«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 5 - 15 Agosto 1993

 

La memoria storica

 

 

«Voi vi siete messi sul terreno della classe, ma non avete dimenticato la nazione. Avete parlato di popolo italiano, non soltanto della vostra categoria di metallurgici. Per gli interessi immediati della vostra categoria, voi potevate fare lo sciopero vecchio stile, lo sciopero negativo e distruttivo, ma pensando agi interessi del popolo, voi avete inaugurato lo sciopero creativo, che non interrompe la produzione... Voi insegnate a certi industriali, a quelli specialmente che ignorano tutto ciò che in questi ultimi quattro anni è avvenuto nel mondo, che la figura del vecchio industriale esoso e vampiro deve sostituirsi con quella del capitano della sua industria da cui può chiedere il necessario per sé, non già per imporre la miseria per gli altri creatori di ricchezza... Il divenire del proletariato è problema di volontà e di capacità, non di sola volontà, non di sola capacità, ma di capacità e di volontà insieme. Vi siete sottratti al gioco delle influenze politiche».
È Benito Mussolini a parlare così, il 20 marzo del 1919, agli operai della Franchi-Gregorini di Dalmine, una località nei pressi di Bergamo dove le maestranze, in gran parte aderenti alla UIL, l'organismo sindacale guidato dai sindacalisti rivoluzionari, hanno occupato la fabbrica. Scioperando, sì, ma in modo nuovo. Infatti, in nome dei princìpi produttivistici, pur presentando un bel pacchetto di rivendicazioni («giornata lavorativa di otto ore, sabato inglese, fissazione di minimi salariali, riconoscimento della rappresentanza sindacale ...», ricorda Renzo De Felice in "Mussolini il rivoluzionario", Einaudi, 1965), durante l'occupazione hanno continuato a lavorare e a produrre, innalzando sullo stabilimento il tricolore al posto della bandiera rossa.
Cosa importa se il padronato ha reagito con l'intransigenza, se l'occupazione è durata soltanto due giorni, se «1500 soldati fatti affluire da Bergamo hanno costretto gli scioperanti ad abbandonare la fabbrica»? A Dalmine, nazione, produzione e lotta sociale hanno marciato insieme; il sindacato non ha dato battaglia allo Stato; la patria non è stata negata, anzi, i lavoratori in sciopero si sono mossi per conquistarla, esaltando insieme la dignità del lavoro e gli obbiettivi di una giustizia che non lo penalizzi ma gli riconosca il ruolo di motore della società civile.
Tre giorni dopo, nell'adunata di Piazza San Sepolcro, atto di nascita dei Fasci di Combattimento, Mussolini rivendica il valore della guerra e della scelta interventista, in nome della quale un eroe del sindacalismo e dell'azione combattente come Filippo Corridoni ha trovato la morte. «La patria -afferma colui che già dagli anni della milizia socialista è per molti il Duce- oggi è più grande... È più grande perché noi ci sentiamo più grandi in quanto abbiamo l'esperienza di questa guerra, inquantoché noi l'abbiamo voluta, non ci è stata imposta e potevamo evitarla. Se noi abbiamo scelto questa strada è segno che ci sono nella nostra storia, nel nostro sangue degli elementi e dei fermenti di grandezza, poiché se ciò non fosse noi oggi saremmo l'ultimo popolo del mondo».
Eccoli, i tratti del fascismo: la rivoluzione per la nazione e non contro di essa; la lotta sociale volta a costruire, non a distruggere; la tensione del popolo a farsi Stato, a non essere espropriato del suo diritto alla patria; la vocazione a una grandezza esistenziale e comunitaria, che passa attraverso scelte decisive, che non teme di sperimentare la morte, che non esita a proporre l'eroismo non soltanto come modello di vita ma anche come elemento dirompente di creazione politica.
Ma da dove nasce tutto questo?
Certo, il fascismo viene da lontano e dal profondo: a San Sepolcro prendono corpo un'idea, una immagine del mondo e della vita, una dinamica, attivistica concezione della pòlis, un certo modo di testimoniare da cittadino, da intellettuale, da rivoluzionario, da combattente ecc. che hanno già una storia. E in questa storia compaiono la crisi del positivismo, le insufficienze del marxismo, le esplosioni dell'irrazionalismo, le sintesi audaci del sindacalismo rivoluzionario, il fiammeggiare delle avanguardie, il fecondo proliferare di riviste che sono state centri di dibattito e di assalto ai luoghi comuni ecc.
Nella storia del fascismo ci sono questi momenti che guerra e dopoguerra saldano nel più paradossale dei progetti rivoluzionali: quello che sovverte in nome dell'ordine. Il fascismo rovescia la legalità in nome di una più alta legittimità; le contraddizioni vengono violentemente esasperate per riunire la comunità; la modernizzazione procede di pari passo, per certi versi si nutre della restaurazione; l'accelerazione civile e sociale si fonde con un lessico mitologico che riscopre la misura classica, i maiores, l'imperium, le «mura e gli archi».
Il fascismo è una politica, un'estetica, una mistica: l'appello sacramentale e rituale ai morti per la Rivoluzione si coniuga, senza sfasature, col risanamento del territorio, le trasvolate atlantiche, la coscienza di un diritto-dovere imperiale... Non a questo, propriamente, è dedicato il libro di Zeev Sternhell ma è certo che esso prepara anche la riflessione su tutto questo. Docente di Scienze politiche all'Università di Gerusalemme, uomo di sinistra laburista, Sternhell è uno degli alfieri di quel revisionismo storiografico che molti studiosi di vista e mente corta pregiudizialmente avversano, timorosi che, attraverso esso, possano trovare riabilitazione o parziale giustificazione esperienze «condannate dalla storia» come il fascismo e il nazismo. In realtà, come spesso non ha mancato di far rilevare Franco Cardini, la storia è sempre «revisionista», il che vuoi dire che da sempre cerca di capire per giudicare, aggiusta o modifica il giudizio quando vengono fuori nuovi documenti, si sforza di interpretare grazie a una maturata sensibilità di fronte al passato, che il distanziarsi degli eventi e del coinvolgimento emotivo favoriscono.
Il fascismo è troppo vicino, troppo attuale per poterne parlare sine ira et studio? Può anche darsi: ma non si esorcizza davvero un fenomeno così complesso -e non è solo l'israeliano Sternhell a dirlo, perché anche l'israeliano Mosse si muove sulla stessa lunghezza d'onda- evitando di studiarlo per quello che realmente è stato. E non basta ancora: come ci suggeriscono gli studi del De Felice, bisogna studiare il fascismo anche per l'autorappresentazione che i fascisti avevano e davano di sé. Che cosa significava, insomma, per i fascisti, essere fascisti. Quali idee, quali sentimenti, quale storia personale, quali aspirazioni politiche mettevano nel loro fascismo? Ma è un discorso che ci porterebbe troppo lontano, anche perché una delle ragioni del "fascino segreto del fascismo" -così si intitola l'ultimo capitolo del saggio di Sternhell- sta nella molteplicità di equazioni personali che fecero la sua ricchezza intellettuale e la sua fortuna. Ed in fondo è proprio su questa ricchezza intellettuale e su questa fortuna che lo Sternhell ha basato e basa il suo lavoro di ricercatore (si legga anche un'opera come "Né destra né sinistra. La nascita dell'ideologia fascista", curata da Marco Tàrchi ed edita da Akropolis nel 1984): il fascismo di cui ci parla, infatti, fiorisce in un laboratorio di idee e passioni, eventi e occasioni davvero straordinario.
Come ricorda Marco Revelli, citando lo studioso israeliano, il contributo più originalmente provocatorio della lettura sternhelliana sta nel fatto di riconoscere al fascismo «spessore teorico» e «dignità culturale» e di considerarlo come un «sistema ideologico completo, radicato in una visione totale del mondo, che possiede la propria filosofia della storia e i propri imperativi per l'azione immediata». Convinzioni ribadite in quest'ultimo saggio (editorialmente molto sciatto: nell'indice si legge un titolo come George Sorel e la revisione antimilitaristica anziché antimaterialistica del marxismo; mancano le note del quinto capitolo e dell'epilogo ecc.) che studia la sintesi tra nazionalismo e socialismo operata dall'ideologia fascista, grazie al contributo del revisionismo soreliano, al dibattito intellettuale sviluppatosi in Francia e in Italia tra la fine dell'Ottocento e la prima guerra mondiale, al personale percorso di Mussolini.
Dicevamo che Sternhell conferma la sua idea di un corpus dottrinario fascista ben organizzato e strutturato, non mancando di rilevarne i caratteri che lo distinguono e lo qualificano: «il fascismo è stato una forza di rottura, capace di partire all'assalto dell'ordine costituito e di porsi in diretta concorrenza con il marxismo nel tentativo di procacciarsi il favore tanto degli intellettuali quanto delle masse»; «l'ideologia fascista è il prodotto di una sintesi del nazionalismo organico e della revisione antimaterialistica del marxismo. Essa si fa portatrice di un messaggio rivoluzionario fondato sul rifiuto dell'individualismo, marxista o liberale che sia. E mette in campo le grandi componenti di una cultura politica nuova e originale. Si tratta, infatti, di una cultura politica comunitaria, anti-individualistica e antirazionalistica»; «II fascismo pretende di cancellare gli effetti più disastrasi della modernizzazione del continente europeo, rimediando alla frammentazione della comunità in gruppi tra loro antagonisti, all'atomizzazione della società, all'alienazione dell'individuo, ormai diventato niente più che una mercé gettata sul mercato... Né reazionario né controrivoluzionario, il fascismo si presenta al contrario come una rivoluzione di tipo nuovo: una rivoluzione che dichiara di voler sfruttare al meglio il capitalismo, lo sviluppo della tecnologia moderna e il progresso industriale»; «II fascismo è l'antimaterialismo nei suoi contorni più netti»; «il bagaglio intellettuale del fascismo è tale da permettergli di procedere in piena autonomia, e il suo nucleo teorico non è meno omogeneo -o più eterogeneo- di quelli del liberalismo e del socialismo» ecc. ecc.
E a proposito delle contraddizioni tra teoria e prassi, tra fascismo movimento e fascismo regime, valgano le riflessioni conclusive del capitolo dedicato all'itinerario ideologico di Mussolini: «Certo, con la progressiva identificazione del fascismo con lo stato, le resistenze incontrate nell'applicazione dei princìpi di matrice sindacalista rivoluzionaria modificano sostanzialmente l'equilibrio che si era creato, sul piano ideologico, tra nazionalismo e socialismo: la dittatura mussoliniana, che trova la sua radice ideale -comune a tutte le componenti del fascismo- nell'orrore per ogni forma di democrazia, darà luogo infine ad un regime totalmente privo di caratteristiche di tipo socialista.
Eppure, il regime fascista degli anni Trenta è assai più vicino alla sintesi ideologica promossa dalla Lupa, o dal Circolo Proudhon, di quanto lo stalinismo lo sia ai princìpi marxisti. L'evoluzione del fascismo avviene, per tutta la durata degli anni Venti, in funzione di quegli obiettivi primari che si erano prefissati, dieci anni prima della marcia su Roma, i protagonisti di una rivoluzione antiliberale, antimaterialistica ed antimarxista che non ha precedenti nella storia. Fu una rivoluzione, quella fascista, per la nazione nella sua intierezza, una rivoluzione politica ma anche morale e spirituale».
 

 

Mario Bernardi Guardi

da "Pagine libere", maggio-giugno 1993


Zeev Sternhell, "Nascita dell'ideologia fascista", traduzione di Gianluca Mori,
prefazione di Marco Revelli, Baldini & Castoldi, Milano 1993, pp. 404, Lire 36.000

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