia sinistra, dai
neo-comunisti ai socialisti libertari, passando attraverso il PDS non
clintoniano, i Verdi del «no», la Rete anticapitalista; ma penso anche a settori
del mondo cattolico ad esempio oppostisi alla sanguinaria truffa di "Desert
Storm", senza trascurare apporti che provenissero da mazziniani non
internazionalisti, da leghisti non liberal-democristiani, da missini che non
avessero smarrito il senso di alcune parole d'ordine quali «plutocrazia» o «18
punti di Verona», e così via...
... Utopia, quella di trovare punti di convergenza e saldatura per costruire una
realtà diversa, su fondamenta sociali e nazionali? Forse. Ma se questa «casa
comune», di cui la CISNaL ha posto la prima pietra, dovesse innalzarsi — ebbene,
io credo che «le prospettive del futuro» diverrebbero assai meno «grame» di quel
che si attende(va) A. C. sull'ultimo numero di "Tabularasa".
Questo, comunque e in ogni caso, resta da sperare. E sperare operosamente,
ciascuno per la propria parte. Per costruire assieme «l'isola che non c'è», là
dove non sia unica legge quella del mercato e non domini uniforme il colore del
dollaro.
Alberto
Ostidich
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