l'archivio memoria
Un fedele disubbidiente.
Dino Grandi da Palazzo
Chigi al 25 luglio
II 28 ottobre del 1922 gli Italiani, nella stragrande maggioranza, indossarono
la camicia nera; molti, anzi, se l'erano già messa da qualche tempo. Il 25
luglio del '43, in gran parte se la toglieranno, anche se qualche mese dopo, in
un paese spaccato a metà, qualcuno la ritirerà fuori dal cassetto o per
disperato amore oppure per forza. Sugli anniversari i giornali si gettano da
sempre con appassionata foga: ed è giusto che sia così, perché la gente vuoi
sapere, capire, scoprire. O magari ricordare. Così, se nel '92 a settant'anni di
distanza, si è parlato di ogni minimo retroscena della Marcia su Roma,
quest'anno storici, giornalisti ed anche gazzettieri di quart'ordine ce la
metteranno tutta perché non resti nemmeno un angolino oscuro di quella fatale
estate del '43, quando il Duce dagli altari precipitò nella polvere per volontà
di molti dei suoi, per inerzia di molti altri e magari per qualche altra segreta
ragione che forse verrà fuori dai cassetti della storia.
Strana cosa il fascismo: anche chi lo detesta, come se l'Aventino o la
Resistenza fossero elementi dell'attuale dibattito politico e quindi corresse
l'obbligo di scegliere, ne è segretamente affascinato o, per lo meno,
incuriosito.
«Se non ci fosse stato, dovremmo inventarlo», mi diceva anni fa Pier Maria
Paoletti, direttore di "Storia Illustrata", quando gli chiedevo come mai
dedicasse tante copertine del
mensile al famigerato Ventennio, ai suoi simboli, ai suoi uomini. «I lettori
sono golosi di questi argomenti», osservava. Già, e magari, indipendentemente da
come la pensino in politica, si schierano. Nel senso che, se, ad esempio, si
ricostruisce il profilo di un gerarca, c'è chi si arruola tra i suoi sostenitori
e chi tra i suoi detrattori. Addirittura sulla base della simpatia o
dell'antipatia, prima di informarsi e documentarsi, e quindi essere in grado di
riflettere e di dare dei giudizi non avventati.
Prendiamo, visto che siamo in tema di 25 luglio, un personaggio come Dino
Grandi: suscita in genere antipatie anche in coloro che approvano o giustificano
l'ordine del giorno che mandò a picco Mussolini. Degli altri non è nemmeno il
caso di parlare: per loro, Grandi è un traditore, e basta.
Per mettere a fuoco il controverso personaggio, abbiamo scelto uno studioso da
anni impegnato a scavare nelle carte del gerarca: Paolo Nello, che insegna
Storia Contemporanea all'Università di Pisa, è già autore del volume "Dino
Grandi. La formazione di un leader fascista" (II Mulino, 1987), relativo agli
anni 1895-1929 (data di nascita e data di nomina a ministro degli Esteri del ras
romagnolo) e da in questi giorni alle stampe, sempre per II Mulino, il secondo
volume della biografia: "Un fedele disubbidiente. Dino Grandi da Palazzo Chigi
al 25 luglio".
D — Nello, che cosa deve fare o non fare lo storico ?
R — II compito dello storico è quello di cercare, ordinare, comprendere.
Mettendo al bando ogni pregiudizio, impegnandosi invece ad esprimere i suoi
giudizi sine ira et studio. Più che mai quando ci si occupa di cose
contemporanee: crescono i documenti ma cresce anche la tendenza a lasciarsi
coinvolgere ideologicamente. E invece lo sguardo deve essere lucido. Sembrano
considerazioni scontate; eppure sono ricorrenti, tanto per fare un esempio, i
fraintendimenti, i piccoli o grandi attacchi faziosi nei confronti dell'opera di
Renzo De Felice, che è lo storico che più ampiamente e obiettivamente ha saputo
scavare nel cuore del fascismo. Da De Felice mi viene un insegnamento di
serenità, che ho tenuto presente in ogni circostanza, sia quando mi sono
occupato del movimento giovanile fascista, sia quando i miei interessi si sono
spostati sulle battaglie frondiste del GUF pisano, sia dacché ho incominciato a
lavorare alla biografia di Grandi. Questo è revisionismo? Ma lo storico fa
sempre revisione, nel senso che rende sempre più compiuta, sulla base dell'
intelligenza dei documenti, cioè della ricerca accurata, la sua visione dei
fatti e dei personaggi.
D — D'accordo, e a quali punti fermi sei approdato a proposito del tanto
dibattuto Grandi del 25 luglio?
R — Questo è il mio quadro. Nel luglio '43 Grandi aveva deciso di «provare
qualcosa», informandone Federzoni, ma era assolutamente scettico sull'esito
della propria iniziativa, facilmente rintuzzabile -riteneva- da Mussolini. Lo
trassero d'impaccio, paradossalmente, Scorza e Farinacci, che chiesero la
convocazione del Gran Consiglio per una svolta totalitaria e la resistenza ad
oltranza. Ma soprattutto gli levò le castagne dal fuoco -anche se questo,
Grandi, non lo seppe mai- addirittura il Duce che volle il Gran Consiglio nella
convinzione di poterlo padroneggiare, ottenendone una sorta di voto di fiducia
da esibire al re presso il quale la propria posizione s'era fatta, dopo il
convegno di Feltre con Hitler, assai traballante.
D — Ma, insomma, che cosa voleva Mussolini?
R — II Duce era convinto che la guerra fosse ormai perduta e perduta per colpa
dei Tedeschi. Voleva dunque servirsi del Gran Consiglio per tentare in proprio
lo sganciamento dall'Asse -se non dallo scontro con i Tedeschi- almeno dall'onta
del disonore, dimostrando -si noti- che era stato Hitler a tradirci più volte,
iniziando la guerra prima, intestardendosi sulla Russia poi, negandoci infine
più e più volte il necessario aiuto. Questo spiega la condotta del Duce nella
fatidica notte in cui Grandi ritenne comunque pregiudiziale il sacrificio della
dittatura e del partito per tentare lo sganciamento dalla Germania.
D — E il complotto ?
R — Nessun rapporto di complotto Grandi ebbe col re, con Acquarone, coi
militari, tanto da disapprovare -come è noto- il seguito della vicenda, a
cominciare dall'arresto di Mussolini. Non mi pare sostenibile, d'altronde,
neppure la tesi di chi sostiene che Mussolini, il 24-25 luglio, lasciò fare per
passare la patata bollente dello sganciamento, anche se non escludo che questo
possa essere stato il parere a posteriori di Grandi. Mussolini, in realtà, non
voleva né andarsene, né continuare la guerra, né consegnare l'Italia nelle mani
dei Tedeschi. Per questo bloccò in Gran Consiglio l'azione di Scorza e di
Farinacci, preferendo mettere ai voti quello che, a quel punto, gli pareva il
male minore: l'o.d.g. Grandi.
D — Perché hai battezzato Grandi il fedele disubbidiente?
R — Perché egli fu, fino al Patto d'Acciaio, il più mussoliniano di tutti i
gerarchi. Era convinto, infatti, che il Duce fosse l'eroe capace di compiere il
Risorgimento, unificando spiritualmente la Nazione e soddisfacendone la volontà
di potenza coloniale e adriatica frustrata a Versailles.
D — Mussoliniano, d'accordo, ma anche fascista?
R — Grandi era convinto che il Fascismo fosse un fenomeno transitorio e che
dovesse risolversi, in definitiva, nella provvisoria dittatura di Mussolini,
avente la missione di ricostruire l'autorità dello Stato unitario, rafforzando
l'esecutivo e nazionalizzando le masse, mediante la loro organizzazione
sindacale e politica all'interno delle istituzioni monarchiche.
D — Cosa mi anticipi circa gli inediti contenuti nel tuo libro?
R — Beh, nel testo mi occupo -ma qui ne do solo un cenno veloce- dei rapporti
tra Grandi e gli altri gerarchi, in modo particolare di quelli con Balbo. Ad
esempio, il libro -con documentazione nuova- spiega i reali contorni di quello
che G. B. Guerri e C. G. Segre hanno definito il «complotto Balbo». L'episodio
viene da me molto ridimensionato nei suoi aspetti scandalistici, ma anche
verificato nei suoi aspetti reali, concernenti la forza che Balbo aveva allora
nel regime e il grado del suo malumore nei confronti di Mussolini. Certo è che
Grandi, quando nel '32 si dimise, fu sorpreso che Balbo rimanesse al suo posto,
deducendone, peraltro in maniera erronea, che nemmeno Mussolini era stato capace
di sbarazzarsene.
D — E sul Grandi inglese?
R — L'uomo di Mordano amò e rispettò profondamente l'Inghilterra e il suo forte
popolo, non però da provinciale esterofilo, ma da uomo in piedi: ne apprezzò,
cioè, il senso dell'Impero e il robusto spirito pubblico, senza nascondersi i
difetti e senza mai rinunciare all'orgoglio della propria italianità, quasi
volesse gareggiare col patriottismo albionico. Si impadronì perfettamente della
lingua inglese, approfittandone per far colpo sugli anglosassoni e rompendo con
la tradizione diplomatica italiana, fondata sul francese. A Tardieu, che alla
Conferenza navale di Londra del '30, lo accusò bonariamente di aver pronunciato
il suo discorso in inglese, il Nostro rispose di non ricordarsi di un Giulio
Cesare uso a parlare nella lingua dei Galli. Su Grandi e l'internazionale
fascista, ti fornisco un particolare inedito: i finanziamenti a Mosley e alle
Camicie Azzurre irlandesi di O' Duffy arrivavano da Roma all'ambasciata italiana
di Londra in valigia diplomatica e valuta diversa sia dalla lira che dalla
sterlina. Era Grandi a fungere da ufficiale pagatore, non senza disdegnare
d'impartire lezioni di stile fascista a Mosley.
D — E sul Grandi antitedesco?
R — Un altro particolare inedito. Sempre convinto che Berlino facesse con noi il
doppio gioco, usandoci come spauracchio per intendersi direttamente con Londra
sulla nostra testa all'epoca della Spagna, Grandi si servì dell'"Evening
Standard" per piazzare la notizia che una visita in realtà privata (ospite di
Gòring per un evento sportivo-venatario) di Halifax, futuro ministro degli
Esteri di N. Chamberlain, in Germania, mirasse invece ad ottenere da Hitler una
tregua coloniale di 10 anni, in cambio della mano libera a Berlino nel
centro-est dell'Europa, con notevole imbarazzo degli interessati. Lo scopo era
quello di seminare zizzania tra Regno Unito e Germania, provocando il primo
litigio fra il premier Chamberlain e il suo ministro degli Esteri Eden, poi
defenestrato, proprio a prò di Halifax, nel febbraio '38, col decisivo concorso
di Grandi. Altro scopo era quello di insospettire Mussolini e Ciano nei
confronti di Berlino. Amico di Lord Rothermere e Lord Beaverbrook, Grandi usò
spesso la stampa popolare britannica, servendosene per i giochetti come quello
indicato, e anche -come diceva lui- per fare la réclame all'Italia, a Mussolini
e al Fascismo. Finché, e si ritorna al 25 luglio, non ritenne che fosse giunto
il momento in cui l'Italia separasse i propri destini da quelli della Dittatura.
Mario
Bernardi Guardi
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