«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 5 - 15 Agosto 1993

 

Codice d'onore


 

«Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d'obbedienza

fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza.

Però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni

da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni».
Fabrizio De Andrè


Un recente film americano, intitolato appunto "Codice d'onore", un film del tipo esorcistico-autoassolutorio, narra un caso di giustizia militare. La morte, ritenuta accidentale, di un giovane marine insofferente si rivela essere dovuta alla esecuzione, da parte di due suoi commilitoni, di un codice non scritto, di un ordine cifrato. La morale è questa: esistono istituzioni in cui, a volte, si commettono eccessi, violazioni della legalità, magari per motivi d'onore, ma la norma scritta sa vincere, sa riconoscere le violazioni, isolarle, punirle. È il senso rassicurante della comune ipocrisia che si raffigura come eccezionali, quando non può farne a meno di vederli, quegli eventi che pur conosce e tollera, ma preferisce far finta che non siano.
Molte sono in realtà le istituzioni che sono regolate da codici non scritti e non confessabili, che su essi addirittura si fondano. È così per tutti gli eserciti, compreso il nostro, per quanto scalcinato. Chi è stato sottoposto alla leva lo sa bene: la disciplina, lo stesso addestramento, non sono affidati alle regole formali ma ad un assurdo complesso di consuetudini e di comportamenti, di violenze psicologiche, di ricatti, di complicità, alla violazione costante del rispetto personale, della logica, quando non anche del codice penale. Il «nonnismo», la delazione, il dosaggio delle licenze e delle punizioni, non sono deviazioni ma l'ossatura dell'istituzione.
Sotto la fattispecie «codice d'onore» (nel senso del film) si fanno rientrare le cosiddette deviazioni dei servizi segreti: i servizi deviati. Neanche la serie ininterrotta delle deviazioni, che ha visto coinvolti tutti -tutti- i vertici che si sono succeduti negli anni è bastata a distogliere dall'interpretazione deviazionistica. Anche il caso di questi giorni (l'arresto di esponenti di spicco dei servizi per un uso illecito dei fondi) viene isolato come un episodio di malcostume. Siamo invece, ancora una volta, nel campo di elementi strutturali, costitutivi della struttura dei servizi. Un apparato di intelligence, soprattutto (ma non solo) in un paese scassato come il nostro è fatto per convivere con i canali di informazione: malavita, traffico di droga, di armi, di valuta. E di questi settori conosce metodi e logiche e, spesso, li assume. È un apparato che non risponde a nessuno, se non al livello più oscuro del potere politico, dei poteri politici che si susseguono, si stratificano, si scontrano. Un codice non scritto è quello che regola la vita nelle carceri: gerarchie criminali, intrecci di rapporti tra settori di detenuti e tra questi ed i loro controllori. Violenze, violazione sistematica dei più elementari diritti, anche di quelli riconosciuti per legge al carcerato.
È la galera-canile denunciata nella sua ultima lettera da Gabriele Cagliari, su cui si apre una finestra di stupore per la morte eccellente, una finestra che resta chiusa sulle centinaia di altri suicidi anonimi, sulle violenze e sulle vite distrutte ogni giorno dietro quelle mura. Codici su cui si fondano, da sempre, anche i metodi istruttori dei giudici non solo adesso, non solo quelli di «Mani pulite».
Chi ha ragione dunque, l'istituzione o la giovane recluta autolesionista, l'istituzione o chi, come Cagliari, denuncia con il suo gesto la violenza assurda che l'istituzione silenziosamente esercita? Per tentare di attribuire torti e ragioni, bisogna intanto liberarsi da ogni ipocrisia e magari pensare, con De Andrè, che «non esistono poteri buoni», ancorché così ci piaccia, per buona coscienza, rappresentarceli. Io (non posso che parlare in prima persona) non sopporto e denuncio la violenza, l'assurdità delle istituzioni di cui ho fin'ora parlato; io tremo di fronte alla patente inversione delle regole fondamentali del diritto e delle procedure operata dai giudici di «Mani pulite».
Ma non posso valutare i fatti a prescindere da un giudizio politico. E non posso quindi non pensare che quel groviglio di potere che ha determinato il quotidiano svolgersi di drammi e di ingiustizie ai danni di migliaia di sconosciuti cittadini, quel potere era garantito, creato, era funzionale ai Gabriele Cagliari che hanno finito per sperimentarne i rigori.
Del resto (sempre che di suicidio si sia trattato) è proprio il suo gesto, la sua lettera, le sue accuse a confermarlo: lui non tenta assoluzioni, ma una chiamata in correo, lui «capro espiatorio» dei tanti che insieme a lui hanno edificato questo castello e che oggi si nascondono nell'ombra del silenzio o nel trasformismo. Addirittura il suo gergo tradisce una logica da banda, da gruppo di malfattori consociati.
Quale il giudizio: un giudizio politico. Stiamo vivendo una rivoluzione, ad un potere se ne stanno sostituendo di nuovi e nel corso caotico -anche se, per fortuna, ancora pacifico- di una rivoluzione i poteri in gioco, vecchi e nuovi, svelano il proprio non detto, i suoi codici segreti emergono in tutta la loro virulenza. Questo è lo stato delle cose. Violazioni, suicidi, omicidi, terremoti nelle strutture sono l'indice estremo del cambiamento, della fine di un potere dominato da poche famiglie politiche e finanziarie, assoggettato ad interessi affaristici criminali ed a logiche politiche straniere. Una deregulation è in atto che è destinata a coinvolgere tutti i segmenti del vecchio assetto: non mi stupirei che, nel suo estendersi, tra qualche mese fossero i giudici a suicidarsi. Per il crollo di questo potere non resta, intanto, che tirare un sospiro di sollievo, questo è il giudizio politico, ma senza nasconderci i rischi e le aberrazioni che il travaglio comporta. Perché, solo avendo ben presenti le cose per quello che sono, possiamo illuderci di contribuire, nelle successive fasi, ad impedirne la stabilizzazione, a limitarne i disastri e, magari, a fare in modo che quei poteri debbano finire per rispondere ad una politica migliore. Intanto cerchiamo, lucidamente, di capire meglio quanto è successo negli scorsi decenni.

* * *

Domani parto. Spesso in questi anni, d'estate, sono stato lontano dall'Italia. Mancano quindi alla mia memoria diretta, piccoli drammi della cronaca nazionale (la tragedia di Stava, l'incidente alle "Frecce Tricolori", l'accordo sul costo di lavoro). Ma si sa, d'agosto non succede quasi mai niente. È pur vero, però, che per tanti anni in Italia sembrava che non succedesse mai niente, l'anno che è trascorso ci ha invece riservato una sorpresa al giorno. Quindi non è da escludersi che proprio in questo agosto possano succedere cose importanti. Magari si scoprirà che Gardini, Cagliari e Piga non si sono suicidati. Coi tempi che corrono c'è il caso che si finisca per sapere chi ha ucciso Castellari e Calvi e Sindona e Pecorelli e De Mauro e Mattei e Pisciotta, o chi ha tirato giù l'aereo di Ustica, chi ha messo le bombe a Bologna a Milano e sui treni. Forse, proprio mentre sarò lontano, si saprà a quale codice, di quale onorata società, hanno risposto gli esecutori di queste azioni. Per favore, tenetemi i giornali.
 

Umberto Croppi

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