La memoria storica
«Voi vi siete messi sul terreno
della classe, ma non avete dimenticato la nazione. Avete parlato di popolo
italiano, non soltanto della vostra categoria di metallurgici. Per gli interessi
immediati della vostra categoria, voi potevate fare lo sciopero vecchio stile,
lo sciopero negativo e distruttivo, ma pensando agi interessi del popolo, voi
avete inaugurato lo sciopero creativo, che non interrompe la produzione... Voi
insegnate a certi industriali, a quelli specialmente che ignorano tutto ciò che
in questi ultimi quattro anni è avvenuto nel mondo, che la figura del vecchio
industriale esoso e vampiro deve sostituirsi con quella del capitano della sua
industria da cui può chiedere il necessario per sé, non già per imporre la
miseria per gli altri creatori di ricchezza... Il divenire del proletariato è
problema di volontà e di capacità, non di sola volontà, non di sola capacità, ma
di capacità e di volontà insieme. Vi siete sottratti al gioco delle influenze
politiche».
È Benito Mussolini a parlare così, il 20 marzo del 1919, agli operai della
Franchi-Gregorini di Dalmine, una località nei pressi di Bergamo dove le
maestranze, in gran parte aderenti alla UIL, l'organismo sindacale guidato dai
sindacalisti rivoluzionari, hanno occupato la fabbrica. Scioperando, sì, ma in
modo nuovo. Infatti, in nome dei princìpi produttivistici, pur presentando un
bel pacchetto di rivendicazioni («giornata lavorativa di otto ore, sabato
inglese, fissazione di minimi salariali, riconoscimento della rappresentanza
sindacale ...», ricorda Renzo De Felice in "Mussolini il rivoluzionario",
Einaudi, 1965), durante l'occupazione hanno continuato a lavorare e a produrre,
innalzando sullo stabilimento il tricolore al posto della bandiera rossa.
Cosa importa se il padronato ha reagito con l'intransigenza, se l'occupazione è
durata soltanto due giorni, se «1500 soldati fatti affluire da Bergamo hanno
costretto gli scioperanti ad abbandonare la fabbrica»? A Dalmine, nazione,
produzione e lotta sociale hanno marciato insieme; il sindacato non ha dato
battaglia allo Stato; la patria non è stata negata, anzi, i lavoratori in
sciopero si sono mossi per conquistarla, esaltando insieme la dignità del lavoro
e gli obbiettivi di una giustizia che non lo penalizzi ma gli riconosca il ruolo
di motore della società civile.
Tre giorni dopo, nell'adunata di Piazza San Sepolcro, atto di nascita dei Fasci
di Combattimento, Mussolini rivendica il valore della guerra e della scelta
interventista, in nome della quale un eroe del sindacalismo e dell'azione
combattente come Filippo Corridoni ha trovato la morte. «La patria -afferma
colui che già dagli anni della milizia socialista è per molti il Duce- oggi è
più grande... È più grande perché noi ci sentiamo più grandi in quanto abbiamo
l'esperienza di questa guerra, inquantoché noi l'abbiamo voluta, non ci è stata
imposta e potevamo evitarla. Se noi abbiamo scelto questa strada è segno che ci
sono nella nostra storia, nel nostro sangue degli elementi e dei fermenti di
grandezza, poiché se ciò non fosse noi oggi saremmo l'ultimo popolo del mondo».
Eccoli, i tratti del fascismo: la rivoluzione per la nazione e non contro di
essa; la lotta sociale volta a costruire, non a distruggere; la tensione del
popolo a farsi Stato, a non essere espropriato del suo diritto alla patria; la
vocazione a una grandezza esistenziale e comunitaria, che passa attraverso
scelte decisive, che non teme di sperimentare la morte, che non esita a proporre
l'eroismo non soltanto come modello di vita ma anche come elemento dirompente di
creazione politica.
Ma da dove nasce tutto questo?
Certo, il fascismo viene da lontano e dal profondo: a San Sepolcro prendono
corpo un'idea, una immagine del mondo e della vita, una dinamica, attivistica
concezione della pòlis, un certo modo di testimoniare da cittadino, da
intellettuale, da rivoluzionario, da combattente ecc. che hanno già una storia.
E in questa storia compaiono la crisi del positivismo, le insufficienze del
marxismo, le esplosioni dell'irrazionalismo, le sintesi audaci del sindacalismo
rivoluzionario, il fiammeggiare delle avanguardie, il fecondo proliferare di
riviste che sono state centri di dibattito e di assalto ai luoghi comuni ecc.
Nella storia del fascismo ci sono questi momenti che guerra e dopoguerra saldano
nel più paradossale dei progetti rivoluzionali: quello che sovverte in nome
dell'ordine. Il fascismo rovescia la legalità in nome di una più alta
legittimità; le contraddizioni vengono violentemente esasperate per riunire la
comunità; la modernizzazione procede di pari passo, per certi versi si nutre
della restaurazione; l'accelerazione civile e sociale si fonde con un lessico
mitologico che riscopre la misura classica, i maiores, l'imperium, le «mura e
gli archi».
Il fascismo è una politica, un'estetica, una mistica: l'appello sacramentale e
rituale ai morti per la Rivoluzione si coniuga, senza sfasature, col risanamento
del territorio, le trasvolate atlantiche, la coscienza di un diritto-dovere
imperiale... Non a questo, propriamente, è dedicato il libro di Zeev Sternhell
ma è certo che esso prepara anche la riflessione su tutto questo. Docente di
Scienze politiche all'Università di Gerusalemme, uomo di sinistra laburista,
Sternhell è uno degli alfieri di quel revisionismo storiografico che molti
studiosi di vista e mente corta pregiudizialmente avversano, timorosi che,
attraverso esso, possano trovare riabilitazione o parziale giustificazione
esperienze «condannate dalla storia» come il fascismo e il nazismo. In realtà,
come spesso non ha mancato di far rilevare Franco Cardini, la storia è sempre
«revisionista», il che vuoi dire che da sempre cerca di capire per giudicare,
aggiusta o modifica il giudizio quando vengono fuori nuovi documenti, si sforza
di interpretare grazie a una maturata sensibilità di fronte al passato, che il
distanziarsi degli eventi e del coinvolgimento emotivo favoriscono.
Il fascismo è troppo vicino, troppo attuale per poterne parlare sine ira et
studio? Può anche darsi: ma non si esorcizza davvero un fenomeno così complesso
-e non è solo l'israeliano Sternhell a dirlo, perché anche l'israeliano Mosse si
muove sulla stessa lunghezza d'onda- evitando di studiarlo per quello che
realmente è stato. E non basta ancora: come ci suggeriscono gli studi del De
Felice, bisogna studiare il fascismo anche per l'autorappresentazione che i
fascisti avevano e davano di sé. Che cosa significava, insomma, per i fascisti,
essere fascisti. Quali idee, quali sentimenti, quale storia personale, quali
aspirazioni politiche mettevano nel loro fascismo? Ma è un discorso che ci
porterebbe troppo lontano, anche perché una delle ragioni del "fascino segreto
del fascismo" -così si intitola l'ultimo capitolo del saggio di Sternhell- sta
nella molteplicità di equazioni personali che fecero la sua ricchezza
intellettuale e la sua fortuna. Ed in fondo è proprio su questa ricchezza
intellettuale e su questa fortuna che lo Sternhell ha basato e basa il suo
lavoro di ricercatore (si legga anche un'opera come "Né destra né sinistra. La
nascita dell'ideologia fascista", curata da Marco Tàrchi ed edita da Akropolis
nel 1984): il fascismo di cui ci parla, infatti, fiorisce in un laboratorio di
idee e passioni, eventi e occasioni davvero straordinario.
Come ricorda Marco Revelli, citando lo studioso israeliano, il contributo più
originalmente provocatorio della lettura sternhelliana sta nel fatto di
riconoscere al fascismo «spessore teorico» e «dignità culturale» e di
considerarlo come un «sistema ideologico completo, radicato in una visione
totale del mondo, che possiede la propria filosofia della storia e i propri
imperativi per l'azione immediata». Convinzioni ribadite in quest'ultimo saggio
(editorialmente molto sciatto: nell'indice si legge un titolo come George Sorel
e la revisione antimilitaristica anziché antimaterialistica del marxismo;
mancano le note del quinto capitolo e dell'epilogo ecc.) che studia la sintesi
tra nazionalismo e socialismo operata dall'ideologia fascista, grazie al
contributo del revisionismo soreliano, al dibattito intellettuale sviluppatosi
in Francia e in Italia tra la fine dell'Ottocento e la prima guerra mondiale, al
personale percorso di Mussolini.
Dicevamo che Sternhell conferma la sua idea di un corpus dottrinario fascista
ben organizzato e strutturato, non mancando di rilevarne i caratteri che lo
distinguono e lo qualificano: «il fascismo è stato una forza di rottura, capace
di partire all'assalto dell'ordine costituito e di porsi in diretta concorrenza
con il marxismo nel tentativo di procacciarsi il favore tanto degli
intellettuali quanto delle masse»; «l'ideologia fascista è il prodotto di una
sintesi del nazionalismo organico e della revisione antimaterialistica del
marxismo. Essa si fa portatrice di un messaggio rivoluzionario fondato sul
rifiuto dell'individualismo, marxista o liberale che sia. E mette in campo le
grandi componenti di una cultura politica nuova e originale. Si tratta, infatti,
di una cultura politica comunitaria, anti-individualistica e
antirazionalistica»; «II fascismo pretende di cancellare gli effetti più
disastrasi della modernizzazione del continente europeo, rimediando alla
frammentazione della comunità in gruppi tra loro antagonisti, all'atomizzazione
della società, all'alienazione dell'individuo, ormai diventato niente più che
una mercé gettata sul mercato... Né reazionario né controrivoluzionario, il
fascismo si presenta al contrario come una rivoluzione di tipo nuovo: una
rivoluzione che dichiara di voler sfruttare al meglio il capitalismo, lo
sviluppo della tecnologia moderna e il progresso industriale»; «II fascismo è
l'antimaterialismo nei suoi contorni più netti»; «il bagaglio intellettuale del
fascismo è tale da permettergli di procedere in piena autonomia, e il suo nucleo
teorico non è meno omogeneo -o più eterogeneo- di quelli del liberalismo e del
socialismo» ecc. ecc.
E a proposito delle contraddizioni tra teoria e prassi, tra fascismo movimento e
fascismo regime, valgano le riflessioni conclusive del capitolo dedicato
all'itinerario ideologico di Mussolini: «Certo, con la progressiva
identificazione del fascismo con lo stato, le resistenze incontrate
nell'applicazione dei princìpi di matrice sindacalista rivoluzionaria modificano
sostanzialmente l'equilibrio che si era creato, sul piano ideologico, tra
nazionalismo e socialismo: la dittatura mussoliniana, che trova la sua radice
ideale -comune a tutte le componenti del fascismo- nell'orrore per ogni forma di
democrazia, darà luogo infine ad un regime totalmente privo di caratteristiche
di tipo socialista.
Eppure, il regime fascista degli anni Trenta è assai più vicino alla sintesi
ideologica promossa dalla Lupa, o dal Circolo Proudhon, di quanto lo stalinismo
lo sia ai princìpi marxisti. L'evoluzione del fascismo avviene, per tutta la
durata degli anni Venti, in funzione di quegli obiettivi primari che si erano
prefissati, dieci anni prima della marcia su Roma, i protagonisti di una
rivoluzione antiliberale, antimaterialistica ed antimarxista che non ha
precedenti nella storia. Fu una rivoluzione, quella fascista, per la nazione
nella sua intierezza, una rivoluzione politica ma anche morale e spirituale».
Mario
Bernardi Guardi
da "Pagine
libere", maggio-giugno 1993
Zeev Sternhell, "Nascita dell'ideologia fascista", traduzione di Gianluca Mori,
prefazione di Marco Revelli, Baldini & Castoldi, Milano 1993, pp. 404, Lire
36.000
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