Codice d'onore
«Certo bisogna farne di strada
da una ginnastica d'obbedienza
fino ad un gesto molto più umano
che ti dia il senso della violenza.
Però bisogna farne altrettanta
per diventare così coglioni
da non riuscire più a capire che
non ci sono poteri buoni».
Fabrizio De Andrè
Un recente film americano, intitolato appunto "Codice d'onore", un film del tipo
esorcistico-autoassolutorio, narra un caso di giustizia militare. La morte,
ritenuta accidentale, di un giovane marine insofferente si rivela essere dovuta
alla esecuzione, da parte di due suoi commilitoni, di un codice non scritto, di
un ordine cifrato. La morale è questa: esistono istituzioni in cui, a volte, si
commettono eccessi, violazioni della legalità, magari per motivi d'onore, ma la
norma scritta sa vincere, sa riconoscere le violazioni, isolarle, punirle. È il
senso rassicurante della comune ipocrisia che si raffigura come eccezionali,
quando non può farne a meno di vederli, quegli eventi che pur conosce e tollera,
ma preferisce far finta che non siano.
Molte sono in realtà le istituzioni che sono regolate da codici non scritti e
non confessabili, che su essi addirittura si fondano. È così per tutti gli
eserciti, compreso il nostro, per quanto scalcinato. Chi è stato sottoposto alla
leva lo sa bene: la disciplina, lo stesso addestramento, non sono affidati alle
regole formali ma ad un assurdo complesso di consuetudini e di comportamenti, di
violenze psicologiche, di ricatti, di complicità, alla violazione costante del
rispetto personale, della logica, quando non anche del codice penale. Il
«nonnismo», la delazione, il dosaggio delle licenze e delle punizioni, non sono
deviazioni ma l'ossatura dell'istituzione.
Sotto la fattispecie «codice d'onore» (nel senso del film) si fanno rientrare le
cosiddette deviazioni dei servizi segreti: i servizi deviati. Neanche la serie
ininterrotta delle deviazioni, che ha visto coinvolti tutti -tutti- i vertici
che si sono succeduti negli anni è bastata a distogliere dall'interpretazione
deviazionistica. Anche il caso di questi giorni (l'arresto di esponenti di
spicco dei servizi per un uso illecito dei fondi) viene isolato come un episodio
di malcostume. Siamo invece, ancora una volta, nel campo di elementi
strutturali, costitutivi della struttura dei servizi. Un apparato di
intelligence, soprattutto (ma non solo) in un paese scassato come il nostro è
fatto per convivere con i canali di informazione: malavita, traffico di droga,
di armi, di valuta. E di questi settori conosce metodi e logiche e, spesso, li
assume. È un apparato che non risponde a nessuno, se non al livello più oscuro
del potere politico, dei poteri politici che si susseguono, si stratificano, si
scontrano. Un codice non scritto è quello che regola la vita nelle carceri:
gerarchie criminali, intrecci di rapporti tra settori di detenuti e tra questi
ed i loro controllori. Violenze, violazione sistematica dei più elementari
diritti, anche di quelli riconosciuti per legge al carcerato.
È la galera-canile denunciata nella sua ultima lettera da Gabriele Cagliari, su
cui si apre una finestra di stupore per la morte eccellente, una finestra che
resta chiusa sulle centinaia di altri suicidi anonimi, sulle violenze e sulle
vite distrutte ogni giorno dietro quelle mura. Codici su cui si fondano, da
sempre, anche i metodi istruttori dei giudici non solo adesso, non solo quelli
di «Mani pulite».
Chi ha ragione dunque, l'istituzione o la giovane recluta autolesionista,
l'istituzione o chi, come Cagliari, denuncia con il suo gesto la violenza
assurda che l'istituzione silenziosamente esercita? Per tentare di attribuire
torti e ragioni, bisogna intanto liberarsi da ogni ipocrisia e magari pensare,
con De Andrè, che «non esistono poteri buoni», ancorché così ci piaccia, per
buona coscienza, rappresentarceli. Io (non posso che parlare in prima persona)
non sopporto e denuncio la violenza, l'assurdità delle istituzioni di cui ho
fin'ora parlato; io tremo di fronte alla patente inversione delle regole
fondamentali del diritto e delle procedure operata dai giudici di «Mani pulite».
Ma non posso valutare i fatti a prescindere da un giudizio politico. E non posso
quindi non pensare che quel groviglio di potere che ha determinato il quotidiano
svolgersi di drammi e di ingiustizie ai danni di migliaia di sconosciuti
cittadini, quel potere era garantito, creato, era funzionale ai Gabriele
Cagliari che hanno finito per sperimentarne i rigori.
Del resto (sempre che di suicidio si sia trattato) è proprio il suo gesto, la
sua lettera, le sue accuse a confermarlo: lui non tenta assoluzioni, ma una
chiamata in correo, lui «capro espiatorio» dei tanti che insieme a lui hanno
edificato questo castello e che oggi si nascondono nell'ombra del silenzio o nel
trasformismo. Addirittura il suo gergo tradisce una logica da banda, da gruppo
di malfattori consociati.
Quale il giudizio: un giudizio politico. Stiamo vivendo una rivoluzione, ad un
potere se ne stanno sostituendo di nuovi e nel corso caotico -anche se, per
fortuna, ancora pacifico- di una rivoluzione i poteri in gioco, vecchi e nuovi,
svelano il proprio non detto, i suoi codici segreti emergono in tutta la loro
virulenza. Questo è lo stato delle cose. Violazioni, suicidi, omicidi, terremoti
nelle strutture sono l'indice estremo del cambiamento, della fine di un potere
dominato da poche famiglie politiche e finanziarie, assoggettato ad interessi
affaristici criminali ed a logiche politiche straniere. Una deregulation è in
atto che è destinata a coinvolgere tutti i segmenti del vecchio assetto: non mi
stupirei che, nel suo estendersi, tra qualche mese fossero i giudici a
suicidarsi. Per il crollo di questo potere non resta, intanto, che tirare un
sospiro di sollievo, questo è il giudizio politico, ma senza nasconderci i
rischi e le aberrazioni che il travaglio comporta. Perché, solo avendo ben
presenti le cose per quello che sono, possiamo illuderci di contribuire, nelle
successive fasi, ad impedirne la stabilizzazione, a limitarne i disastri e,
magari, a fare in modo che quei poteri debbano finire per rispondere ad una
politica migliore. Intanto cerchiamo, lucidamente, di capire meglio quanto è
successo negli scorsi decenni.
* * *
Domani parto. Spesso in questi anni, d'estate, sono stato lontano dall'Italia.
Mancano quindi alla mia memoria diretta, piccoli drammi della cronaca nazionale
(la tragedia di Stava, l'incidente alle "Frecce Tricolori", l'accordo sul costo
di lavoro). Ma si sa, d'agosto non succede quasi mai niente. È pur vero, però,
che per tanti anni in Italia sembrava che non succedesse mai niente, l'anno che
è trascorso ci ha invece riservato una sorpresa al giorno. Quindi non è da
escludersi che proprio in questo agosto possano succedere cose importanti.
Magari si scoprirà che Gardini, Cagliari e Piga non si sono suicidati. Coi tempi
che corrono c'è il caso che si finisca per sapere chi ha ucciso Castellari e
Calvi e Sindona e Pecorelli e De Mauro e Mattei e Pisciotta, o chi ha tirato giù
l'aereo di Ustica, chi ha messo le bombe a Bologna a Milano e sui treni. Forse,
proprio mentre sarò lontano, si saprà a quale codice, di quale onorata società,
hanno risposto gli esecutori di queste azioni. Per favore, tenetemi i giornali.
Umberto
Croppi
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