«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno II - n° 5 - 15 Agosto 1993

 

l'archivio memoria

Un fedele disubbidiente.

Dino Grandi da Palazzo Chigi al 25 luglio



II 28 ottobre del 1922 gli Italiani, nella stragrande maggioranza, indossarono la camicia nera; molti, anzi, se l'erano già messa da qualche tempo. Il 25 luglio del '43, in gran parte se la toglieranno, anche se qualche mese dopo, in un paese spaccato a metà, qualcuno la ritirerà fuori dal cassetto o per disperato amore oppure per forza. Sugli anniversari i giornali si gettano da sempre con appassionata foga: ed è giusto che sia così, perché la gente vuoi sapere, capire, scoprire. O magari ricordare. Così, se nel '92 a settant'anni di distanza, si è parlato di ogni minimo retroscena della Marcia su Roma, quest'anno storici, giornalisti ed anche gazzettieri di quart'ordine ce la metteranno tutta perché non resti nemmeno un angolino oscuro di quella fatale estate del '43, quando il Duce dagli altari precipitò nella polvere per volontà di molti dei suoi, per inerzia di molti altri e magari per qualche altra segreta ragione che forse verrà fuori dai cassetti della storia.
Strana cosa il fascismo: anche chi lo detesta, come se l'Aventino o la Resistenza fossero elementi dell'attuale dibattito politico e quindi corresse l'obbligo di scegliere, ne è segretamente affascinato o, per lo meno, incuriosito.
«Se non ci fosse stato, dovremmo inventarlo», mi diceva anni fa Pier Maria Paoletti, direttore di "Storia Illustrata", quando gli chiedevo come mai dedicasse tante copertine del
mensile al famigerato Ventennio, ai suoi simboli, ai suoi uomini. «I lettori sono golosi di questi argomenti», osservava. Già, e magari, indipendentemente da come la pensino in politica, si schierano. Nel senso che, se, ad esempio, si ricostruisce il profilo di un gerarca, c'è chi si arruola tra i suoi sostenitori e chi tra i suoi detrattori. Addirittura sulla base della simpatia o dell'antipatia, prima di informarsi e documentarsi, e quindi essere in grado di riflettere e di dare dei giudizi non avventati.
Prendiamo, visto che siamo in tema di 25 luglio, un personaggio come Dino Grandi: suscita in genere antipatie anche in coloro che approvano o giustificano l'ordine del giorno che mandò a picco Mussolini. Degli altri non è nemmeno il caso di parlare: per loro, Grandi è un traditore, e basta.
Per mettere a fuoco il controverso personaggio, abbiamo scelto uno studioso da anni impegnato a scavare nelle carte del gerarca: Paolo Nello, che insegna Storia Contemporanea all'Università di Pisa, è già autore del volume "Dino Grandi. La formazione di un leader fascista" (II Mulino, 1987), relativo agli anni 1895-1929 (data di nascita e data di nomina a ministro degli Esteri del ras romagnolo) e da in questi giorni alle stampe, sempre per II Mulino, il secondo volume della biografia: "Un fedele disubbidiente. Dino Grandi da Palazzo Chigi al 25 luglio".

D — Nello, che cosa deve fare o non fare lo storico ?
R — II compito dello storico è quello di cercare, ordinare, comprendere. Mettendo al bando ogni pregiudizio, impegnandosi invece ad esprimere i suoi giudizi sine ira et studio. Più che mai quando ci si occupa di cose contemporanee: crescono i documenti ma cresce anche la tendenza a lasciarsi coinvolgere ideologicamente. E invece lo sguardo deve essere lucido. Sembrano considerazioni scontate; eppure sono ricorrenti, tanto per fare un esempio, i fraintendimenti, i piccoli o grandi attacchi faziosi nei confronti dell'opera di Renzo De Felice, che è lo storico che più ampiamente e obiettivamente ha saputo scavare nel cuore del fascismo. Da De Felice mi viene un insegnamento di serenità, che ho tenuto presente in ogni circostanza, sia quando mi sono occupato del movimento giovanile fascista, sia quando i miei interessi si sono spostati sulle battaglie frondiste del GUF pisano, sia dacché ho incominciato a lavorare alla biografia di Grandi. Questo è revisionismo? Ma lo storico fa sempre revisione, nel senso che rende sempre più compiuta, sulla base dell' intelligenza dei documenti, cioè della ricerca accurata, la sua visione dei fatti e dei personaggi.

D — D'accordo, e a quali punti fermi sei approdato a proposito del tanto dibattuto Grandi del 25 luglio?
R — Questo è il mio quadro. Nel luglio '43 Grandi aveva deciso di «provare qualcosa», informandone Federzoni, ma era assolutamente scettico sull'esito della propria iniziativa, facilmente rintuzzabile -riteneva- da Mussolini. Lo trassero d'impaccio, paradossalmente, Scorza e Farinacci, che chiesero la convocazione del Gran Consiglio per una svolta totalitaria e la resistenza ad oltranza. Ma soprattutto gli levò le castagne dal fuoco -anche se questo, Grandi, non lo seppe mai- addirittura il Duce che volle il Gran Consiglio nella convinzione di poterlo padroneggiare, ottenendone una sorta di voto di fiducia da esibire al re presso il quale la propria posizione s'era fatta, dopo il convegno di Feltre con Hitler, assai traballante.

D — Ma, insomma, che cosa voleva Mussolini?
R — II Duce era convinto che la guerra fosse ormai perduta e perduta per colpa dei Tedeschi. Voleva dunque servirsi del Gran Consiglio per tentare in proprio lo sganciamento dall'Asse -se non dallo scontro con i Tedeschi- almeno dall'onta del disonore, dimostrando -si noti- che era stato Hitler a tradirci più volte, iniziando la guerra prima, intestardendosi sulla Russia poi, negandoci infine più e più volte il necessario aiuto. Questo spiega la condotta del Duce nella fatidica notte in cui Grandi ritenne comunque pregiudiziale il sacrificio della dittatura e del partito per tentare lo sganciamento dalla Germania.

D — E il complotto ?
R — Nessun rapporto di complotto Grandi ebbe col re, con Acquarone, coi militari, tanto da disapprovare -come è noto- il seguito della vicenda, a cominciare dall'arresto di Mussolini. Non mi pare sostenibile, d'altronde, neppure la tesi di chi sostiene che Mussolini, il 24-25 luglio, lasciò fare per passare la patata bollente dello sganciamento, anche se non escludo che questo possa essere stato il parere a posteriori di Grandi. Mussolini, in realtà, non voleva né andarsene, né continuare la guerra, né consegnare l'Italia nelle mani dei Tedeschi. Per questo bloccò in Gran Consiglio l'azione di Scorza e di Farinacci, preferendo mettere ai voti quello che, a quel punto, gli pareva il male minore: l'o.d.g. Grandi.

D — Perché hai battezzato Grandi il fedele disubbidiente?
R — Perché egli fu, fino al Patto d'Acciaio, il più mussoliniano di tutti i gerarchi. Era convinto, infatti, che il Duce fosse l'eroe capace di compiere il Risorgimento, unificando spiritualmente la Nazione e soddisfacendone la volontà di potenza coloniale e adriatica frustrata a Versailles.

D — Mussoliniano, d'accordo, ma anche fascista?
R — Grandi era convinto che il Fascismo fosse un fenomeno transitorio e che dovesse risolversi, in definitiva, nella provvisoria dittatura di Mussolini, avente la missione di ricostruire l'autorità dello Stato unitario, rafforzando l'esecutivo e nazionalizzando le masse, mediante la loro organizzazione sindacale e politica all'interno delle istituzioni monarchiche.

D — Cosa mi anticipi circa gli inediti contenuti nel tuo libro?
R — Beh, nel testo mi occupo -ma qui ne do solo un cenno veloce- dei rapporti tra Grandi e gli altri gerarchi, in modo particolare di quelli con Balbo. Ad esempio, il libro -con documentazione nuova- spiega i reali contorni di quello che G. B. Guerri e C. G. Segre hanno definito il «complotto Balbo». L'episodio viene da me molto ridimensionato nei suoi aspetti scandalistici, ma anche verificato nei suoi aspetti reali, concernenti la forza che Balbo aveva allora nel regime e il grado del suo malumore nei confronti di Mussolini. Certo è che Grandi, quando nel '32 si dimise, fu sorpreso che Balbo rimanesse al suo posto, deducendone, peraltro in maniera erronea, che nemmeno Mussolini era stato capace di sbarazzarsene.

D — E sul Grandi inglese?
R — L'uomo di Mordano amò e rispettò profondamente l'Inghilterra e il suo forte popolo, non però da provinciale esterofilo, ma da uomo in piedi: ne apprezzò, cioè, il senso dell'Impero e il robusto spirito pubblico, senza nascondersi i difetti e senza mai rinunciare all'orgoglio della propria italianità, quasi volesse gareggiare col patriottismo albionico. Si impadronì perfettamente della lingua inglese, approfittandone per far colpo sugli anglosassoni e rompendo con la tradizione diplomatica italiana, fondata sul francese. A Tardieu, che alla Conferenza navale di Londra del '30, lo accusò bonariamente di aver pronunciato il suo discorso in inglese, il Nostro rispose di non ricordarsi di un Giulio Cesare uso a parlare nella lingua dei Galli. Su Grandi e l'internazionale fascista, ti fornisco un particolare inedito: i finanziamenti a Mosley e alle Camicie Azzurre irlandesi di O' Duffy arrivavano da Roma all'ambasciata italiana di Londra in valigia diplomatica e valuta diversa sia dalla lira che dalla sterlina. Era Grandi a fungere da ufficiale pagatore, non senza disdegnare d'impartire lezioni di stile fascista a Mosley.

D — E sul Grandi antitedesco?
R — Un altro particolare inedito. Sempre convinto che Berlino facesse con noi il doppio gioco, usandoci come spauracchio per intendersi direttamente con Londra sulla nostra testa all'epoca della Spagna, Grandi si servì dell'"Evening Standard" per piazzare la notizia che una visita in realtà privata (ospite di Gòring per un evento sportivo-venatario) di Halifax, futuro ministro degli Esteri di N. Chamberlain, in Germania, mirasse invece ad ottenere da Hitler una tregua coloniale di 10 anni, in cambio della mano libera a Berlino nel centro-est dell'Europa, con notevole imbarazzo degli interessati. Lo scopo era quello di seminare zizzania tra Regno Unito e Germania, provocando il primo litigio fra il premier Chamberlain e il suo ministro degli Esteri Eden, poi defenestrato, proprio a prò di Halifax, nel febbraio '38, col decisivo concorso di Grandi. Altro scopo era quello di insospettire Mussolini e Ciano nei confronti di Berlino. Amico di Lord Rothermere e Lord Beaverbrook, Grandi usò spesso la stampa popolare britannica, servendosene per i giochetti come quello indicato, e anche -come diceva lui- per fare la réclame all'Italia, a Mussolini e al Fascismo. Finché, e si ritorna al 25 luglio, non ritenne che fosse giunto il momento in cui l'Italia separasse i propri destini da quelli della Dittatura.

 

Mario Bernardi Guardi

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